mercoledì 27 marzo 2019

L'isola delle anime...

... di Johanna Holmström.

La scheda del libro sul sito della casa editrice Neri Pozza

Finlandia, 1891. Kristina sta tornando a casa dopo una lunga giornata di duro lavoro in una fattoria. Scivola sul fiume remando controcorrente per raggiungere la sua casupola, e con lei ci sono i suoi due bambini. Il padre dei bambini è lontano, e Kristina non ne ha notizie da tempo. La donna è stanca, tanto stanca, quasi non riesce più a remare. Vorrebbe riposare ma non può, deve portare i bambini acasa, e preparare loro la cena, lavarli, accudirli. Quasi senza accorgeresene Kristina getta i due bimbi addormentati fuori borso, e si rende conto solo il giorno dopo dell'orrendo crimine commesso.Viene così mandata a Själö, un'isoletta che ospita un manicomio per donne ritenute incurabili. Davanti a lei sfileranno gli anni e le storie di altre donne, recluse e infermiere, che consumeranno la loro vita in quel posto isolata e senza speranza.

Come lettrice ho poche, semplici regole. Una di queste è di stare alla larga dai romanzi che autori e/o case editrici definiscono potenti. Solitamente l'aggettivo in questione è sinonimo di: schifezza supponente e sopravvalutata, non leggibile dai comuni mortali ma che l'autore ritiene sia il romanzo che cambierà la storia della letteratura mondiale. Questa ferma convinzione deriva dalla mia esperienza personale, ma sono ben lieta di affermare che L'isola delle anime è l'eccezione alla (mia) regola, e che il romanzo è davvero evocativo e potente come lo definisce la copertina.

La storia si apre con un avvenimento tragico, forte e crudo. Con una prosa delicata e dolente, la Holmström ci porta a conoscere Kristina, e la sua stanchezza e la sua solitudine diventano le nostre. Fin dalle prime pagine il romanzo cattura prorpio perchè riesce a fare quello che ogni buon libro dovrebbe fare: trasportarti nella testa del personaggio. E di certo non è facile farci comprendere il pensiero e le motivazioni di una infanticida, eppure l'autrice ci riesce, senza scadere nel pietismo, senza giustificare un crimine terribile, ma semplicemente mostrando la grande fragilità dell'essere umano, la fragilità, in questo caso, di una donna stanca e sola, che arranca sulla strada della vita.
Io credo che chiunque sia stata madre e abbia passato notti insonni e giorni a correre cercando di incastrare qualunque altra cosa con la cura di un neonato possa capire la lacerante solitudine di Kristina. La Holmoström dimostra, da subito, di parlare al lettore con un linguaggio universale, cosa che di solito è il marchio di fabbrica dei grandi libri.

Ma i temi trattati non si esauriscono qui. Per Kristina, e per noi, si aprono le porte di un manicomio, un modello di ospedale psichiatrico che non aveva niente da offrire alle pazienti. In realtà si trattava più di un luogo di detenzione, senza alcuna prognosi e senza alcuna speranza di guarigione nè di reale cura per le pazienti.
Questo tipo di struttura era diffusa un po' ovunque nel secolo scorso in Europa: che si trattasse di manicomi, oppure di ospizi per madri sole o povere, o "ricoveri"per ragazze cosiddette perdute, questi erano luoghi dove rinchiudere donne che non si conformavano ai canoni della società, e risultavano scomode, imbarazzanti o fastidiose per le famiglie o le autorità. In pratica, un gigantesco tappeto dove nascondere la polvere. Perchè questo erano quelle donne, non tutte malate di mente: polvere negli ingranaggi di una società che non tollerava diversità o deviazioni da quella che era considerata la normalità.



Lo sviluppo della trama è lento e pacato. Vorrei sottolineare come anche lo scorrere del tempo è volutamente nebuloso all'interno del romanzo. Ci sono uno o due punti fermi in cui l'autrice ci aiuta a capire quanti anni sono passati, ma per il resto lo scorrere del tempo è volutamente confuso, e questo conferisce ancora maggior impatto ad una ambientazione soffocante e claustrofobica.

Le storie narrate sono così forti che non necessitano di particolare enfasi stilistica per colpire il lettore, ma praticamente parlano da sole.
Sebbene quella di Kristina sia la quella emotivamente più coinvolgente, anche le storie delle altre pazienti sono significative e profonde. A fare da filo conduttore tra le varie storie, mentre gli anni passano, è Sigrid, infermiera giovane con una forte vocazione, che avrà la sua storia da raccontare.
In particolare mi è piaciuta quella di Elli, giovanissima paziente che non soffre di reali disturbi mentali. La sua unica colpa è quella di aver tenuto una condotta sregolata e moralmente riprorevole secondo gli standard dell'epoca. Interessante (e doloroso, ma l'avrete capito che questo libro non regala nè speranza nè emozioni facili da metabolizzare) il suo percorso di paziente senza malattia all'interno di una struttura psichiatrica. 

Di questo romanzo mi ha colpito la forza dei temi e delle storie narrate; e mi ha colpito il fatto che, nonostante la gravità degli argomenti, esso si sia rivelato di una scorrevolezza quasi incredibile. Per questo, lo consiglio vivamente.

Voto: 8

lunedì 25 marzo 2019

Scritto a Napoli #2: Fattaccio napoletano...

... di Alessandra De Martino.

Torna, dopo mesi di colpevole silenzio, la rubrica Scritto a Napoli, appuntamento mensile senza scadenza fissa in cui esploreremo le varie sfaccettature della letteratura made in Naples. Per questo secondo appuntamento ho scelto un libro che sebbene non sia stato fisicamente scritto a Napoli (la sua autrice risiede ormai da molti anni in Belgio) è quanto di più autenticamente napoletano si possa trovare. Curiosi di sapere perchè? E allora procediamo con la recensione!


La scheda del libro sul sito della casa editrice Astoria.

Durante il periodo fascista, tra i vicoli di Napoli, accade un fattaccio. Qualcuno ha ucciso donna Brigida, giovane e bellissima vedova. Gli abitanti del palazzo danno ognuno la loro versione della storia, insieme alla loro visione del mondo e della vita.
Ma lentamente, un tassello alla volta, la vita e la morte di donna Brigida acquisiscono una luce diversa...

Fattaccio napoletano è un bel giallo, brillante e originale. Interessante la scelta di sostuire l'investigazione vera e propria (che pure si svolge, per così dire, dietro le quinte) con la narrazione fatta in prima persona dagli abitanti del palazzo dove è avvenuto l'omicidio. Undici capitoli (più un epilogo), dieci voci diverse (il maresciallo Casson, incaricato delle indagini, proveniente dal nord, che poco si orienta in mezzo al colorato guazzabuglio di relazioni, parentele e trame sociali, interviene due volte), dieci versioni di quello che è accaduto o che verosimilmente potrebbe essere accaduto.
Solo in una città dove le relazioni sociali sono così intense da essere presenti anche se una delle due parti non ha nessuna intenzione di relazionarsi una struttura simile poteva funzionare. I racconti così precisi e particolareggiati dei protagonisti sarebbe suonati forzati in qualunque altro posto, ma non qui. Questo intensa ragnatela sociale, questo patrimonio umano è tutto quello che abbiamo, è quello che ci tiene in piedi nonostante tutto.
In questo senso l'autrice ha scritto, come accennavo più su, un romanzo autenticamente partonepeo.

Ma al di là di queste considerazioni molto personali, di questi elementi che hanno fatto breccia nel mio cuore, va anche sottolineato che Fattaccio napoletano è un romanzo divertente, che scorre piacevolmente e si lascia leggere velocemente.

Questo è un vero e proprio romanzo corale, che fa del racconto a più voci la sua forza.
La pluralità di voci è la cosa che mi è piaciutà di più di tutto il romanzo. E qui va sottolineata la bravura dell'autrice nel dare una connotazione diversa ad ogni personaggio.
Alcune voci sono profonde e disincantate; altre tremendamente malinconiche; altre ancora popolari e divertenti nella loro incolpevole ingenuità.
Senza uscire dalle mura del palazzo, se non attraverso i racconti e i ricordi degli abitanti, la De Martino riesce a tratteggiare una Napoli particolarmente verace, intensa, umana.
Ogni personaggio, nel raccontare, spazia andando indietro coi ricordi. Viene così fuori la personalità della vittima e la sua storia tragica sulla sfondo di un'Italia dominata dal regime fascista, con le sue prepotenze e meschinità. Infatti gli abitanti del palazzo raramente si limitano a raccontare quel che sanno della vittima o del giorno del delitto; piuttosto  necessitano di ampie digressioni (molto gustose) per spiegare il come ed il perchè di certe cose.

[dal racconto dela maresciallo Casson] Fui invitato ad entrare nel soggiorno. Già dalle prime domande mi risultò che la Di Gennaro (la vicina, n. d. Lisse) versasse ancora in stato di choc per gli avvenimenti del giorno precedente.
"Siete stata voi a rinvenire il cadavere?"
"A rinvenire? No, io sono andata solo a vedere che era successo. Che saranno state? Le 11 quando andai a bussare alla porta di donna Brigida, che quella mammà diceva che non si fidava..."
"Di chi? Di vostra madre? " 
"Mia madre? E che c'azzecca mo' mia madre? Quella sta fresca e tosta... "
"Vostra madre vi aveva riferito che la signora De Luca non si fidava. Vi ripeto la domanda: di chi non si fidava?"
" 'Non si fidava', come vi devo spiegare: si sentiva poco bene. Mammà stava col penziero che non usciva di casa da settimane, da giorni interi addirittura."
"Eppure", secondo la portinaia, ieri mattina vostra madre non era in casa."
"Chi? Mia madre? Sì. Cioè no, non ci stava a casa. Ero io che mi credevo che ci stava [...] Ma poi, scusate, a voi che ve ne importa di mia madre che la mettete sempre in mezzo?"
La testimone era in evidente stato confusionale.

Lo stile, sebbene leggermente differente a seconda del personaggi che racconta, è sempre fresco, scorrevole e brillante. A tratti si vela di tristezza e di malinconia ma resta sempre molto piacevole da leggere.
Il finale è anch'esso molto particolare, perchè non fornisce una versione ufficiale del fattaccio, ma ancora una volta lascia che sia la voce del popolo dei Quartieri Spagnoli a parlare e a spiegare. Cosa sia successo davvero viene lasciato all'intuizione del lettore.
Sebbene nei gialli non ami i finali troppo vaghi o aperti, devo dire che questo è coerente con la struttura del romanzo e le scelte stilistiche dell'autrice, e  perciò mi è piaciuto.

Consigliato.

Voto: 7 e 1/2

La cena dei segreti...

... di Care Santos.

La scheda del libro sul sito della casa editrice Salani

Spagna, 1950. In una afosa notte d'estate, l'ultima che passeranno nel collegio cattolico dove hanno studiato fino ad ora, Olga e Marta giocano per l'ultima volta con le amiche Julia, Nina e Lola a "obbligo o verità". Un obbligo più pericoloso del solito, però, segna in modo tragico quella nottata.
Gli anni passano, le amiche prendono strade diverse e restano lontane per trent'anni, fino a quando Marta non le invita tutte a cena nel suo ristorante. mentre spettano Julia, che è in ritardo, le ragazza ormai adulte decidono che è arrivato il momento di svelare i segreti del passato, per capire cosa è successo quella notte di tanti anni fa e come quel fardello abbia influenzato le loro vite.

Questo romanzo inizia raccontando il gioco, soltanto apparentemente innocente, che cinque collegiali adolescenti fanno in una notte d'agosto. Il gusto del proibito, del segreto condiviso, della ribellione silenziosa alle rigide regole dettate dalle suore che gestiscono il collegio permeano l'aria e creano un senso di sospsesa aspettativa anche nel lettore. L'incipit e il primo capitolo del romanzo mi sono piaciuti molto. Bella l'ambientazione; ben descrittae la soffocante rigidità della scuola e  la tensione delle ragazzine, sospese tra la volontà di conformarsi al comportamento che ci si aspetta da loro, e l'ansia di ribellarsi comunque agli adolescenti di tutto il mondo.
Durante la nottata descritta però, capita qualcosa di terribile ad una di loro; qualcosa che le ragazze non arriveranno a sapere, perchè l'accaduto è coperto dall'omertà delle suore. E quando si perdono di vista, crescono e maturano, nelle vite delle cinque ragazze resta sempre qualcosa di non detto, di sospeso, che pesa come un macigno.

Ecco, secondo me questo è il meglio che il romanzo offre.
Lo svolgimento successivo, che ci narra in terza persona le vite delle cinque ragazze, da quando hanno lasciato il collegio fino alla maturità, va avanti fra alti e bassi. Non tutte le protagoniste e le loro storie sono riuscite a suscitare il mio interesse allo stesso modo. Ho trovato profonda e interessante la storia di Olga; mi è piaciuto l'approfondimento della sua psicologia in quanto personalità dominante e un po' crudele, responsabile principale di quanto accade nella famosa notte al collegio. Un po' meno interessanti sono risultate le vite di Nina e Lola (in particolare di quest'ultima, davvero scialba e noiosa). Sufficientemente interessante quella di Marta, mentre quella di Julia, secondo me, avrebbe meritato maggior approfondimento (anche perchè è la chiave di volta di tutta la vicenda).

La cena dei segreti sembra uno di quei sufflè preparati con tanto amore e ottimi ingredienti, ma che inspiegabilmente si affloscia in forno durante la cottura. Gli elementi per una buona riuscita del romanzo c'erano tutti, ma qualcosa è mancato, e il risultato non può dirsi completamente soddisfacente.
A parer mio è mancata un po' di forza e di incisività nella trama, qualche guizzo in più nell'intreccio che risulta invece troppo statico; la cosa terribile accaduta durante la famosa notte è facilmente intuibile. Si legge sperando che arrivi un colpo di scena, una rivelazione, un particolare qualunque a dare nuova luce ai fatti del passato, ma questo non accade, e per me è stata una delusione.

Non si tratta di un romanzo brutto, da cestinare in toto. Forte di una bella ambientazione e di un buon inizio, questo libro si lascia comunque leggere fino alla fine. Nonostante le critiche che ho mosso non ho mai avuto la tentazione di abbandonarlo, anche perchè la scelta dell'autrice di narrare la vita delle protagoniste una alla volta tiene in piedi il romanzo spingendo il lettore ad andare avanti per saperne di più. Ma alla fine, al momento di tirare le somme, qualcosa è mancato.

Voto: 6

... che Dio perdona tutti...

... di Pif.


Arturo, 35 anni, single e con scarse ambizioni, ha una sola passione: i dolci. Quando incontra Flora, proprietaria di una pasticceria, crede di aver trovato la donna della sua vita. Ma c'è un problema: Flora è molto religiosa, e non se la sente di impegnarsi con una persona che non condivida la sua fede. Perciò Arturo decide, per tre settimane, di fingersi profondamente cattolico per conquistarla. Ma la finta conversione gli sfuggirà di mano, con esiti inaspettati.

Di solito diffido dai romanzi scritti da personaggi televisivi che troppo spesso si improvvisano autori senza avere niente di significativo da dire; ma la carriera di Pif mi suggeriva che si tratta di una persona con un intelletto sveglio e vivace, e perciò ho deciso di dargli una possibilità. Tutto sommato non sono pentita, anche se ho qualche critica da fare.

Arturo è un trentacinquenne che vive perennemente spaesato in mezzo agli altri. Non sa bene cosa vuole dalla vita, o meglio, l'unica cosa che è sicuro di sapere è che non rinuncerà mai alla sua passione quasi maniacale per i dolci alla ricotta, e che vorrebbe qualcuno che condividesse questo amore con lui. Le occupazione a cui sono dediti gli altri (amici, colleghi, familiari) gli sembrano noiose e un po' futili, anche se accetta passivamente di farsi coinvolgere. Tutto cambia quando conosce Flora, donna che dei dolci ha fatto una professione, e per amore della quale finalmente Arturo decide di prendere in mano la sua vita.

Il romanzo ha un esordio folgorante e divertentissimo. Il protagonista, Arturo, racconta il suo primo incontro con l'esigenza della preghiera, avvenuto da bambino davanti alla partita Brasile - Italia dei Mondiali del 1982.
Il primo impatto con il romanzo è dunque dei migliori. Arturo racconta con molta ironia la trepidazione davanti a quel match, trepidazione talmente forte da richiedere un intervento divino per essere placata.

Dopo un esordio che definire brillante è riduttivo, credo che il romanzo perda un po' di verve e di forza, e sembra quasi afflosciarsi su stesso. Riesce ancora a strappare qualche sorriso, ma durante la lettura ho avuto l'impressione che stessimo girando in tondo, senza sapere bene dove saremmo andati a parare. Certo, in parte la cosa potrebbe essere voluta, perchè il romanzo è narrato in prima persona da Arturo che, come forse avrete capito, non è proprio un decisionista. Insomma, la narrazione rispecchia un po' il carattere del protagonista, che è uno che ama farsi trascinare dalla corrente.
Fatto sta che circa a metà del romanzo ero un po' annoiata, ma poi l'autore ha saputo riscattarsi, a parer mio, con un colpo da maestro.

Senza abbandonare lo stile indolente e ironico della voce narrante, Pif ha saputo inserire nel suo romanzo una critica feroce all'ipocrisia della società moderna, che è risultata tanto ben costruita quanto inaspettata. Le premesse erano state poste sufficientemente bene durante la narrazione, ma a priori non mi ero resa conto che saremmo finiti a parlare di critica sociale. La cosa mi ha piacevolmente colpito, anche perchè l'autore non perde, come detto, la sua vena ironica, e riesce ad evitare i toni del pistolotto moraleggiante, ma, tra un sorriso e l'altro, riesce a far riflettere.

Io volevo fare qualcosa di rivoluzionario, volevo essere Cristo in Terra. Perché tutti possiamo diventarlo o quanto meno avvicinarci a Cristo. Non volevo vivere il cristianesimo come uno sport, da praticare solo quando ne avevo voglia o non avevo impegni. Ci sono certe cose che ci mettono sicurezza e ci confortano. Quando sta male un caro o stiamo male noi, ci ricordiamo di essere cristiani. Quando un presunto invasore rischia di mettere in discussione “le nostre radici cristiane”, allora lo diventiamo. Pratichiamo il cristianesimo quando ci è più comodo. Quando vogliamo divorziare “no”, quando dobbiamo imporre il crocifisso “sì”, quando dobbiamo accogliere “no”, quando giuriamo sul Vangelo “sì”. Perché di san Francesco ci piace che parlasse ai lupi e agli uccellini, ma dimentichiamo quello che potremmo fare anche noi: donare tutto ai poveri, ma basterebbe anche la metà; trattare il prossimo come un nostro fratello, anche quando nostro fratello ci tratta male. Non volevo nascondere le mie responsabilità dietro un santo che fa miracoli. Non volevo vivere la cristianità come superstizione.

A volte, le riflessioni più profonde sono anche quelle più semplici da fare, e si nascondo tra le righe di un romanzo divertente, ironico e scanzonato. Bel lavoro, Pif!
Voto: 7 e 1/2

La giostra dei criceti...

... di Antonio Manzini.

La scheda del libro sul sito della Sellerio (la versione edita della Einaudi, che è quella che ho letto io, è ormai fuori catalogo).

Un complotto delirante ad opera di alti funzionari dello Stato, un impiegato annoiato, quattro piccoli deliquenti ed una rapina in banca danno vita ad una girandola di avvenimenti che si intrecciano tra loro in modo tragico e grottesco. Il caso disegna una storia in cui molti dei protagonisti agiranno senza conoscersi, l'uno all'insaputa dell'altro, ma tutti presi nel meccanismo insensato di una giostra che gira; chi salta su pensa di riuscire a fare un passo avanti, ma in realtà non fa altro che ruotare in tondo, fino al momento della rese dei conti.

Questo è uno dei primi lavori letterari di Antonio Manzini e io l'ho trovato piuttosto interessante.
 La trama non è facile da riassumere perchë coinvolge tanti personaggi, la maggior parte dei quali inizia questa storia da posizioni molto lontane; sarà poi il caso a attirarli l'uno verso l'altro a farli ritrovare, loro malgrado, tutti sulla stessa giostra.
 Ho avuto qualche difficoltà ad immergermi nel romanzo a causa di questa molteplicità di personaggi e dell'apparente distanza tra di loro; ognuno sembra portare avanti la propria storia personale senza alcun legame con quelle degli altri e questo allínizio ha rallentanto la lettura. Ma basta tener duro per una cinquantiuna di pagine e il romanzo comincia a svelare il suo senso.

La prima cosa che mi ha colpito in positivo, invece, è stata la vena ironica che permea il romanzo e quel tocco di surreale che hanno le vicende narrate. Insomma, sarebbe bastato un niente per lasciarsi sfuggire di mano la situazione ed esagerare con questi due ingredienti e scrivere qualcosa di improbabile e illegibile, di farsesco, per così dire. E invece no. Con la bravura che ha confermato nei suoi lavori successivi, Manzini dosa con maestria questi due elementi per regalarci un romanzo sorprendente. Il romanzo è sorprendente proprio perchè ha diverse anime, e l'autore salta con disinvoltura dall'una all'altra mantendo vivo l'interesse del lettore pagina dopo pagina.

Anche nella gestione dei personaggi Manzini è imbarttibile; nonostante le difficoltà iniziali di cui ho detto sopra, devo riconoscere che alla fine l'autore è riuscito a dare ad ognuno una voce unica e un sufficiente spessore.
Per chi conosce Rocco Schiavone, qui troviamo alcuni elementi che saranno ripresi nella serie del vicequestore trasteverino, come ad esempio i piccoli deliquenti con una ferocia inaudita, la malavita delle periferie romane, la facilità con cui una persona (specie se si tratta di un servitore dello Stato) può attraversare la sottile linea che divide la legalità dall'illegalità e quella sorta di strana etica che alcuni possiedono e rispettano anche quando operano al di fuori dei confini della legge.

Nonostante l'ironia di cui dicevo prima, il romanzo racconta storie molto dure, violente, ai limiti del pulp. Io le ho trovate disturbanti; funzionali alla trama e coerenti con l'ambientazione, ma parecchio disturbanti. Insomma, se siete anime troppo sensibili, questo romanzo potrebbe urtare, appunto, la vostra sensibilità. C'è una sfiducia di fondo che permea il romanzo, che ho trovato tragicamente agghiacciante ma non troppo lontana dalla realtà. Il romanzo non concede speranze di miglioramento, di un futuro diverso, di un nuovo giorno che sia migliore del precedente. Anche da questo punto di vista forse non è adatto a persone sensibili.

Il finale, come ci ha abituato Manzini, è triste, commuovente, poetico e bellissimo e crudo al tempo stesso, ed è la parte più bella del romanzo.

Voto: 7

martedì 12 marzo 2019

La scrittrice del mistero...

... di Alice Basso.


Vani Sarca, ineguagliabile ghost writer dalla mente prodigiosa, che rifugge la compagnia degli altri esseri umani come la peste, sembra aver trovato il suo posto nel mondo e anche un po' di stabilità affettiva. A complicare le cose arriva prima sua sorella, in crisi esistenziale, poi la proposta del suo capo, che le chiede di scrivere un improbabile romanzo a metà strada fra il thriller e l'avventura, badando solo alla possibile commerciabilità del testo; infine Riccardo Randi, scrittore ed ex di Vani che un tempo le ha spezzato il cuore, il quale sembra essere vittima di uno stalker, e non ha altri a cui chiedere aiuto se non Vani e il commissario Berganza.

Prima di iniziare la recensione, una importante avvertenza: i libri di Alice Basso non possono essere letti in pubblico - treni, autobus, sale d'aspetto di medici o anticamere di scuole di danza affollate (specialmente anticamere di scuola di danza affollate di madri, padri e nonne. Date retta a me, fidatevi.) Rischiate di ritrovarvi con gli occhi sgranati di ignari astanti addosso, mentre sogghignate senza ritegno. 
(Io la mia pessima figura l'ho fatta nella suddetta anticamera, quando ho letto: Questa poi. Tip e Tap che leccano i piedi a Berganza. Non sono riuscita a trattenermi.)

Detto questo, passiamo alla mia opinione sul romanzo.
Ci sono autori che oramai sono una garanzia, su cui puoi contare ad occhi chiusi. Ed Alice Basso è una di questi. Possiede una naturale scorrevolezza nello stile e nell'uso della lingua italiana che rende la lettura un piacere; la prosa è arguta, curata e intrecciata di ironia e qualche battuta fulminante. Le citazioni letterarie sono un valore aggiunto e sono anch'esse naturali e ben amalgamate con il testo, non arrivano mai a sproposito o "tanto per".
Detto tra noi ho adorato  la citazione di Via col vento (e quale sennò!), che dimostra perfettamente come l'autrice non sia mai scontata e mai banale.
[...] come Rossella O'Hara che giura a se stessa che non proverà mai più la fame, è grazie ai cocktail al metanolo bevuti al Quicksand se oggi butto in scotch torbato quei due soldi che Enrico mi sgancia ogni mese.

Vani Sarca è un personaggio ben costruito, frizzante, lontano dalla quotidianità di molti di noi (chi può vantare la sua conoscenza encicplopedica o le sue capacità logiche?) eppure mai distante dal lettore. Vani è, nonostante le sue perculiarità, un personaggio con cui il lettore entra immediatamente in sintonia, e con cui empatizza fin da subito. È evidente che questo è un grande merito della sua creatrice.

La trama mi è piaciuta molto. In teoria, richiamare sulla scena nel ruolo di co-protagonista il prof. Randi, ex fidanzato di Vani e di cui molto si è scritto nei romanzi precedenti, poteva sembrare un azzardo. Insomma, il lettore avrebbe potuto dire: ancora lui?!?
Invece l'intreccio riesce a fondere elementi già noti al lettore (su tutti, la bastardaggine di Riccardo Randi) con fatti nuovi, interessanti e funzionali alla trama. Questo permette di vedere da un punto di vista diverso la personalità di personaggi conosciuti, e di gettare anche nuova luce sul loro modo di essere.
Inoltre la trama è briosa e costruita con intelligenza. Seguirne lo sviluppo è un piacere. Interessantissimo il finale, che ci offre un piccolo ma sorprendente colpo di scena. Per citare un detto di saggezza popolare, il finale chiude una porta ma apre un portone; cosa ci sia oltre questo portone potrà dirlo soltanto il nuovo romanzo della serie, che io aspetto con infinita impazienza.

Voto: 8.