lunedì 27 novembre 2017

La sposa normanna...

... di Carla Maria Russo.




La scheda del libro sul sito della Piemme Edizioni

Costanza d'Altavilla, principessa normanna, vive serenamente in convento da quindici anni quando viene costretta a lasciare la vita monastica e sposare il figlio dell' imperatore Federico di Svevia, Enrico. Il matrimonio si rivela subito un calvario: Enrico è un uomo rozzo e violento, che gode nell'umiliare la bellissima e raffinatissima moglie. Determinato a distruggere tutto ciò che Costanza ama, Enrico cala in Italia per rivendicare la corona del regno normanno nel Sud Italia, devastando il paese lungo il cammino.

Quando ho iniziato a leggere questo romanzo, sono rimasta un po' perplessa. Stentavo a riconoscere tra le pagine la scrittrice che mi aveva fatto ridere e piangere con il meraviglioso Lola nascerà a diciott'anni. La scrittura mi sembrava algida e distante, e credevo che il libro non mi avrebbe mai presa, per così dire.
Poi, dopo i primi capitoli, mi sono ritrovata immersa nella lettura e dimentica del tempo e delle pagine che scorrevano. Ho divorato (e scusate il termine abusato, ma è andata proprio così) il libro in un'unica serata. E con questa recensione sono qui a chiedermi cosa sia accaduto, e quale misterioso incantesimo la scrittrice abbia gettato su di me.

Probabilmente, le perplessità iniziali sono dovute al fatto che la Russo utilizza uno stile trasparente. L'autrice c'è, e lo si vede nella cura dei dettagli, ma resta rispettosamente in disparte, lasciando che siano gli eventi storici a parlare per lei. Questo crea, in principio, un senso di distacco, ma dopo qualche capitolo, gli eventi cominciano davvero a parlare. E prendono la scena, e sono vividi davanti ai nostri occhi, e scorrono senza intralci o rallentamenti inutili.
Ecco, secondo me l'incantesimo della scrittrice mi ha permesso di entrare nel Medioevo dalla porta principale.

La vita di Costanza d' Altavilla è un susseguirsi di eventi che non sfigurerebbero in un romanzo d' appendice. Violenza, un amore impossibile, guerre, intrighi, prigionia, crudeltà, perdita delle persone amate sono gli eventi con cui la principessa normanna dovrà confrontarsi negli anni del suo infelice matrimonio.
Il cardine attorno a cui ruota però l'intero romanzo è il desiderio di maternità di Costanza. Un desiderio a lungo frustrato dalle circostanze, ma che si rivela al lettore come puro e delicatissimo, perché nulla ha a che vedere con la ragion di stato. Costanza desiderava un figlio per colmare la sua vita d'amore, non certo per salvaguardare la propria precaria posizione presso la corte germanica, che le era ostile. Credo che la bellezza di questo personaggio stia in questo: Costanza non si fa travolgere dal gioco sporco che si consuma sopra la sua testa, gioco a cui ha dovuto sacrificare tutta la sua vita, per volontà altrui. Rimane fedele a se stessa e a ciò che ama, ovvero suo figlio e il regno del sud Italia.

Una menzione speciale merita Enrico di Svevia, che nella sua meschina crudeltà è allo stesso tempo un personaggio che ruba la scena del romanzo e per il quale non si può che provare pena e disprezzo.

Molto belli e avvincenti gli ultimi capitoli, che narrano dell'infanzia del figlio di Costanza,  Federico (futuro Federico II di Svevia), nei vicoli di una Palermo vivace e multiculturale.

Insomma, questo è un romanzo storico incredibilmente ben scritto, accurato, che sa suscitare sentimenti nel lettore e possiede il giusto mix di storia e immaginazione per affascinare il lettore.

Voto: 7 e 1/2.

domenica 26 novembre 2017

Mr. Zuppa Campbell, il pettirosso e la bambina...

... di Fannie Flagg.

La scheda del libro sul sito BUR Rizzoli

Oswald Campbell, cinico e disincantato cinquantenne di Chicago, riceve dal medico una diagnosi infausta: i suoi polmoni sono così malridotti che non sopravvivrà ad un altro inverno a Chicago. Il medico gli consiglia di svernare al sud, e Oswald sceglie la minuscola comunità di Lost River in Alabama, perché è l' unico posto che può permettersi.
Abituato alla solitudine e alla malattia, Oswald, orfano e senza famiglia, parte piene di pregiudizi e con poche speranze. Eppure a Lost River incontrerà una comunità che cambierà la sua vita.

Devo iniziare la recensione di questo romanzo dicendo quello che dico sempre dei libri di Fannie Flagg: questa storia è meravigliosa. Tenera, delicata, consolante. Lascia un sapore dolcissimo in bocca e riconcilia con il mondo.

Si tratta di una storia dal sapore natalizio (sebbene spazi in un arco temporale più ampio, la conclusione avviene a Natale ed è magica), perfetta per questo periodo.
Il protagonista, Oswald Campbell, non è propriamente il tipico personaggio dei romanzi di Fannie Flagg. Non è una persona dolce, empatica, affascinante o strampalata, parte di quelle comunità del sud degli Stati Uniti che abbiamo imparato a conoscere tramite questa autrice. È un solitario, messo a terra dalla vita, che ha rinunciato a sperare. Non ha affetti, non ha legami, non ha hobby. In parole semplici, conduce davvero una vita tristissima. Per sua fortuna il caso, e le sue scarse risorse economiche, lo portano a Lost River, dove ritroviamo tutta la galleria dei tipici personaggi della Flagg. C'è la vedova di mezza età compita, pilastro della società; la vecchietta strampalata; l'anziano saggio e bonario; la donna rimasta sola che affronta i problemi con naturalezza e sulla cui solidità tutti possono fare affidamento.
Nel minuscolo paesino, stretto fra i boschi e l'ansa di un fiume, vivono una cinquantina di persone, tutte con un fortissimo senso della comunità. Queste persone amano il loro prossimo senza affettazioni e senza secondi fini, e con la loro naturalezza riescono in brevissimo tempo a scardinare le difese di Mr. Campbell.

Figure centrali del romanzo sono, in tal senso, una bambina senza famiglia, Patsy, e l' uccellino che vive nell'emporio del paese, un cardinale di nome Jack (e non un pettirosso come nel titolo. La scelta del termine è però giustificata dal fatto che la parola cardinale nel titolo avrebbe potuto sviare il lettore italiano).
Campbell, Patsy e Jack son tre personaggi molto diversi tra loro, ma hanno in comune l' essere stai emarginati dai rispettivi ambienti di appartenenza fino a che non sono stati accolti nella comunità di Lost River. Non soltanto i tre diventeranno importanti per le persone che li hanno accolti, ma in maniera singolare diventeranno dipendenti l'uno dall'altro.

Il nocciolo del romanzo, e il suo senso profondo, sta proprio qui: tre figure che più diverse non potrebbero essere trovano finalmente il loro posto nel luogo più improbabile. Come a dire: ognuno di noi ha un cammino che conduce da qualche parte, un posto, un ruolo che ci aspettano.
Ad un certo punto, i pezzi del puzzle delle nostre vite vanno a posto da soli, ci dice Fannie Flagg. E questo è un pensiero dolcissimo e consolante.

Voto: 7

domenica 12 novembre 2017

Louisiana...

... di Maurice Denuziere.

Louisiana, 1830. Adrien de Damerville, ricco proprietario terriero di origine francese, ed il suo attendente Clarence Dandrige attendono l'arrivo a Bagatelle, la piantagione dove vivono, di Virginie Trégan, giovane orfana e figlioccia di Adrien. Virginie ha completato la sua educazione a Parigi, e si appresta a rientrare in Louisiana dopo una lunga assenza.
Al suo rientro non è più la bambina che aveva lasciato gli Stati Uniti: adesso è una giovane donna bellissima e spregiudicata. E con le idee molto chiare.
Ben presto diventerà insostituibile a Bagattelle, conquistando il cuore di tutti gli uomini che le capitano a tiro, mentre gli anni passano e la storia degli Stati Uniti scorre sullo sfondo.
 
Ho trovato questo libro su una bancarella dell'usato, e l'ho acquistato con grande entusiasmo. Sono una fanatica del periodo della Guerra Civile Americana, specialmente quella vista con gli occhi dei Sudisti. Insomma, non per niente Via con vento è il mio romanzo preferito (anche se sono ovviamente perfettamente cosciente del fatto che l'economia del Sud degli Stati Uniti si basava sullo sfruttamento intollerabile e indegno di altri esseri umani, ammantato di ipocrisia e giustificazioni risibili; eppure c'è qualcosa che mi affascina di questa epoca storica; forse si tratta del mito costruito presumibilmente dopo la caduta del Sud; mi affascinano un po' tutte le cause perse, e mi interessano anche moltissimo le conseguenze e le implicazioni della guerra civile, portata avanti - a parole - per abolire la schiavitù, mentre in realtà a nessuno importava davvero della sorte degli ex schiavi.)
 
Il fatto che nonostante io sia un'appassionata non avessi mai sentito nominare romanzo e autore - che pure ha vinto il premio Bancarella nel 1980 proprio con questo volume - avrebbe dovuto farmi sorgere qualche domanda. E anche il fatto che online si trovano pochissime recensioni (si contano sulla punta delle dita), nessuna sinossi e il volume sia reperibile esclusivamente usato avrebbe dovuto farmi sorgere qualche dubbio.
Dubbi comunque perfettamente fugati da un'attenta e approfondita lettura del romanzo in questione.
Per farla breve: Louisiana è un mattone. E non esiste un modo gentile per dirlo. È un romanzo lungo, lento, pedante, prolisso e noioso.
 
L'autore dovrebbe narrarci la storia di Virginie, piccola intrigante arrivista, sfacciata arrampicatrice sociale dall'intelligenza vivace e calcolatrice. La sua storia però, di per sé assai banale, si perde tra mille descrizioni di fatti storici meno noti che nessuna attinenza hanno con la trama; si perde tra infinite descrizioni sull'abbondanza o meno del raccolto di cotone; tra divagazioni sul prezzo di questa o quella materia prima; e tra mille altri dettagli profani che niente aggiungono alla comprensione della trama o dei personaggi.
 
Ho letto su Wikipedia che il romanzo è nato da un'inchiesta giornalistica condotta dall'autore sui francesi stabilitisi nel Sud degli Stati Uniti. Bene, sembra che l'autore si sia limitato a inserire brani della vita di Virginie e degli abitanti di Bagatelle tra un capitolo e l'altro della sua inchiesta.
 
I personaggi restano sempre molto distanti dal lettore. Niente ci racconta davvero cosa pensano, cosa sognano e cosa li spinge ad agire |(o a non agire). Li vediamo muoversi ma restano per noi degli sconosciuti, dalle motivazioni oscure, per cui non proviamo alcuna empatia. L'unico che sfugge, almeno parzialmente, a questo triste destino, è Clarence Dandridge, l'amministratore della piantagione, il quale viene descritto come un uomo la cui vita si svolge principalmente nella sua testa. Perciò l'autore si premura di farci sapere cosa pensa e come ragiona. Peccato però che si tratti di uno degli uomini più noiosi della storia della letteratura mondiale. Ok, ha un tragico segreto sepolto nel suo passato, segreto che però viene nominato un paio di volte in tutto il romanzo, e che ci viene svelato nelle ultimissime pagine, senza che ci sia mai stata data l'opportunità di incuriosirci o di provare empatia grazie ad esso.
 
Onestamente, l'unica cosa che ho trovato tollerabile nelle quasi 500 pagine del romanzo, sono state alcune considerazioni sulla condizione degli schiavi nella Louisiana. Denuziere, in questo senso, offre alcuni spunti di riflessione interessanti.
Ad esempio l'autore fa dire ad un suo personaggio (un inglese in visita a Bagattelle), riferendosi agli yankees:
 
"Bisogna vedere con quanto disprezzo trattano i negri liberi. La libertà, ai loro occhi, è una ricompensa sufficiente per quei poveri diavoli che dormono nel fango delle strade e si guadagnano il pane facendo lavori giudicati indegni dei bianchi". 
 
Quando Virginie ricambia la visita e si reca in Inghilterra, verso la metà del romanzo, c'è una interessante riflessione che confronta il destino e le miserevoli condizioni degli operai inglesi con quelli degli schiavi delle piantagioni. L' uomo infatti le dice:
 
"La libertà di questi uomini e di queste donne (gli operai, n.d. Lisse) è la speranza. I vostri schiavi non hanno nessuna probabilità di uscire dalla loro condizione. [...] I nostri operai possono elevarsi [...]"
"Ma quelli che tendono la mano agli angoli delle strade sperando il pane dalla carità pubblica, quelle donne cenciose, quei marinai monchi d'un braccio o d'una gamba, quei vecchi addossati ai muri delle case, che speranze possono avere?"
"Quelli sono i rifiuti, i rottami della nostra società. Il più delle volte hanno quello che si meritano, non possiamo occuparci di loro."
 
La riflessione finale, dopo il viaggio alla scoperta del progresso e delle ricchezze inglesi, è che l' Inghilterra, esempio di liberismo, trattava i suoi operai peggio degli schiavi del cotone.
Indubbiamente interessante, ma non basta.
Non basta perché le riflessioni, per quanti stimolanti, sono esclusivamente per gli occhi del lettore e non incidono mai sulla trama o sui personaggi, modificandone i sentimenti o le azioni. I personaggi continuano dritti per la loro strada, e sembra che nulla possa toccarli nel profondo.
Probabilmente perché una profondità non ce l' hanno.
 
Da dimenticare.
Voto: 4

La casa di tutte le guerre...

... di Simonetta Tassinari.

La scheda del libro sul sito della Corbaccio

Certo che avrei voluto assomigliare alla nonna Mary Frances! Era la grande ambizione della mia vita, ma, per disilludermi, sarebbe bastato uno specchio. La nonna Mary Frances era bella, esile e bionda, con gli occhi azzurri, i capelli ondulati a metà guancia, un ovale perfetto, un naso sottile e una carnagione bianchissima. Teneva molto alla sua figura snella e dritta come un fuso. Quando si accorgeva di essere un po’ ingrassata pregava la sua governante, la Bea, di prepararle del brodo, e per una settimana a pranzo mangiava solo filini o quadrucci all’uovo per tenersi leggera. Aveva un modo speciale di camminare, di ridere e soprattutto di parlare, si capisce, con il suo bell’accento inglese che non perse mai. Profumava di Femme, portava sciarpe di seta, scarpe allacciate alla caviglia e stendeva sulle labbra un velo di rossetto rosa pesca. Se aveva dei difetti, io non li vedevo. Tutti la chiamavano «la signora» e io la adoravo, benché fosse palese che non ci somigliavano neppure nella forma delle unghie. Ero così orgogliosa di lei che silenziosamente ringraziavo la sorte poiché, per l’appunto, la zia Prospera era la mia prozia e non mia nonna.
E il motivo era semplice: non avrei cambiato la mia con nessun’altra al mondo.

Rocca, paesino dell'entroterra romagnolo, anni '60. Silvia trascorre le vacanze estive dalla nonna di origine inglese, una donna amorevole, intelligente e raffinata, che tutti in paese chiamano semplicemente la signora. Silvia ama quelle estati passate nella grande casa con giardino, tutte uguali ma tutte bellissime. Ma nel 1967, qualcosa cambia. L'incontro con Lisa, una ragazzina che non appartiene al suo mondo, segnerà l'inizio di un'amicizia ferocemente osteggiata dalla nonna, altrimenti sempre pronta ad assecondare l'amata nipote. Cosa si nasconde dietro il divieto inflessibile della nonna? E perché il padre di Lisa sembra nutrire una grande ostilità per la famiglia di Silvia?
Le due ragazzine sfideranno i pregiudizi degli adulti e scopriranno un segreto che tutti hanno tentato, senza riuscirci, di dimenticare.
 
Con La casa di tutte le guerre Simonetta Tassinari ci porta nel mondo ovattato, tranquillo e nostalgico della Romagna degli anni '60. La voce narrante del romanzo, Silvia, a dieci anni e mezzo ha una visione molto lucida dell'ambiente che la circonda, e soprattutto degli adulti, che la trattano come una piccola principessa. La sua intelligenza e la sua lucidità, comunque, sono sempre quelle di una bambina, e le piccole e grandi ipocrisie, bugie e segreti degli adulti, sebbene non passino inosservati,  le risultano il più delle volte incomprensibili.
Ad esempio, in paese c'è una sorta di ostracismo per la famiglia Bandini, composta da Lisa e da suo padre Tito, comunista, ubriacone e pecora nera del paese. Ma per Silvia le etichette apposte dagli adulti non hanno alcun significato finché non riesce a vedere con i suoi occhi Lisa e suo padre.
Questa scelta caparbia cambierà il corso degli eventi non solo di quella estate, ma anche di tutta la vita di Silvia.
Il romanzo ruota attorno ad un segreto che potrà essere svelato solo quando Silvia si accorgerà che dietro le apparenze quasi nessuno è come sembra davvero. L'adorata nonna Mary Frances non è perfetta ed infallibile come appare alla bambina; Lisa non è un animaletto selvatico come dicono le voci di paese; Tito, suo padre, non è quel buono a nulla ubriacone e pericoloso che tutti descrivono; e la vita dei Frassineti, la famiglia di Silvia, non è così perfetta come appare a tutti.

Silvia è un personaggio molto riuscito. Non che sia esente da difetti, tutt'altro. È evidente che si tratta di una bambina piuttosto saccente, a tratti presuntuosa ed egocentrica, ma allo stesso tempo i suoi pensieri, che ci guidano attraverso il dipanarsi del romanzo, sono molto naturali e coerenti, e non suonano mai artificiosi. Non è mai facile, per un  autore, entrare nella testa di una bambina, e per di più di una degli anni 60, ma la Tassinari ci riesce con una naturalezza sorprendente.

Il punto forte di questo romanzo è proprio la solidità e la naturalezza del racconto, che scorre fluido, che viene narrato con un linguaggio semplice ma evocativo.  Durante tutta la lettura non ho potuto fare a meno di provare una sorta di malinconia, come per qualcosa che avevo perso e che non avrei ritrovato mai più. Non si tratta tanto dell'atmosfera degli anni 60, epoca che non ho vissuto ma che comunque oramai incarna, nell'immaginario di tutti noi, una sorta di epoca d'oro scomparsa, quanto della bravura con cui l'autrice ci conduce, insieme a Silvia, verso la fine dell'infanzia, avvertendoci, rigo dopo rigo, che qualcosa di irripetibile sta per finire, che questi giorni perfetti non torneranno mai più e li rimpiangeremo per sempre. In questa ottica, gli anni '60, sono perfetti per aggiungere quel pizzico di innocenza e malinconia che rende l'atmosfera del romanzo unica.
Silvia crescerà durante quella estate scoprendo appunto le carte di un gioco che andava avanti da troppo tempo; e l'autrice sembra dirci che si cresce davvero quando le invincibili certezze dell'infanzia crollano per permetterci di guardare oltre il velo delle nostre illusioni.

Insomma, questo romanzo è un piccolo gioiello. Unico neo, a parer mio, un finale un po' affrettato e un po' troppo zuccheroso.

Voto: 7 e 1/2