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domenica 26 maggio 2019

L'uomo di Lewis...

... di Peter May.


Fin, ex poliziotto di Edinburgo, dopo essere tornato brevemente sulla natia isola di Lewis, nelle Ebridi Esterne, per la risoluzione di un caso, decide di lasciare il lavoro e stabilirsi sull'isola. Qui si imbatte nel ritrovamento del corpo di un ragazzo, sepolto nella torba, che risale, probabilmente, agli anni '50. Quando gli sviluppi dell'indagini coinvolgono la donna che aveva amato in gioventù, Fin decide di indagare, e fa un viaggio a ritroso nel passato di una famiglia e di una comunità. Segreti, menzogne, abusi e atrocità emergono dal passato, e tocca a Finn dare un senso e una conclusione ad una storia che non può più rimanere nascosta. 

L'uomo di Lewis è il secondo libro della trilogia di Lewis scritta da Peter May. I due volumi sono autoconclusivi ed è possibile leggerli indipendentemente. Ma, poichè questo secondo romanzo comincia poche settimane dopo la fine del primo, L'isola dei cacciatori di uccelli, consiglio vivamente di leggerli in ordine, per meglio apprezzare la complessa storia di Fin e dell'isola di Lewis.
L'ambietazione scozzese  è la prima cosa che balza all'occhio del lettore. Essa riempie le pagine e l'unica parola che mi viene in mente per descriverla è possente. Questo romanzo non avrebbe avuto la stessa forza se fosse stato ambientato da un'altra parte.
Le Ebridi Esterne sono formate da piccole isole e piccoli villaggi molto chiusi e isolati, che però posseggono un grande senso della comunità. Peter May ci racconta la storia di un omicidio, che diventa la storia di una famiglia e delle comunità in cui ha vissuto.
Il viaggio indietro nel tempo è affascinante, intrigante e ricco di elementi misteriosi che andranno al loro posto solo con la lettura dell'ultima pagina.
Allo stesso tempo però, questa è la storia di un uomo, e del suo rapporto di amore e di repulsione verso il luogo dove è nato e cresciuto. Fin ne è fuggito appena maggiorenne, credendo di odiarlo; ma quando la sua vita è andata in pezzi, il richiamo dell'isola gli ha restituito equilibrio e stabilità.
Ho amato moltissimo questo lacerantre contrasto di Fin, e soprattutto ho amato la riscoperta dell'amore per il luogo da cui proviene, che non è il paradiso in terra e non è perfetto, ma è parte di lui. Nonostante la durezza dei luoghi e della vita che vi si conduce, c'è un che di consolante nell'idea di accettazione delle proprie orgini. Il contrasto fra l'asprezza dell'ambientazione, la crudezza degli eventi e la riscoperta del protagonista del sentimento per la propria terra rende il protagonista Fin un bel personaggio, scontroso, chiuso e non facile da comprendere, ma sicuramente molto umano.

La trama si svolge su due piano temporali.
Nel presente, Fin indaga sul ritrovamento del cadavere nascosto nella torbiera, in una lotta contro il tempo, prima che dalla terraferma mandino un poliziotto, un estraneo, a indagare ufficialmente. Il cadavere, infatti, sembra legato alla famiglia di Marsaili, la donna che Fin ha amato in gioventù, che in questo momento ha grossi problemi familiari di difficile risoluzione. Fin vuole proteggerla scoprendo la verità prima che qualcuno che viene da lontano ficchi il naso in vicende che non può comprendere.
L'indagine è ben strutturata. Se c'è una cosa che adoro nei gialli è quando le scoperte provengono non da intuizioni campate per aria o da colpi di fortuna dell'investigatore, ma da un vero lavoro di ricerca, in cui ogni passo è conseguenziale a quello precedente. Ed è esattamente così in questo romanzo.
La trama ambientata nel passato è molto interessante, offre molte notizie sulla vita e sulla società scozzese degli anni 40 e 50, diversi spunti di riflessione ed è quella che ha generato, nel mio caso, maggior curiosità. Credo sia la parte migliore della storia, senza nulla togliere al resto. Parte da un orfanotrofio, attraversa i vicoli di una città per arrivare allo splendido paesaggio delle Ebridi, dove il cielo e il mare sono un tutt'uno, e il vento non mette mai di sferzare gli uomini durante il duro lavoro.

Bello e delicato il finale.

Voto: 8

sabato 11 maggio 2019

L'isola dei cacciatori di uccelli...

... di Peter May.

La scheda del libro sul sito della casa editrice Einaudi

Finn Macleod è ispettore della polizia ad Edinburgo. Ha da poco perso un figlio e il suo matrimonio non regge l'urto di questa tragedia. Quando sull'Isola di Lewis, Ebridi Esterne, viene commesso un omicio molto simile ad uno precedentemente commesso ad Edinburgo, Finn, originario del luogo, viene spedito ad investigare nella piccola comunità. La vittima è un uomo che ben pochi avevano motivo di amare. L'indagine costringerà perciò Finn a fare i conti col proprio passato, le proprie origini e con una comunità molto chiusa e legata, da cui era fuggito giovanissimo, ma che ora gli appare sotto una luce diversa.

Non conoscevo nè l'autore nè il romanzo che mi accingo a recensire. La verità è che l'ho letto solo perchè cercavo un libro ambientato in Scozia (sono stata in Scozia una anno fa, per la seconda volta, e ci ho lasciato il cuore, per la seconda volta). E così, per puro caso, ho scoperto un grande romanzo mistery/noir.

L'isola dei cacciatori di uccelli è un romanzo molte forte, molto duro e di una straordinaria quanto ruvida bellezza. La prima cosa che balza agli occhi è  l'ambientazione. Come detto, il romanzo si svolge in Scozia, quasi tutto sulla piccola Isola di Lewis, un isolotto incessantemente spazzato dai venti, dove la natura è aspra e selvaggia e modella il carattere delle persone a sua immagine. In questo romanzo ho visto la vera Scozia, lontana dai miti e dalle leggende di castelli e epiche battaglie; ho visto la lotta quotidiana di una intera comunità contro gli elementi per sopravvire, e allo stesso tempo il forte amore che la lega alla propria isola, a dispetto di tutto.
Un valore aggiunto sono dettagli preziosi che permettono di scoprire la vita quotidiana degli scozzesi lontano dalla capitale Edinburgo (e dell'altra grande città del paese, Glasgow): l'uso del gaelico, che viene loro più naturale dell'inglese; le tradizioni secolari a cui non rinunciano; le fattorie sperdute; la dignitosa povertà, ma anche l'alcolismo e la depressione.

Finn, il protagonista, è fuggito da tutto questo in un'età in cui il piccolo orizzonte dell'isola gli stava stretto, e torna ora, piegato dal dolore, per scoprire che quell'orizzone non era affatto così ristretto.
Ho amato motissimo sia l'ambientazione e i sentimenti contrastanti che suscita in Finn, e ho amato l'evoluzione di questi sentimenti, che lo porta a riconsiderare molte scelte della sua vita, e ad accettare ciò che non può essere cambiato. Questo parallelismo tra uomo e natura è la colonna portante del romanzo e la parte che ho apprezzato di più, perchè permetta a trama e personaggi di bucare le pagine.
Per certi versi, il romanzo mi ha ricordato quelli di de Giovanni; anche se lo stile è molto diverso, anche qui l'omicidio è quasi un pretesto per indagare l'animo umano e soprattutto gli abissi oscuri che nasconde; il passato non è mai passato finchè non ci si fanno i conti, e l'ambientazione è protagonista al pari dei personaggi.

La trama è solida, e oltre all'indagine su un efferato delitto, ci regala ampi flashback sul passato di Finn, che ci permettono di conoscere la comunità in cui è cresciuto, e tutti gli attori del dramma che si consumerà anni dopo. La stretta interconnessione fra i fatti raccontati nei flashback e quello che accadrà poi non è immediatamente chiara, ma si fa sempre più evidente mentre si prosegue con la lettura. La storia perciò diventa sempre più interessante ad ogni pagina.
Lo scrittore alterna sapientemente elementi del noir con elementi presi a prestito dalle migliori saghe familiari.
Ogni cosa è dipinta vividamente; la forza con cui i personaggi vivono, amano, odiano e soffrono non può lasciare indifferenti; così come non si può restare indifferenti davanti ad una trama che colpisce dritta allo stomaco.

Voto: 8

giovedì 20 dicembre 2018

L'assassino ha lasciato la firma. 87° distretto #1...

... di Ed McBain.

In una citta che sembra New York, ma che non lo è, i poliziotti dell'87esimo distretto sono sotto tiro. Qualcuno sta uccidendo con una calibro 45 gli agenti  di quel distretto. Il detective Steve Carella indaga, e la questione finisce col diventare personale, molto personale.

L'assassino ha lasciato la firma è stato di recente pubblicato da Einaudi con il titolo di Odio gli sbirri (più fedele all'originale) e con una prefazione di - udite udite - Maurizio de Giovanni, il quale non ha mai fatto mistero del grande amore che nutre nei confronti di questo autore.
E proprio questa è la vera ragione per cui ho deciso di leggere questo libro, sebbene in un'edizione molto vecchia, rimediata su una bancarella dell'usato (Dio benedica le bancarelle dell'usato!).

Il romanzo è ambientato negli anni '50, in un'America metropolitana dai confini ben delineati: qui i buoni e lì i cattivi. L'ambiguità morale nei personaggi dei noir verrà dopo; qui l'unica difficoltà consiste nel riconoscere i veri cattivi, che spesso e volentieri sono travestiti da persone ipocritamente per bene.

Il romanzo ha un gusto delicisamente classico. Infatti fu pubblicato per la prima volta nel 1956, e dunque ha più di sessant'anni. Sicuramente questi anni pesano sul mio giudizio finale riguardo al romanzo, perchè alcune situazioni, quelle più squisitamente procedurali, mostrano l'usura del tempo. Il romanzo sicuramente non ha più la freschezza e l'originalità dirompente che aveva negli anni '50. Le parti strettamente procedurali all'epoca erano una novità, ma ovviamente oggi ci appaiono datate.  Un esempio su tutti: la descrizione degli interrogatori e degli arresti è particolarmente strana agli occhi del lettore moderno: la sfilata dei fermati di fronte a tutti i poliziotti della città, il capo chino e l'espressione contrita di quasi tutti mi sono sembrati fuori dal mondo, ed ho dovuto più volte ricordare a me stessa che stavo leggendo un libro degli anni '50.
Mancano quasi del tutto scene di violenza o di efferata crudeltà che molte volte sono la cifra stilistica del genere poliziesco, cosa che ho apprezzato moltissimo.
Il protagonista, Steve Carella, ha invece, secondo me, sopportato meglio il peso degli anni che sono passati. Carella è un poliziotto la cui figura, ai nostri occhi di lettori moderni, è deliziosamente retrò. È uno che si identifica quasi totalmente con il suo ruolo di tutore dell'ordine, ha intuito e un pizzico di insofferenza per le regole e le procedure. Potremmo dire che è l'antesignano del poliziotto ribelle che tanto spazio ha trovato successivamente nella letteratura di genere e come personaggio funziona, a parer mio.

Altro punto a favore del romanzo è l'ambientazione. Alcune descrizioni della città e dell'ondata di calore che ne sta prostrando gli abitanti sono da manuale e mi hanno avvicinato ad una storia che si legge molto velocemente e che rischiava di non lasciare un segno. Interessante il legame che si crea fra le condizioni ambientali e le azioni e i pensieri dei personaggi. Da questo punto di vista McBain è riuscito a creare un'atmosfera che coinvolge il lettore e che è, secondo me, il vero punto di forza del romanzo.

La trama è buona, e il mistero del serial killer di poliziotti viene risolto grazie ad una intuizione ragionata di Carella; l'azione è concentrata quasi completamente nel finale, perciò il ritmo del romanzo non è esattamente serrato.

Io adoro i classici e adoro i vecchi libri, perciò ho apprezzato questo poliziesco, ma mi rendo conto che non è un libro adatto a tutti i tipi di lettori. Sicuramente è consigliato ai fan del genere, agli amanti dei classici, a chi cerca gialli con una buona ambientazione e che non siano costruiti esclusivamente da scene adrenaliniche.

Voto: 6 e 1/2

martedì 20 novembre 2018

Quota 33. Storie di una Procura Imperfetta #1...

... di Roberta Gallego.


Una donna bellissima, Oksana  Leykova, è stata uccisa durante una rapina nel pub in cui lavorava. L'indagine vienme affidata ad Alvise Guarnieri, sostituto procuratore di turno della procura di Ardese, coadiuvato dal maresciallo Alfano. Indagando i due riscontrano notevoli incogruenze nella versione della rapina finita male, e scavando più a fondo, fanno emergere intrecci pericolosi tra politica e criminalità.
Sullo sfondo, si muovono i numerosi componenti della Procura, con le loro storie.

Quota 33 è un romanzo con una struttura particolare e, a parer mio, originale. La trama si svolge all'interno di una procura dell'immaginaria città di Ardese, in Piemonte, e coinvolge tutto il personale, dal procuratore fino all'ultimo segretario. È vero che esiste una caso da risolvere (ovvero la morte della bellissima e sfortunata Oksana) ma l'indagine è più un perno attorno a cui l'autrice fa ruotare sapientemente un intero mondo fatto di varie storie e varia umanità, che il focus dell'intero romanzo. 

Quota 33 è  infatti un romanzo corale nel senso più ampio del termine. Risulta difficile individuare un protagonista tra i numerosi personaggi che si muovono all'interno degli uffici della Procura. In questa coralità sta, secondo me, il punto di forza e allo stesso tempo il punto debole del romanzo.
Sicuramente i personaggi, anche quelli che entrano in scena per una manciata di righe, sono tutti molto interessanti. Lo spaccato di umanità descritto da Roberta Gallego è vario e credibile e le loro storie non sono banali; i dialoghi sono arguti e le descrizioni venate di ironia, a volte leggera, a volte amara. Il rovescio della medaglia però è che a volte, specialmente all'inizio, ci si perde un po' tra la gran quantità di nomi, di funzioni svolte all'interno della Procura e di storie. Questo iniziale smarrimento però è dovuto esclusivamente alla gran mole di visi e storie che l'autrice ha scelto di mostrarci e raccontarci. È indubbio che Gallego possieda una grande capacità di narrarre molteplici storie senza annoiare il lettore e senza lasciare che il romanzo si trascini stancamente. Il mio interesse, infatti, non è mai calato, anche perchè l'autrice sembra sempre sapere quando è il momento di tornare alla vicenda principale, e quando è invece il momento di parlare d'altro.
Perciò, nostante questo punto debole che ho evidenziato, trovo che Quota 33 sia una gran bel romanzo, che si legge volentieri e che ci offre un punto di vista inusuale sulla classica indagine protagonista del genere noir.

E a proposito dell'indagine citata, vorrei sottolineare come si tratti di una storia sufficientemente intrigante e articolata, nonostante non sia l'unica ragione d'essere del romanzo.

In conclusione, questo è un romanzo che ho apprezzato molto, al netto di un piccolo smarrimento iniziale, proprio per le sue molteplici sfaccettature e per l'abilità dell'autrice nel gestirle.
Consigliato sia a chi ama il noir e cerca qualcosa di nuovo e originale da leggere, sia a chi non è proprio un appassionato del genere.

Voto: 7 e 1/2.

martedì 15 maggio 2018

La bambina nel buio...

... di Antonella Boralevi.
La scheda del libro sul sito della Baldini+Castoldi

Oggi voglio parlarvi di un libro che mi è arrivato grazie alla gentilezza della casa editrice Baldini e Castoldi, che ringrazio sentitamente.
 
1985. In una villa immersa nella campagna veneta, Manuela e Paolo danno una grandiosa festa per il loro ventesimo anniversario di matrimonio. La festa è splendida, gli invitati altolocati, la cornice lascia senza fiato. Tutto sembra perfetto, fino a che, alla fine della festa, la figlia della coppia, l'undicenne Moreschina, scompare. La cercano tutti sotto un violento nubifragio, ma della piccola nessuna traccia.
2017. Emma Thorpe è ospite del conte Briani nel suo palazzo veneziano. È arrivata a Venezia nella speranza di riprendersi da un trauma.
In una città misteriosa, a tratti gelida e soffocante, Emma conosce per caso il commissario Alfio Caruso, e, sempre per caso, si troveranno ad indagare su un mistero di trentadue anni prima.
 
Antonella Boralevi ha costruito per il suo romanzo un'atmosfera cupa e angosciante , da tragedia imminente ed inevitabile, che mi ha reso difficile mettere giù il suo libro. Accattivante il contrasto, nella parte del romanzo ambientata nel 1985, tra l'incombere della tragedia e lo splendore un po' glamour e un po' fatuo della festa grandiosa che Manuela, padrona di casa e madre della piccola Moreschina, ha dato, con lo scopo principale di mostrare all'alta società la sua ricchezza, la magnificenza della sua casa, la perfezione della sua famiglia. 
Altrettanto ben riuscita è l'atmosfera soffocante della parte ambientata nel presente, in una Venezia poco turistica e molto fredda, indifferente, grigia. 
 
La storia è intrigante e ruota intorno alla sparizione di Moreschina, bambina confusa alle soglie dell'adolescenza, ma dolcissima, intelligente e profonda. Il padre stravede per lei; la madre ha qualche atteggiamento ambiguo, ha evidentemente qualcosa da nascondere, ma entrambi sono devastati da una scomparsa che non ha senso e non ha un perché.
Le ricerche e le indagini vanno avanti a lungo, nessuno sembra rassegnarsi ad ammettere che Moreschina sembra svanita in una nuvola di fumo.
Trentadue anni dopo, le indagini vengono riaperte per un caso fortuito; qualcosa che non dovrebbe essere dov'è collega tra loro alcuni episodi, all'apparenza estranei ai fatti di trentadue anni prima, fino a squarciare il velo nero che copriva la verità sulla sorte di Moreschina. 
Ben delineati mi sono apparsi i personaggi, anche quelli secondari, tutti credibili con le loro ambiguità, peccatucci e piccoli e grandi segreti.
 
Non so se il romanzo possa essere definito un thriller; certo, a tratti ne ha il respiro, ma a ben guardare la verità è stata sotto gli occhi di tutti, anche del lettore, fin dalle prime pagine. Forse, come alcuni personaggi del romanzo, il lettore viene preso dall'urgenza di leggere e capire, e ignora quello che hanno sotto il naso.
Forse per questo sarebbe più appropriato definirlo noir, anche perché di nero, in questo romanzo, ce n'è molto. Soprattutto, c'è da notare come l'oscurità si annidi dove pensiamo non possa mai attecchire.
 
La prosa dell'autrice, al netto di qualche eccessiva ricercatezza linguistica, è poco incline al sentimentalismo ed è lucida, lineare e fredda, con periodi brevi e aggettivazione precisa. Questo è maggiormente vero  nel finale, dove la verità e le sue conseguenze ci vengono raccontate in maniera spietata, quasi brutale, senza fronzoli, colpendo il lettore in pieno petto con un pugno che non ci si aspettava fosse così forte.
 
Questo è un romanzo che ha molto da dire, costruito con indubbia bravura per stringere il lettore in una morsa di curiosità ed angoscia, che culmina in un finale senza misericordia, un finale "brutto, sporco e cattivo" (per dirla cinematograficamente).
 
Voto: 7 e 1/2
 

martedì 8 maggio 2018

Sara al tramonto...

...di Maurizio de Giovanni.

La scheda del libro sul sito della Rizzoli
 
La donna invisibile sedeva sulla penultima panchina, la seconda a uscire dal pomeriggio e a entrare nella sera. [...]. In senso stretto la donna non poteva essere definita invisibile. Se qualcuno si fosse concentrato e avesse scrutato con insistenza proprio dalla sua parte, forse l'avrebbe notata. Ma la concentrazione in quella città era tanto rara da poter affermare che sì, la donna invisibile era davvero invisibile. Minuta, i capelli grigi che le sfioravano le spalle pettinati in maniera anonima, il vestito scuro, le scarpe basse, una giacca leggera, una borsa morbida in grembo, sedeva sul bordo della panchina coprendo le ultime lettere di una scritta di vernice che comunque sarebbe stata incomprensibile. La testa era protesa in avanti, verso il vuoto. Non guardare nessuno, e nessuno ti guarderà. In realtà la donna invisibile stava osservando qualcuno, senza particolare interesse: così, per mantenersi in esercizio. A una trentina di metri, al limite del suo campo visivo, su una delle panchine ancora immerse nel sole, c'erano die giovani che discorrevano. La distanza, le urla dei bambini, gli scooter che sfrecciavano accelerando, i tanti rumori della strada impedivano che anche l'eco di una sola parola del dialogo arrivasse alla donna invisibile. Nonostante questo, lei coglieva il contenuto della conversazione come se fosse seduta in mezzo a loro.
Era il suo potere.
 
Sara è una poliziotta in pensione. Ha lavorato tutta la vita all'ombra dei Servizi Segreti, ascoltando e interpretando intercettazioni ambientali e telefoniche. Anni prima, aveva lasciato il marito e un figlio ancora piccolo per andare incontro al grande amore della sua vita: il suo capo, Massimiliano, scomparso di recente.
Sara viene avvicinata da Viola, che aspetta un bambino da suo figlio, morto in un incidente. Anche grazie ai colloqui serali con lei, la donna accetta la richiesta di una ex collega e torna a  lavorare ancora una volta nell'ombra, per occuparsi di un caso di omicidio conclusosi con la condanna della figlia della vittima, rea confessa. Eppure c'è ancora qualcosa che non torna; qualcuno è in pericolo, perché la verità non è ancora venuta a galla, e Sara è l'unica a cercarla.

Sara al tramonto mi è piaciuto molto. Mi è piaciuta innanzitutto la protagonista, perché è un personaggio non convenzionale, che, ad un'occhiata superficiale, potrebbe sembrare lo stereotipo dell'investigatore solo e tormentato. A dire il vero, Sara è sola e tormentata, ma non è uno stereotipo. Sara non ha rimpianti o sensi di colpa. Non è così che vive la sua vita.
Vent'anni prima, ha fatto una scelta estrema: ha abbandonato il marito ed un figlio piccolo e non si è mai voltata indietro. E nonostante questo cammino l'abbia condotta ad un ritiro anticipato dal lavoro e ad una profonda solitudine, Sara non rimpiange e non rinnega niente.

C'è una profonda malinconia che pervade questo romanzo, bellissimo, triste e struggente, malinconia che si diffonde proprio da Sara fin dalle prime righe. Sara sa cosa ha perso quando il suo grande amore è morto, ma sa anche cosa ha avuto dalla vita. E pensa, più o meno coscientemente, che oramai la sua vita sia finita.
Quando meno se lo aspetta, però, arrivano Teresa, ex collega e amica, e soprattutto Viola ad aprire una breccia nella sua corazza.

Sara al tramonto era diversa. Sara al tramonto aveva nel cuore una porta aperta in cima a una scala a chiocciola, e quella porta era la sua debolezza.

A fare da contrappunto a Sara, troviamo Davide Pardo, poliziotto vecchio stampo, seppur più giovane di Sara, tutto fiuto e lavoro di gambe. Lui sì che ha dubbi, rimpianti e sensi di colpa. È lui che ha svolto le indagini sul caso riaperto ufficiosamente, ed è su di lui che pesa la paura di aver forse arrestato un'innocente. Pardo è solo, come Sara, con l'unica compagnia di una gigantesco cane che aveva comprato per la compagna che lo ha lasciato.
Sara e Pardo sono una improbabile coppia di investigatori, diversissimi per metodo e carattere, ma uniti da una profonda solitudine e da un grande senso di giustizia.

La trama gialla è interessante perché l'indagine va alla ricerca non dei soliti indizi che possiamo trovare in qualunque noir (DNA, orme, macchie di sangue, eccetera). Sara, per investigare, ha bisogno di vedere e parlare con le persone. Solo così può utilizzare la sua straordinaria abilità nell'interpretare il linguaggio del corpo. Per questo l'indagine si svolge in maniera decisamente non convenzionale, ripercorrendo le tappe dell'inchiesta originale ma "leggendole" alla luce delle capacità di Sara. Non posso non sottolineare quanto questo sia stato avvincente per un'avida lettrice di gialli e noir come me, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e di originale. E anche questa volta de Giovanni non mi ha deluso da questo punto di vista.
Sebbene non sia difficile intuire il colpevole, mi ha colpito favorevolmente la rivelazione del movente, perché riesce a dipingere, ancora una volta, l'essere umano in tutte le sue debolezze e meschine aspirazioni.

In fin dei conti, a Maurizio de Giovanni non interessa raccontarci un fatto di sangue e la relativa indagine; o almeno, non solo. A lui interessa parlarci dell'animo umano, della sua poesia, incarnata da Massimiliano e dal suo amore puro che va oltre la morte e la malattia,  e delle sue bassezze, rappresentate dal colpevole e dalle sue ragioni.
È per questo che Maurizio de Giovanni ha dato a Sara, il potere di guardare dentro le persone. Perché potessimo farlo anche noi, attraverso i suoi personaggi.
E come costruisce i personaggi lui,  nessuno mai.

Voto: 7 e 1/2

sabato 16 dicembre 2017

Il detective che ama i libri...

... di John Dunning

La scheda del libro sul sito della Rusconi

Cliff Janeway è un detective della polizia di Denver con un conto in sospeso con Jackie Newton, piccolo delinquente locale. Lo scontro tra i due diventa violento, e Janeway si dimette e si dedica al suo sogno: aprire una libreria di libri rari e di valore. Ma il mondo dei libri non è tranquillo come Janeway sperava, e presto l'omicidio di Bobby Westfall, cacciatore di libri squattrinato, scuote l'ambiente e costringe Janeway a mettersi sulle tracce di un assassino che non smette di uccidere per raggiungere i suoi scopi.
 
Libro singolare questo, che mi è capitato tra le mani per caso.
 
Il protagonista, Cliff Janeway, è un duro non  dal cuore tenero, ma dall'animo colto. Affascinato dai libri, nel tempo libero coltiva la sua passione per quelli più pregiati. Non libri antichi, ma libri moderni nelle loro prime edizioni. Libri che raggiungono, sul mercato, cifre di tutto rispetto, intorno alle migliaia di dollari. Qualcuno potrebbe uccidere per questo?
La risposta a questa domanda diventa drammaticamente evidente quando Bobby Westfall viene trovato morto in un vicolo. Si mormora che stesse per fare il colpo della sua carriera, e le cose si complicano quando in scena entrano una donna bella e misteriosa, anche lei cacciatrice di libri, ed un malavitoso locale violento e senza scrupoli.
Le atmosfere del noir americano sono centrate in pieno, gli elementi tipici sono tutti presenti, mentre l'argomento libri rappresenta il tratto di rottura con i cliché e l'elemento di novità rispetto ad altri romanzi dello stesso genere.
Belle le citazioni tratte dai libri, quasi tutti classici moderni; interessante ambientare un torbido giro di minacce e omicidi nel mondo dei cercatori di libri; eppure non mi sento di apprezzare questo romanzo fino in fondo.
 
In primo luogo, c'è una lunga, lunghissima parte del romanzo (che io ho percepito quasi come una sorta di premessa alla vicenda) in cui l'omicidio di Bobby Westfall passa in secondo piano e ci viene narrato lo scontro, ormai alle battute finali, tra Janeway e Jackie Newton. Questa storia secondaria non viene portata avanti parallelamente alle indagini per l'omicidio, anzi, ruba spesso la scena a quello che dovrebbe essere il cardine della trama (ovvero, la ricerca dell'assassino).
Questa cosa ha appesantito il romanzo, che già conta oltre 400 pagine, senza apportare benefici significativi.
 
Secondo rilievo da fare, i due mondi - quello noir dei sordidi omicidi e quello colto ed elitario dei cacciatori di libri - non sono fusi bene. Per tutto il romanzo ho avuto la sensazione che Janeway fosse totalmente fuori posto, e non escludo che questa fosse magari l'intenzione dell'autore, che voleva fare del suo detective un outsider in entrambi i mondi. Eppure non sono riuscita a togliermi di dosso la sensazione che la fusione non fosse stata completata con successo.
I lunghi e frequenti excursus sul mercato dei libri, su prezzi, reperibilità, librerie non sono stati di aiuto. Anzi, probabilmente hanno contribuito a creare la sensazione di fastidio, di spezzettamento della trama che ha poi generato le impressioni che descrivo sopra.
 
Insomma, un libro con buoni spunti ma non perfettamente riuscito.
Voto: 6 e 1/2

mercoledì 7 giugno 2017

La quinta stagione...

... di Piero Colaprico.


La scheda del libro sul sito della Rizzoli

Pietro Binda, maresciallo dei Carabinieri in pensione, incontra per caso una sua vecchia conoscenza, il borseggiatore Pallonetto. L'uomo gli racconta di aver trovato l'amore in una giovane rom di nome Maronela. ma la ragazza è stata rapita a causa di un debito da lui contratto con la mala albanese. Pallonetto è disperato e non sa a chi rivolgersi. Binda decide di aiutarlo senza immaginare che il problema è molto, molto più grande di quello che sembra.
Ambientato a Milano durante la prima metà degli anni 2000, La quinta stagione ci racconta le indagine dell'ultrasettantenne Pietro Binda, maresciallo dei Carabinieri che da quando è andato in pensione smania per sentirsi ancora utile. Più che un giallo o un thriller, il romanzo può definirsi un noir intriso di rassegnazione e rimpianto. Binda ha deciso di non mollare la sua attività investigativa, ma allo stesso tempo si sente inadeguato ai tempi (non possiede neanche un telefonino) e incapace di adattarsi alla realtà sempre mutante del sottobosco criminale.
Il romanzo è notevolmente appesantito da continui ricordi del passato, addirittura risalenti al periodo della Resistenza; i più molesti comunque sono quelli che narrano operazioni portate a termine da Binda quando ancora era in servizio e che non hanno nessun legame con l'attuale indagine, e ne spezzano il ritmo. Forse la narrazione risente del fatto che l'autore, giornalista di cronaca nera per Repubblica, è abituato a narrare i fatti, e non le storie; ma in un romanzo i fatti possano anche risultare noiosi. Quello che voglio leggere sono le storie e i loro intrecci. Poco mi interessa se Binda, negli anni '80, ha arrestato un tossico che stava morendo di AIDS, o ha fatto un'irruzione in quel posto o in quell'altro, se la cosa non attinenza con la storia che mi viene raccontata.
Quando queste interruzioni sono meno presenti, il romanzo sembra spiccare il volo, acquistare un certo ritmo e un buon livello di suspense. Ma il tutto dura poco.
La laettura è stata per me faticosa e lenta.
Ci sono alcune cose poi che mi hanno dato da pensare in questo noir. Non le intendo come cose necessariamente negative, ma semplicemente ci sono dei particolari che non so come interpretare, come incasellare, diciamo.
Partiamo dal titolo: la quinta stagione, come spiegato nel romanzo, indica la più recente ondata di criminalità che ha travolto Milano (e l'Italia: in questo romanzo viene più volte ribadito che Milano è una sorta di avanguardia di quello che capita nel paese).
 La prima era stata la stagione del boom economico e delle grandi rapine, delle "tute blu" che avevano assaltato un furgone blindato alla fine degli anni Cinquanta, un blitz mai tentato prima d'allora in Europa. Poi era venuta la stagione della grandi bande criminali, anche cento persone alle dipendenze di un capo, e delle bische, dove i gangster sedevano allo stesso tavolo di chemin de fer con gli industriali e i politici. Era nato così il bel grigio milanese, il colore elegante che copre lo sporco, mescola il nero della morte e il bianco della faccia pulita dei riciclatori. A sorpresa scoppiò la stagione inattesa degli anni di piombo, dei terroristi rossi e neri, delle manovre occulte da parte delle spie di mezzo mondo per pilotare gli uni e gli altri. [...] Infine, come se dovesse concludersi il ciclo delle quattro stagioni, arrivò l'ultima, quella dei colletti bianchi che andavano sotto processo dopo decenni d'impunità e di ruberie. Arrivò Tangentopoli, [...]. E invece, nessun mago, nessun religioso, nessuno scienziato, nessun politico aveva previsto la quinta stagione, la stagione delle città dentro le città. La stagione della mala nottambula e straniera, con le sue storie e codici e vite e casini indecifrabili, inafferrabili. La stagione di un terrorismo medievale, in cui la religione c'entrava poco, c'entravano molto di più le trame di potere che, tessute in Paesi scordati troppo a lungo da tutti gli altri, rivendicavano un nuovo scenario, proponevano nuove mistificazioni.
Se le stagioni della malavita si sono succedute con continuità fin dagli anni '50, non mi spiego quel senso di rimpianto, di "si stava meglio prima", che pervade il romanzo e il personaggio principale, che torna continuamente con la memoria ai tempi andati, quando le cose si facevano meglio e - sembra dirci - quando certe cose non accadevano.
Un'altra cosa a cui non riesco a smettere di pensare, è l'immagine di Milano che ci da l'autore. Mi è piaciuta oppure no? Non riesco a decidermi. Questo perché mi è sembrato che Colaprico descrivesse una sorta di Milano vuota, dove ci sono esclusivamente rom, immigrati meridionali, delinquenti stranieri e le forze dell'ordine. Questa sensazione nasce dal fatto che l'autore ha deciso di calcare sempre e comunque la mano sulla provenienza dei personaggi, cosa che mi ha lasciato un po' perplessa. E' davvero di capitale importanza ribadire ad ogni piè sospinto che le varie nazionalità/etnie/origini? In tutto questo amor di precisione, emerge una mancanza: manca il milanese. Perfino l'onesto lavoratore che vive da decenni a Milano e occasionalmente si trova a dare informazioni importanti a Binda viene definito "molisano". È importante? È davvero necessario? C'è una ragione? Non lo so. Ma alla lunga la cosa mi ha infastidito.
Mi è sembrato che l'autore volesse descriverci una città vuota e senza radici, una città che non appartiene a nessuno, dove tutti sono di passaggio. O peggio, una città presa d'assalto di chi non le appartiene, sempre secondo l'autore?
Se la sua intenzione era di comunicare un senso di vuoto, beh, allora Colaprico ha fatto centro. Ma in ogni caso non riesco a non pensare che sia una visione provinciale e una rappresentazione riduttiva e parziale di una metropoli come Milano.
E anche piuttosto pessimista. A parer mio, troppo pessimista e amara.

Voto: 6

sabato 20 maggio 2017

Passato remoto...

... di Leonardo Padura Fuentes.

La scheda del libro sul sito della casa editrice

Cuba, 1989. Mario Conde, tenente della polizia cubana, indaga sulla scomparsa di Rafael Morìn Rodríguez, dirigente del Ministero dell'Industria, uomo capace, integerrimo e intelligente, a detta di tutti. Conde ha conosciuto l'uomo in gioventù, quando frequentavano la stessa scuola superiore, e non ne ha mai avuto una grande opinione, forse perché Morìn ha sposato la bellissima Tamara, amore inconfessato della sua adolescenza, che ancora dopo diciassette anni lui non ha dimenticato. C'è davvero qualcosa di sospetto nella vita dell'uomo scomparso, oppure sono i vecchi pregiudizi e i vecchi rancori che offuscano la mente di Conde?
 
Questo romanzo è il primo che ha come protagonista Mario Conde, tormentato investigatore di polizia. A trentaquattro anni Conde si trascina dietro un bagaglio di rimpianti notevole; la sua vita non ha preso la piega che lui sperava quando da adolescente credeva di avere il mondo nelle proprie mani. Quella sensazione di ottimismo e onnipotenza è svanita, ma Conde la ricorda ancora bene, ed ogni giorno si alza chiedendosi cosa è andato storto, e quando.
Rafael Morìn Rodríguez sembra invece essere tutto quello che Conde non sarà mai. E' riuscito a realizzare i suoi ambiziosi progetti; è diventato un pezzo grosso, è ricco, stimato e soprattutto ha sposato Tamara, l'amore della vita di Conde.
Trovarsi ad indagare sulla sua sparizione costringe il poliziotto a fare i conti con un passato che sembra distante nel tempo ma con cui in realtà non ha mai chiuso.
La narrazione dell'indagine viene così alternata a flashback del passato, che sono ricchi e interessanti più della trama gialla che dovrebbe essere la struttura portante del romanzo.
Ne viene fuori il ritratto di una generazione, nata negli anni della Rivoluzione Cubana, e il ritratto di un paese diverso da quello cui siamo abituati a pensare. Un paese dove la povertà è tangibile ma dignitosa; dove non c'è spazio per l'allegria che siamo abituati ad associare ai popoli caraibici.
E' un ritratto molto triste, amaro e ricco di rimpianti ma povero di speranze per il futuro, come se la Rivoluzione avesse congelato sogni ed illusioni e tarpato le ali alla maggior parte dei giovani, anziché dare loro una speranza in un futuro migliore.
 
Il romanzo è interessante per questa voce che emerge tra le pagine e ci racconta una Cuba inusuale, più che per l'atmosfera gialla o noir.
 
Non posso certo dirmi un'esperta di narrativa sud-americana. La mia esperienza si ferma alla lettura della bibliografia completa di Isabel Allende e sporadicamente di qualche altro autore (per esempio: La breve favolosa vita di Oscar Wao, di Junot Diaz). Eppure sto cominciando a capire una cosa: un tratto distintivo di questa narrativa è l'impossibilità di scindere la narrazione della storia dalla narrazione del contesto e dell'ambiente. Il Cile, Cuba, la Repubblica Dominicana sono ben presenti tanto quanto i personaggi in carne ed ossa.
Questa caratteristica mi ricorda molto le opere di uno dei miei autori preferiti, Maurizio de Giovanni.
Oltretutto, come de Giovanni, anche Padura Fuentes rompe il circolo vizioso degli stereotipi e sceglie una narrazione da un punto di vista inusuale della sua patria.
Non  a caso una volta Maurizio de Giovanni ha detto: Napoli è l'unica città sudamericana fuori dal Sud America.
Ed evidentemente alcuni scrittori napoletani anche qualcosa di sudamericano in loro.
 
Ecco, questo parallelismo serve a far capire che tipo di romanzo è Passato remoto. La scelta di scrivere un noir è funzionale al bisogno di raccontare la vita, e gli esseri umani, in tutte le loro sfaccettature, ma soprattutto quelle meno brillanti, meno edificanti, più amare, ma anche più vive e più vere.
 
A parer mio, se cercate semplicemente un giallo o un noir, questo libro non fa per voi; se volete conoscere Cuba da un punto di vista diverso, allora avete trovato il vostro libro.
 
Voto: 7

lunedì 16 gennaio 2017

Il rumore della pioggia...

... di Gigi Paoli.



La scheda del libro sul sito della Giunti Editore

«Colonnello, i morti parlano.»
«Prego?» 
«Sì, i morti parlano. E a noi spiegano un sacco di cose.»
«Allora le spieghi anche a me, Argentesi.»
E il capitano gliele spiegò.

Carlo Alberto Marchi è un giornalista che si occupa di cronaca giudiziaria. Vive e lavora a Firenze con la figlia Donata, 10 anni ma già con un cervello da adolescente. Inciampa un po' per caso, un po' a causa della sua curiosità professionale nell'omicidio di un vecchio commesso, che lavorava in un negozio di antiquariato nello stesso palazzo dove ha sede l'Economato della Curia fiorentina. Inevitabilmente diverse piste si intrecciano e si sovrappongo in questo delitto: l'ombra della massoneria, rapporti inconfessabili, denaro, lussuria e anche una storia che torna dal passato a reclamare la sua conclusione. 
 
Il rumore della pioggia è un noir ambientato a Firenze sotto una pioggia incessante e fastidiosa. Il giornalista Carlo Marchi racconta parte delle indagine in prima persona, e intanto tenta di destreggiarsi fra il suo lavoro e il ruolo di padre single di una ragazzina di 10 anni, già adolescente nell'anima. Prima di passare all'esame della trama e del romanzo in sé, una cosa la devo assolutamente dire: non sono riuscita a provare simpatia per marchi. Anzi, i suoi tentativi di essere spiritosa e di giocare con ironia con il ruolo di padre single mi hanno irritato. Probabilmente un problema mio, ma tant'è.
In primo luogo ho faticato a seguire i problemi di una figlia che a 10 anni pensa e parla e si comporta come se ne avesse almeno 14. Figlia in costante crisi esistenziale, che però il protagonista liquida in maniera superficiale e irritante senza mai approfondire il disagio della bambina o il perché a dieci anni già parli e ragioni come un'adolescente annoiata. Marchi la liquida con frasi fatte e stereotipi irritanti.
Qui, per esempio, la figlia si lamenta del poco tempo che il padre le dedica, e lui la definisce "casalinga disperata".
Mentre mia figlia parlava, dando prova di avere già pronto un radioso futuro da casalinga disperata, ebbi l’incauto ardire di salutare un paio di avvocati che incrociai sulla strada.
E così scoprii che non contava l’età, ma il sesso: fa’ che una donna, anche se ha dieci anni, si accorga che non le dai attenzione mentre parla e soffrirai le pene dell’inferno.
 
Ancora:
«Non preoccuparti Carlo, tanto fra un po’ la vedrai uscire insieme alle sue amichette col piercing e in minigonna.»
Un’immagine che mi rese improvvisamente auspicabile l’applicazione istantanea in loco della legge islamica dell’Arabia Saudita.
La figlia sta crescendo e lui come liquida il problema? Agitando un burqa. Che ridere, eh.
 
Ma fino a che non la vidi entrare sana e salva nel grande portone della scuola, ebbi la conferma che una figlia femmina fosse la vendetta di Dio sull’uomo.
Qui l'autore tenta di caratterizzare il suo personaggio sottolineando la sua peculiarità in quanto padre di "figlia femmina"; ma onestamente questa sottolineatura ha avuto solo il potere di irritarmi (l'ho già detto che il personaggio mi irrita? No? va bene, ve lo dico ora), perché si tratta di una patina e niente di più.
Qualunque genitore è divorato dalle preoccupazioni quando i figli cominciano a manifestare i primi sintomi di indipendenza e autonomia... e il fatto che si tratti di una femmina niente toglie e niente aggiunge al grado di preoccupazione medio che un genitore solitamente raggiunge. Non è così che si da veramente vita a un personaggio, secondo me.
Il rapporto padre figlia non è niente più di questo, una patina, una caratterizzazione di superficie. Se l'essere padre single doveva dare una connotazione peculiare al personaggio, ebbene l'impresa non è riuscita. Se si toglie una tirata iniziale del giornalista su quanto, poverino, sia duro per lui essere un genitore single, la sua vita scorre tranquilla e la sua routine non viene assolutamente intaccata. Praticamente il padre si limita a preoccuparsi per questo o per quello in maniera superficiale, senza mai approfondire i problemi o intervenire. In tutto il romanzo mai una volta ha avuto una conversazione sulla scuola con la figlia, le ha controllato i compiti, o è corso ad una riunione scolastica (per fare un esempio sciocco).
 
Per (mia) fortuna il romanzo è raccontato da Marchi solo per metà. L'altra metà è narrata in terza persona e segue le indagini del colonnello dei Carabinieri Lion e del magistrato incaricato Mastrantonio. Qui il registro è completamente diverso e il romanzo diventa interessante. Le indagini sono ben descritte nella loro iniziale incertezza, nella molteplicità di piste che si aprono davanti agli investigatori e anche nelle difficoltà di scegliere una direzione invece che un'altra.
Ci sarebbe infatti una soluzione facile per chiudere il caso, quasi servita su un piatto d'argento da molteplici prove indiziare; e poi ci sarebbe un'altra soluzione che per quanto improbabile continua a ripresentarsi nelle deduzioni logiche del giudice Mastrantonio, il quale vorrebbe liquidarla ma non può. Alla fine sarà costretto a fare i conti con una verità assai scomoda.
A Marchi va dato il merito di aver riportato a galla, tramite un'investigazione giornalistica, una vecchia storia solo apparenza conclusa e solo all'apparenza non collegata al delitto.
L'emergere del passato con i suoi nodi ancora da sciogliere è il nocciolo del romanzo e la parte più bella (nonostante Marchi, sì) e rende la storia degna di essere letta.
 
Tutto sommato, un bel noir con una trama sfaccettata, logica e solida. Interessanti i personaggi appartenenti alla forze dell'ordine e alla magistratura. Meno riuscito il giornalista co-protagonista del romanzo.
Voto: 7

mercoledì 6 aprile 2016

Il metodo del coccodrillo...

...di Maurizio De Giovanni.
 
L'ispettore Giuseppe Lojacono è un bravo poliziotto siciliano. Un giorno un pentito dichiara, falsamente, che l'ispettore ha passato informazione ai clan mafiosi della zona. Riscontri non ce ne sono, Lojacono sembra innocente, ma su di lui pesa l'ombra del sospetto. La moglie lo lascia, la figlia non vuole più vederlo e viene trasferito a Napoli, che lui vive come una specie di prigione.
Nel commissariato dove presta servizio, i colleghi non gli rivolgono la parola, ed il suo superiore gli intima di restare fuori da ogni indagine. Finchè una notte in cui è l'unico di turno, rispondendo ad una chiamata, accorre sul luogo dell'omicidio di un ragazzo di sedici anni, e nota sul posto dei fazzoletti bagnati da quelle che si riveleranno lacrime. L'assassino, ribattezzato il Coccodrillo, non si fermerà al primo omicidio. Grazie all'intervento del pm Laura Piras, che sa guardare alle qualità di Lojacono e oltre il pregiudizio, l'ispettore comincia ad indagare su questo caso.
 
Lasciatemi dire una cosa: uao! Conoscevo la scrittura morbida e lenta di De Giovanni, e l'apprezzavo, ma qui l'autore ha, secondo me, superato se stesso. Il metodo del coccodrillo è un noir degno dei migliori autori americani; è duro, veloce, crudo, dolente. Non per niente ha vinto il Premio Scerbanenco 2012.
La trama è abbastanza lineare ed è facile intuire, più o meno a metà, dove si andrà a parare. Ma questo non toglie nulla al piacere della lettura perché l'intreccio è congegnato in modo che, anche una volta compreso il disegno dell'assassino, il lettore si troverà incollato alle pagine e a Lojacono seguendo la sua indagine e sperando riesca a fermare il serial killer.
I personaggi si portano dietro la loro umanità, senza scadere nella macchietta del poliziotto problematico, duro dal cuore tenero; sono molto umani e non sono super eroi. Sono "normali".
L'antagonista, il Coccodrillo, è una serial killer atipico. Non si tratta infatti del classico pazzo psicopatico con una infanzia tragica alla spalle; no, è umano e "normale" pure lui.
Io non apprezzo particolarmente quando gli autori di thriller cedono la parola all'assassino. Mi innervosisce, onestamente, perché di solito non mi interessa niente dei tormenti interni dell'assassino; io spero solo che lo prendano il prima possibile (sì, ho una visione un tantino manicheista quando si parla di thriller). Certo, devo riconoscere che qui le parole dell'assassino hanno il loro senso e il loro perché, ma ho continuato a trovarle una fastidiosa interruzione alla trama.
L'idea poi di narrare la storia adottando occasionalmente il punto di vista di altri personaggi secondari ha permesso all'autore di sviare, con un pizzico di furbizia, il lettore dalla totale comprensione delle vicende. Non svelerò il trucchetto di De Giovanni, dirò solo che è stato bravissimo a far travisare completamente al lettore la storia di uno dei personaggi minori (storia che però ha il suo peso nella trama principale); il bello è che, una volta scoperto l'inganno, il lettore dovrà ammettere che mai gli è stato detto che A era A; lo ha dedotto - sbagliando completamente - da solo. E' un dettaglio importante, perché odio quando gli autori ti prendono in giro ingannandoti raccontando bugie.
Il finale riserva un colpo di scena forte, inteso non come rivelazione sconvolgente, ma come evento traumatico e duro da digerire.
Quando leggendo un finale ti manca letteralmente il fiato, allora sai di essere davanti ad un buon libro.
 
Anche questo libro di De Giovanni è ambientato a Napoli. Lasciatemi spendere due parole sull'ambientazione.
Napoli è una città complessa e sicuramente unica. Solitamente, quando si parla di Napoli, prevale una certa immagine stereotipata (negativamente) oppure olografica, da cartolina. Bene che vada, se qualcuno vuol parlare positivamente della città o dei suoi abitanti, se ne esce con frasi come "voi napoletani siete... [inserire una aggettivo a caso tra simpatici, furbi, allegri, appassionati, focosi...]". Come se noi napoletani avessimo una testa sola, un'anima sola e girassimo col mandolino a tracolla, una fetta di pizza in tasca, fischiettando funicolì funicolà. 
No.
Lo stereotipo, anche quando è positivo, è riduttivo e mortificante.
E per questo mi ha colpito l'ambientazione di De Giovanni. Ha descritto Napoli con gli occhi di uno che la vive come l'ultimo dei luoghi in cui vorrebbe essere, che non si fa incantare dal paesaggio da cartolina, anche perché, per tutto il romanzo piove, fa freddo e tira vento. Il ribaltamento totale dei luoghi comuni. Maurizio De Giovanni rivendica un po' di normalità per una metropoli complicata, che vive situazioni problematiche tipiche delle grandi città ad ogni latitudine.

Sapevo che Maurizio De Giovanni era bravo, ma con questo libro mi ha stupito.
Voto 9