giovedì 24 febbraio 2011

La formula dell'arcanum...

...di Livio Macchi

Dopo un brutto, bruttissimo romanzo storico, mi sembra giusto parlare di un buon romanzo storico, qual è, appunto, La formula dell'arcanum.

Napoli, 1754. La splendida città distesa all'ombra del Vesuvio cela un prezioso segreto, un tesoro custodito con gelosa premura. Si tratta della formula dell'Arcanum, la chiave alchemica capace di dare vita a piccoli capolavori di inestimabile valore: le porcellane della Real Fabbrica di Capodimonte. Un tesoro che fa gola a molti, soprattutto a chi è abituato a ottenere sempre ciò che vuole. Una complessa trama di furti e rapimenti varcherà i confini della città partenopea per approdare nella gelida San Pietroburgo, alla corte della capricciosa zarina Elisabetta, disposta a tutto pur di strappare alla manifattura borbonica il segreto di tanto splendore. Toccherà al capitano Ferrante Chilivesto indagare su quello che nell'arco di breve tempo si tramuterà in un intricatissimo affaire internazionale.

La prima cosa che mi ha colpita, è l'ambientazione nella Napoli misteriosa e affascinante del '700. Napoli, in quel periodo, era sospesa fra esoterismo e illuminismo, fra scienza e magia, fra passato e progresso. Ok, forse sarò anche un pochino di parte, ma trovo che sia un'ambientazione splendidamente suggestiva per un romanzo.
Livio Macchi, poi, sa renderla al meglio.
In primo luogo, sceglie come teatro della sua storia, almeno all'inzio, la Real Fabbrica di porcellane di Capodimonte: una scelta originale e interessante, tanto più che l'autore ne parla con competenza e precisione.
Dai dettagli tecnici sulla preparazione dell'impasto per le porcellane, alla loro pittura; dalla vita nella Real Fabbrica fino alla vita di corte; dai vicoli, ai palazzi di giustizia, tutto è solidamente descritto e argomentato, ma senza mai essere pesante. L'autore non sale mai in cattedra, dispensandoci lezioncine: il romanzo mostra quel che è essenziale ai fini della trama, senza interromperla con conferenze didattiche di dubbia utilità (uhm, capito signor Schatzing? Sì, è l'ennessima frecciatina all'autore de il Il diavolo nella cattedrale il cui modo di impartire lezioncine storiche durante il romanzo mi ha irritato enormente!)
L'ambientazione storica si respira, non ci viene imposta dal narratore.

Il protagonista, Ferrante Chilivesto, è imbevuto di una leggera ed ironica solidità. Secondo me, non si può non trovarlo simpatico.

Il capitano era rimasto sempre nel suo primo ufficio, invecchiando insieme allo scrivano Costanzo, costretti lì, con la carriera imbalsamata entrambi, da una sua certa insofferenza al concetto stesso di gerarchia. A cinqueantasette anni Ferrante Chilivesto era ancora capitano di giustizia e condivideva il grado con dei giovanotti che si facevano beffe di lui usandolo ad esempio di come non bisognasse comportarsi se si voleva fare carriera: era diventato un manuale vivente. Perchè lui aveva sempre e solo fatto di testa sua, mostrando negli anni un'incapacità quasi fisica di blandire, di omaggiare, di piegarsi insomma ai rudimenti della diplomazia. Non aveva mai agito per calcolo, e i risultati si vedevano. I capitani di vent'anni prima ora erano tutti governatori, ufficiali, consiglieri, e per la strada, se lo incontravano, non potevano trattenere dei sorrisini come sciabolate da cui Chilivesto si sottraeva con schivate immaginarie, ovvero pensando a quanti culi avevano dovuto leccare per essere dov'erano.

Indubbiamente Chilivesto è un uomo amareggiato, cui la sorte non ha risparmiato brutti colpi, ma non è il tipo che si piange addosso, anzi, attraversa la vicenda di cui è protagonista con ironia e leggerezza, senza mai prendersi troppo sul serio.
Quest'ironia e questa leggerezza permeano tutto (o quasi, come chiarirò meglio in seguito) il romanzo facendone una lettura piacevolissima e rilassante, anche se, ad essere sincera, il primo impatto si è rivelato ostico a causa di una certa involutezza dello stile di Macchi. Niente di grave, niente che renda il libro illegibile: c'è solo bisogno di abituarsi ad uno stile ricercato, ricco, pieno di subordinate e incidentali.
Faccio un esempio.

[Carlo di Borbone è indispettito perchè qualcuno, ad un'asta, sta comprando tutte le preziose statuine appena uscite da Capodimonte]
"Ma chi cazz'è stu guaglione?"
Così, con grazia tutta regale, Carlo di Borbone interrogò i cortigiani, e il refolo di dispetto che intorbidiva la cesellata frase li fece mutissimi, in attesa.

Ancora:
Allora pensare Chiunque muoia io non soffrirò lo metteva, rispetto alla vita, nella posizione di uno spettatore che assista a una cuccagna, indifferente all'agitarsi dei contendenti e al loro precipitare proprio quando, saliti faticosamente fino in cima al palo, per un nonnulla scivolano sulla pece fino in fondo, imprecando.

Ma, come si può vedere dagli esempi, non è niente di terribile, basta farci l'occhio.

La trama ha ritmo ed è ben svolta, specialmente nella prima metà del libro. La storia comincia col capitano Chilivesto alla ricerca di un ladro, e poi di un rapitore, con i due casi che si fondono alla fine in uno; da notare che la casa editrice Piemme qualifica il romanzo come thriller, ma in realtà questo non è assolutamente un thriller, mancando del tutto la suspence, l'ansia, l'urgenza tipiche di questo genere letterario.
Vien da chiedersi se chi cura la pubblicazione di un libro l'abbia, non dico letto, ma almeno sfogliato. Domanda a maggior ragione legittima se si pensa che la copertina si premura di spiegarci che abbiamo in mano un "thriller", mentre nessuno ha ritenuto importante informarci che questo libro è il sequel di un altro, La voce dei Turchini, e che sebbene possa essere letto tranquillamente anche da solo, qui le vicende narrate ne La voce trovano il sigillo definitivo.

Dunque, La formula dell'arcanum è un giallo, e per comprenderne la soluzione Chilivesto dovrà confrontarsi e sforzarsi di capire la varia umanità che gli passa davanti.
Ecco dunque un altro punto di forza del romanzo: se Chilivesto è un protagonista credibile, simpatico e ironico, i comprimari non sono da meno, in particolar modo gli operai della manifattura e le loro famiglie. I personaggi secondari infatti sono vari, tutti diversi, solidi ed ognuno parla al lettore con voce propria.
Con i crimini sui cui il capitano indaga si intrecciano le vicende di Macedonio e Masella, due giovanissimi fidanzati che lavorano alla Fabbrica, la cui storia tragica e toccante è uno dei momenti più belli del romanzo.

Le indagini porteranno Chilivesto dapprima a Livorno e poi verso San Pietroburgo.
Interessante la scelta dell'autore, con un cambio stilistico audace, di raccontarci il lungo viaggio in carrozza attraverso un diario tenuto da Chilivesto stesso, ulteriore prova dell'originalità e cura con cui è scritto il romanzo.

Quando però Chilivesto arriva a San Pietroburgo, cominciano le dolenti note, ovvero le ragioni per cui, all'inizio, ho defintio il romanzo buono e non ottimo.
In Russia, la trama prende tutta un'altra direzione, col nostro capitano che incontra un fantasma del suo passato (narrato appunto ne La voce dei Turchini) e ne esce trasformato. Perde la sua leggerezza, il suo distacco verso la vita, la sua ironica indifferenza verso le umane miserie, e diventa svenevole, melanconico, romantico. La storia ne risente, la soluzione del giallo passa in secondo piano e il lettore ha l'impressione che il cambiamento sia stato troppo repentino e poco giustificato. Non posso escludere che, se avessi letto il primo dei romanzi con protagonista Chilivesto, forse avrei compreso meglio il suo mutamento; ma io sono dell'opinione che un libro deve comunque essere comprensibile e credibile di per sè, al di là del fatto che faccia o meno parte di un'opera più ampia.
Giudizio negativo anche per il finale, che viste le premese avrebbe meritato più spazio e che vede Chilivesto autore di un comportamento, collegato alla risoluzione del caso, che francamente non gli si addice per nulla.

Nonostante questo - e per concludere - La formula dell'arcanum è un libro da leggere, perchè è scritto con accuratezza storica e stilistica; perchè sa essere ironico, tragico, leggero o profondo a seconda delle situazioni; perchè ha personaggi ben delineati ed una trama interessante anche se non perfetta nel suo svolgimento.
In mezzo al mare di prodotti mediocri che spesso ci si ritrova in mano, spicca come un raggio di sole che si riflette sull'acqua.

lunedì 14 febbraio 2011

Il monastero dei libri proibiti...

...di Antonio Garrido.

Germania, anno 799. Theresa, una giovane apprendista che realizza pergamene pregiate, viene accusata di aver distrutto il laboratorio dove suo padre stava traducendo in segreto, per ordine di Carlo Magno, un documento di vitale importanza per la cristianità. Costretta a fuggire, la ragazza trova asilo nel monastero di Fulda, dove conosce l'erudito frate Alcuino di York. Insieme con lui (sic), dovrà far luce su una serie di misteriosi eventi che stanno sconvolgendo la regione e che ruotano attorno ad un archivio di libri proibiti...

In 469 pagine, avessi trovato un libro proibito che fosse uno! E nella quarta di copertina viene citato addirittura un intero archivio di libri proibiti! Dovevano essere così proibiti che sono stati cancellati dal romanzo, evidentemente!
Complimenti davvero a chi ha scelto il titolo per il romanzo (che nell'originale spagnolo di chiama La escriba) e a chi ha scritto la sinossi per la quarta di copertina. Sono stati davvero illuminanti.

Così come ho trovato illuminante che, sulla copertina del libro, appena sotto il nome dell'autore, sia scritto in bella evidenza: romanzo storico.
Ringrazio vivamente la Sperling e Kupfer per avermelo fatto sapere, perchè, in caso contrario, non credo che me ne sarei accorta.
Il contesto storico è tratteggiato in maniera piuttosto grossolana, con degli errori che vanno dalle imprecisioni fino alle vere e proprie castronerie.
Si va da una donna - Theresa - ospitata in un monastero (non in un convento, eh, e non in una foresteria), a persone del popolo che mangiano carne anche due volte al giorno (e in un periodo di carestia); dalla protagonista che va a vivere a casa di una nota prostituta senza subire riprovazione sociale di nessun tipo, alla medesima prostituta assunta nelle cucine del monastero.
Theresa, la protagonista, è una donna moderna (e non in senso positivo), che di medievale non ha proprio nulla. E' completamente fuori dal contesto storico e sociale.
Sa leggere e scrivere, è emancipata, va in giro da sola, amministra delle proprietà, compra degli schiavi e soprattutto, fa, nel 799 d. C. un lavoro da uomo: la scrivana, l'amanuense.
Ora, un personaggio emancipato, avanti coi tempi, ci può pure stare; ma l'intero mondo che la circonda dovrebbe inorridire nel vedere una ragazza comportarsi in questa maniera, e, probabilmente, dovrebbe andarla a stanare di notte con le torce e i forconi. L'ostilità nei suoi confronti dovrebbe ben presto diventare un problema per Theresa. Invece le viene finanche permesso di tentare la prova che da apprendista scrivana l'avrebbe fatta diventare una scrivana vera e propria. Poco o nulla conta il fatto che il percamenarius (ovvero, una sorte di custode delle pergamene da trascrivere) le sia ostile e la sottoponga a prove impossibili; poco conta che la sua ostilità generi poi l'accusa di aver causato l'incendio del laboratorio. Il punto è che all'epoca una donna non avrebbe mai potuto nemmeno aspirare a farla, quella prova.
La letteratura, storica e non, è piena di figure femminili che tentano di aggirare i limiti imposti dalla società nelle maniere più fantasiose. Potrei perfino citarvi Mulan delle Disney - che proprio un trattato di storia non è, ma almeno gli scenaggiatori si rendono conto che all'epoca, in Cina, una donna non poteva diventare un soldato, e difatti Mulan si traveste da uomo per andare in guerra al posto dell'anziano padre, ma, se non ricordo male, quando viene scoperta, Mulan non è elogiata per il suo coraggio e bla bla bla, ma viene accusata di aver disononrato la sua famiglia col suo comportamento inappropriato. Solo quando salva la vita all'Imperatore, per Mulan ci sarà un po' di gloria, e sto parlando di un cartone animato!
E quando ti viene spontaneo citare un cartone animato delle Disney come esempio di maggior accuratezza rispetto ad un romanzo storico, quello è il segnale che qualcosa nel mondo non va.
E secondo me, quello che non va si intuisce da un'affermazione che l'autore fa nei ringraziamenti finali.

Un romanzo storico deve essere, più che storia, un romanzo. La documentazione non è che la scenografia, la vernice che fa brillare e mette in luce i personaggi, l'involucro che li legittima e li rende verosimili. Ma, come accade anche con una vernice troppo densa, se la documentazione cresce fino a rendere opaca la tela, senza dubbio il dipinto verà rovinato.

Mi dispiace, ma il ragionamento è viziato. La documentazione non è scenografia, non è una cornice, ma rappresenta le fondamenta su cui poggia il romanzo. La documentazione non potrà mai essere così eccessiva da rovinare un romanzo, perchè per ambientare una storia in un determinato periodo storico, lo devi studiare fino alla noia; devi sapere vita, morte e miracoli dell'epoca - e poi, eventualmente, puoi prenderti qualche licenza artistica. Puoi far soggiornare un personaggio storico in un luogo dove in realtà non è mai stato; puoi mettere un'epidemia di peste in un periodo in cui non c'è stata, ma non puoi ignorare il contesto sociologico e culturale dell'epoca, perchè altrimenti il romanzo storico non è più tale. Ci sono dei paletti che non puoi spostare, altrimenti il periodo storico cessa di essere, per l'appunto, storico, e diventa altro, o meglio, niente.
Mi sarei aspettata come minimo che alla fine del romanzo l'autore mi illustrasse le libertà che si era preso nel rappresentare quel determinato periodo storico, e invece ho trovato un'affermazione abberrante, secondo cui documentarsi troppo potrebbe rovinare un romanzo storico. Come dire che se un avvocato studia troppo le leggi, potrebbe rovinare la causa che sta patrocinado. Insomma, il concetto è lo stesso, e a me questa affermazione sembra solo un modo per giustificare errori e imprecisioni.

Passando oltre, c'è da chiedersi: almeno il romanzo ha una storia avvincente? E' interessante? Vale la pena di passare sopra le approssimazioni storiche?
La risposta è no, no e ancora no.
La trama è formata da due doverse sotto-trame che alla fin fin non hanno nulla in comune; finita l'una si passa all'altra così, tanto per andare avanti. Theresa e Alcuino scoprono una partita di grano avvelenato che viene venduta e provoca diverse morti tra il popolo; a questi episodi è legato l'omicidio di una giovane, di cui viene accusato un povero ragazzo con disturbi mentali. Alcuino si batterà anche contro il vescovo per salvare il ragazzo, dimostrando uno spiccato senso della giustizia e una grande umanità (tenete a mente questa cosa!), non esitando a farsi nemici potenti pur di dimostrare la verità.
Theresa lo aiuta ad indagare, e nel frattempo si butta tra le braccia di uno, Hoos Larsson, che ha appena conosciuto (ok, lui l'ha salvata da un tentativo di stupro), e intreccia quasi immediatamente con lui una relazione anche sessuale; inutile precisare che la cosa, quando viene scoperta, non scandalizza nessuno, nemmeno i monaci.
Ho provato un'antipatia istantanea per Theresa, perchè nonostante dovesse essere una figura di donna libera ed emancipata, in realtà  riesce ad essere solo irritante.
Come quando ad esempio uccide un orso con un colpo solo di balestra senza aver mai usato una balestra in vita sua - e senza sapere nemmeno come si usa.
Oppure quando riesce ad impagliare il suddetto orso meglio del cacciatore che fa da quel mestiere, senza sapere nulla della tecnica per imbalsamare gli animali.
Ci sono molti piccoli episodi nella trama che fanno di Theresa una specie di super-donna, che fa benissimo ogni cosa, anche quando non ha le più elementari nozioni di base della materia. In questo modo il personaggio non ha un briciolo di credibilità e plausibilità.
Risolto il caso del frumento contaminato, Theresa riceve dal re Carlo Magno un appezzamento di terra e naturalmente sa come coltivarlo molto meglio dell'ingegnere che il re le ha inviato per aiutarla. L'ingegnere, tale Izam, si innamora all'istante di Theresa (e figurarsi se non era così!).
Subito dopo, la ragazza decide, così, tanto per, di tornare a Wurzburg dove è ancora accusata di aver incendiato il laboratorio (saranno passati si e no due mesi dalla sua fuga), e io quasi quasi mi aspettavo che dicesse qualcosa del tipo "il mio lavoro qui è finito!" e cavalcasse solitaria verso il tramonto.
Tornata a Wurzburg con Hoos, Izam, Alcuino e un delegato papale, Theresa si mette a cercare suo padre, che nel frattempo e scomparso ed è stato accusato di omicidio. Ovvio che la sua scomparsa e l'accusa hanno a che vedere con la preziosa pergamena, ma a questo punto la trama si fa così contorta che il famigerato spiegone finale dura diversi capitoli e io non sono sicura di averlo compreso per bene nonostante l'abbia riletto due volte (non sto scherzando, l'ho davvero riletto due volte!).
Allora, cercando di mettere ordine nel guazzabuglio di sparizioni, omicidi, trame, rapimenti e voltafaccia, scopriamo che:
- Gorgia, il padre di Theresa, stava trascrivendo per per ordine dell'imperatore una pergamena che altro non è che la Donazione di Costantino. Perchè la stesse trascrivendo  non ci è dato saperee soprattutto non ci è dato sapere perchè è di vitale importanza finire prima che arrivi il delgato papale - cioè, è di vitale importanza presentare al delegato una copia della Donazione, quando si ha in mano l'originale.

- Il segretario del conte di Wurzburg lavora per l'imperatrice di Bisanzio (la quale non vuole che si sappia della donazione di Costantino che darebbe troppo potere al papato), e d'accordo con il percamenarius Korne e Hoos Larsson, (che in realtà fa il doppio gioco) tenta di uccidere Gorgia, per sottrargli la pergamena. Visto che il primo tentativo, all'inizio del romanzo, va a vuoto, i tre decidono di imprigionarlo perchè trascriva la pergamena per loro (per favore, non chiedete spiegazioni).

- Gorgia, intanto, perde un braccio a causa di una ferita, ma riesce a scappare e si nasconde in una miniera abbandonata.

- Intanto il conte cerca Gorgia, e (cito testualmente) per avere una scusa per cercarlo imbastisce delle false accuse di omicidio contro di lui (per favore, non chiedete).

- Hoos intuisce dove si nasconde Gorgia, ma fa finta di nulla, e d'accordo con i suoi compari, rapisce le figlie del conte e le piazza nella miniera dove Gorgia si nasconde per farlo accusare di rapimento (ricordo che l'uomo è già accusato di svariati omicidi  - no, per favore, non chiedete).

- Theresa scopre casualmente che Hoos fa il doppio gioco (con un classico espediente: lo sente parlare, non vista,  con un complice e i due riepilogano per filo e per segno tutto il piano fin lì svolto, e tanto per essere sicuri che Theresa capisca, la minacciano pure di morte). Trenta secondi dopo aver scoperto che Hoos è un farabutto doppiogiochista, Theresa è già tra le braccia di Izam, l'ingegnere di Carlo Magno. Il fatto che lei andasse a letto con un altro (cosa risaputa perchè Alcuino li becca insieme) non lo turba minimamente (così come non sembra turbare nessuno, nemmeno i monaci).
Ridicolo il modo in cui il giovane giustifica la sua tenerezza per Theresa. Dovete sapere che quando Carlo Magno lo invia ad aiutare Theresa, lui le parla del suo lavoro e lei - da gran dama qual è - non fa altro che sbadigliare fino a che lui si scusa perchè la sta annoiando.
Ebbene, quando la donna emancipata e libera corre a rifugiarsi tra le braccia di Izam perchè ha scoperto che il suo amante è un gran bastardo, Izam stesso ricorda deliziato l'interesse con cui lei lo ascoltava.
Izam si è fatto un film nella sua testa e lo sta rivedendo al rallentatore. Contento lui...
A proposito della scoperta del tradimento di Hoos, quando all'inizio del romanzo qualcuno aggredisce il padre di Theresa per rubargli la pergamena affidatagli da Carlo Magno, noi vediamo che l'aggressore ha un tatuaggio a forma di serpente sul braccio.
Ebbene, Theresa va a letto con Hoos, gli cura una ferita quasi mortale e mai l'autore, nel descriverci le scene, sente il bisogno di dirci un piccolo, trascurabile particolare: indovinate che cosa ha tatuato Hoos sul braccio?
Esatto, un serpente. Questo particolare ci verrà rivelato solo dopo la scoperta che il giovane è un sicario prezzolato che sta con Theresa per arrivare a suo padre e alla pergamena. Io questo lo chiamo barare...evidentemente qualcun altro lo chiama scrivere un romanzo.
- Alcuino, uomo di mentalità aperta e di spiccato senso della giustizia, che non esista ad assumere nelle cucine del monastero di Fulda una nota prostituta incinta, improvvisamente si trasforma in un monaco cinico e freddo, lascia che Gorgia venga catturato e imprigionato pur sapendolo innocente perchè deve arrivare alla pergamena (la cosa migliore non sarebbe stato blandirlo per farsela consegnare?) e lascia addirittura che lui muoia in prigione a cusa di una ferita infetta. Senza che il lettore abbia alcun indizio o sentore, Alcuino tiene un comportamento diametralmente opposto a quello che aveva tenuto a Fulda quando aveva salvato un innocente e accusato invece un uomo potente.
- Alla fine Theresa, accusata di aver sottratto la pergamena viene scagionata grazie ad un duello dove il suo campione (Izam) sconfigge Hoos, campione dell'accusa, provando così la sua innocenza. Indovinate chi vibra il colpo mortale che decide il duello? Ma ovviamente Theresa con la balestra! E tenete presente che questo è il terzo colpo che abbia mai tirato in vita sua, ed è il secondo mortale.
Una volta finito il duello Alcuino rivela che sapeva che Theresa era innocente ma sperava di incastrare in quel modo Hoos e i suoi complici. Alcuino aveva le prove che il delegato papale era stato corrotto con denaro di Bisanzio (proibito in territorio franco), e che lo stesso denaro era stato poi passato ad Hoos, ma ritiene comunque opportuno far svolgere il duello (di nuovo, non chiedete).
Il romanzo si chiude con l'happy end di routine...ed un sospiro di sollievo da parte mia!

In conclusione, uno dei romanzi più inconcludenti, approssimativi e contorti che abbia mai letto.

lunedì 7 febbraio 2011

La biblioteca dei morti...

...di Glenn  Cooper.

Questo romanzo comincia nel dicembre 782 in un'abbazia sull'isola di Vectis (Inghilterra), quando il piccolo Octavus, accolto dai monaci per pietà, prende una pergamena e inizia a scrivere un'interminabile serie di nomi affiancati da numeri.
Questo romanzo comincia il 12 febbraio 1947, a Londra, quando Winston Churchill prende una decisione che peserà sulla sua conscienza sino alla fine dei suoi giorni.[...]
Questo romanzo comincia il 21 maggio 2009, a New York, quando il giovane banchiere David Swisher riceve una cartolina su cui ci sono una bara e la data di quel giorno. Poco dopo, muore.

Apro la recensione citando il risvolto di copertina perchè credo sia un buon modo di introdurre questo romanzo senza svelare troppo della trama. Infatti ho deciso di scrivere questo post tentando di parlare del libro senza rivelare particolari fondamentali della storia: La biblioteca dei morti si regge su di un'unica, splendida, affascinante idea, e se ve la rivelo, è finita.

Andiamo con ordine. Nel romanzo ci sono effettivamente tre linee temporali, all'apparenza separate tra di loro. Questo comporta qualche difficoltà, da principio, nella lettura del romanzo. Insomma, non è facilissimo saltare dal medioevo, al dopoguerra, fino ai giorni nostri tentando di non perdere il filo e di capire cosa abbiano in comune un'abbazia medievale, un intervento dei servizi segreti inglesi e un'idagine del FBI per la cattura di un serial killer.

Il romanzo si apre ai giorni nostri, con il primo omicidio del serial killer.
E qui devo segnalare una cosa che mi ha dato un po' fastidio: Glenn Cooper ha imbrogliato.
Mi spiego.
Ho già accennato al fatto che le vittime sel serial killer ricevono una cartolina con disegnata sopra una bara e la data della loro morte. Quando viene commesso il primo omicidio, la vittima chiede al suo carnefice se ha spedito lui la cartolina.
La risposta è: e gli sembrò che il ragazzo rispondesse "sì, lo spedita io, figlio di p******"
Il punto è che alla fine si scoprirà che la cartolina non l'ha spedita il ragazzo in questione. Ok, c'è quel sembrò che è un tantinello ambiguo, e capisco che l'autore deve anche poter sviare il lettore; ma seminare falsi indizi che mi portino fuori strada è un conto, affermare cose che non sono vere ne è un altro. Ed è sleale. Non vale tenere alta la suspence ricorrendo alle bugie.
Forse il punto è che questa linea narrativa è la più debole, e si sarebbe potuta eliminare senza fare un gran torto al romanzo.
Il serial killer che annuncia in anticipo i suoi delitti: sai che novità! Aggiungeteci l'agente FBI alcolizzato, insofferente alle regole, ma in fondo onesto, che si innamora di default della sua bella collega precisina fresca d'accademia, e avrete un quadro della situazione.
Apriamo una parentesi: ma la storia d'amore in un romanzo che tratta di altri argomenti è obbligatoria? La inseriscono gli editori come clausola obbligatoria nei contratti che fanno firmare agli scrittori, o cosa? Oppure è una legge immutabile dell'universo, cui nessuno può sfuggire? Qualcosa del tipo legge matematica?
Dati due personaggi in un qualsivoglia romanzo, di sesso opposto e che respirino entrambi, essi finiranno con l'innamorarsi in punto compreso fra pagina 50 e la pagina che rappresenta i due terzi del romanzo.
Signori scrittori, ebbasta! Davvero, non se ne può più di 'ste storie d'amore inserite random nei romanzi!
Io non ho nulla contro l'amore, intendiamoci, ma per innamorarsi i personaggi devo essere motivati, ci deve essere qualcosa che li spinge l'uno nelle braccia dell'altro...e poi perchè una volta tanto, due esseri umani di sesso opposto, dopo averne passate di tutti i colori, non possono scoprirsi profondamente e fraternamente amici?
Ok, chiudiamo la parentesi e andiamo avanti.
Dicevo che linea temporale ambientata ai giorni nostri in fin dei conti è piuttosto banalotta e superflua; questo perchè il mistero che sta alla base del romanzo si intuisce, tutto sommato, a circa metà libro,  ma mentre le altre due linee temporali conservano fascino e continuano ad essere avvincenti, la terza, una volta svelato il segreto che sta alla base delle azioni del supposto serial killer, è piuttosto piatta e senza mordente. Una volta che sai 1. chi è il serial killer, 2. come fa a fare quello che fa, e 3. che nessuno è in pericolo, non è che resti poi molto a tenerti incollato alle pagine, no?
E poi, avrei qualche dubbio sul fatto che una volta scoperto il grosso segreto che sta alla base del romanzo, una persona normale si metta a fare truffe assicurative... mah! Non è che la cosa mi abbia convinta molto!

Molto più interessanti le altre due linee temporali, specialmente quella ambientata nell'abbazia di Vectis nel VII secolo dopo Cristo, che vale da sola il prezzo del romanzo. Come detto, ad un certo punto si intuisce il mistero che sta alla base di questa linea temporale e delle altre due, ma la voglia di sapere come la storia ambientata nel Medioevo si sviluppi non viene meno, anzi.

Lo stile è scorrevole e pulito, ed il romanzo si lascia leggere facilmente, a parte un iniziale smarrimento dovuto alle tre linee temporali. Ho notato anche la tendenza a raccontare eventi del passato a volte superflui, spezzando lo sviluppo della trama, ma niente che renda il libro illegibile.

Perciò, in conclusione, lo considero un bel romanzo d'evasione che merita la sufficienza, nonostante qualche difetto. Consiglio la lettura anche perchè sembra che ci siano degli sviluppi interessanti nei due romanzi che seguono questo (Il libro delle anime e La mappa del destino). Per ora sto leggendo Il libro delle anime; sarò più precisa quando lo avrò finito.