sabato 28 novembre 2009

Il simbolo perduto...

...di Dan Brown.

Sono una lettrice che può vantarsi di aver letto tutti i romanzi di Dan Brown, e di averli trovati anche piacevoli (Angeli e Demoni più del Codice da Vinci).
(non so se vantarsi sia la parola giusta, ma vabbè! XD)
Ho anche massacr...ehm, recensito Crypto in questo post, ma non sono stata troppo cattiva.
Con Il simbolo perduto dovrò necessariamente essere un po' più dura.

Il protagonista di Il simbolo perduto è Robert Langdon, il professore di simbologia e un'altra decina di materie occulte, misteriose e complicate, il quale, una domenica mattina, viene attirato a Washington con l'inganno: uno psicopatico, spacciandosi per assistente di Peter Solomon, massone di rango elevato nonchè suo amico e mentore, lo invita a prendere parte ad una conferenza in Campidoglio.
Una volta giunto sul posto, Langdon si ritrova davanti la mano mozzata di Peter.
Sui polpastrelli sono tatuati simboli che richiamano i misteri massonici, e lo psicopatico chiede a Langdon di svelargli il segreto che lo condurrà a trovare il mistico tesoro di conoscenza che la massoneria tiene celato. Sotto tortura, Solomon ha rivelato che solo Langdon può condurlo a ritrovare quella conoscenza perduta.
Scatta così la solita corsa contro il tempo per Langdon, già vista nei due precedenti romanzi che lo vedono protagonista.
Il lettore sorvola sul senso di dejavu perchè pregusta un romanzo dal ritmo incalzante, che faccia restare col fiato sospeso.
Purtroppo è proprio qui che il romanzo delude maggiormente.

Tanto per cominciare, non c'è capitolo che non inizi con la sua brava descrizione turistica di Washington, che sembra tratta pari pari da un guida oppure da Wikipedia. Queste descrizioni sono inutili nel 90% dei casi, e anche laddove potrebbero risultare utili alla miglior comprensione della trama, sono comunque avulse dal contesto, non amalgamate con il resto, spezzano il ritmo tanto da risultare moleste.
Questo dovrebbe essere un romanzo da tenerti col fiato sospeso ma non è che uno si mangia le unghie dalla paura mentre legge Il Campidoglio fu costruito nel...su un progetto di... ed è alto... 
A me è capitato di saltarle a piè pari per andare a leggere cosa stava capitando ai protagonisti.

Come se ciò non bastasse, la trama viene continuamente interrotta nel suo svolgimento da flashback incredibilemte prolissi, la maggior parte dei quali completamente inutili.
Risultato: suspence ridotta a zero.
Addiruittura ad un certo punto si sfiora l'assurdo, con un flashback di un Natale di dieci anni prima, al cui interno si trova un altro flashback! Roba che nemmeno Lost aveva mai osato!
Si ha sempre la sensazione che l'autore si sia dimenticato di dirci qualcosa di vitale importanza, e rimedi come può.

Ad un tratto, comunque, anche Dan Brown deve essersi accorto che la suspence era in coma, perciò ricorre ad un massiccio uso di trucchetti da quattro soldi per accrescere il Senso di Mistero. Anzi, il trucchetto è sempre lo stesso, ovvero far leggere/vedere/intuire qualcosa ad un personaggio senza dirci cosa il personaggio effettivamente legge/vede/intuisce, e rimandare la rivelazione a decine e decine di pagine dopo.
Una volta passi. Due vabbè. Tre diventa irritante. Quattro, viene voglia di tirare il libro contro il muro.
Questo non è creare suspence, è creare frustrazione nel lettore!
Anche perchè quel che è peggio è che questo trucco viene usato anche con particolari che non c'è alcun bisogno di tenere poi così segreti.
Ad esempio, Katherine, la sorella di Peter, ha un laboratorio sotterraneo segreto nell'edificio che ospita lo Smithsonian Museum, in cui conduce esperimenti importantissimi e segretissimi, a cui si accede attraverso uno spazio (sotterraneo anch'esso) di 3.000 metri quadri completamente immerso nel buio. C'è un solo modo per non perdersi in quell'oscurità sterminata, ma naturalmente dobbiamo penare un centinaio di pagine prima di apprenderlo. Detto tra noi, il sistema infallibile è un sentiero di moquette che conduce al laboratorio, mentre il resto del pavimento è in cemento.
Se per caso state pensando che un immensa stanza buia, senza alcun sistema di illuminazione di emergenza non si rivelerà un buon affare quando l'emergenza si verificherà (e state certi che si verificherà!), beh, complimenti: siete delle persone dotate di normale buon senso.
Se poi a questo aggiungete che il laboratorio segretissimo e misteriosissimo immerso nell'oscurità ha, all'ingresso principale, sistemi di sicurezza e sorveglianza altamente tecnologici, e sul retro invece una saracinesca per il carico e scarico merci che chiunque può aprire...beh, avete un quadro completo della situazione, e di quanto il buon senso sia merce rara, oggi giorno.

Altro esempio, Langdon, nel partire per Washington, ha portato con sè un oggetto che Peter gli ha chiesto di custodire, e tanto fa su richiesta telefonica dello psicopatico/finto assitente del suo mentore.
Naturalmente sarebbe stato troppo sperare che questo piccolo dettaglio ci venisse svelato al momento della partenza di Langdon; invece ci viene rivelato soltanto un centinaio di pagine dopo, quando la mano mozzata è stata ritrovata, lo psicopatico minaccia Langdon per telefono e la CIA è giunta sul posto per occuparsi del caso; solo allora, casualmente, al professore viene in mente che il finto assistente di Solomon gli aveva chiesto di portare quel particolare oggetto con sè; e solo allora la sua mente viene sfiorata dal dubbio che forse quell'oggetto c'entri qualcosa con questa vicenda. Come possa aver dimenticato che lo psicopatico gli abbia chiesto quell'oggetto, e come possa non aver intuito immediatamente che deve essere collegato al rapimento, rimane un mistero.

In effetti, l'enigma più grande del romanzo è: cosa è successo a Roberto Langdon?
Perchè il nostro professore, per buona parte del romanzo, non fa che comportarsi come uno sciocco.
Liquida le richieste dello psicopatico come sciocche superstizioni, rifiuta di cercare nessi tra i simboli sulla mano e le leggende massoniche...perchè tanto sono leggende; si rifiuta di decifrare i simboli sull'oggetto che custodisce perchè teme di violare la privacy di Peter.  -.-'
Intendiamoci, Langdon è liberissimo di essere scettico (anche se questo scetticismo, per uno che è stato fidanzato con la pronipote di Gesù è quanto meno fuori luogo), e al limite potrebbe anche rifiutarsi di collaborare con uno psicopatico. La cosa che risulta molesta è che lui vuole aiutare Peter, vuole collaborare con il pazzo, ma invece di cercare di capire come assecondarlo, chiude il cervello, manda le sinapsi in ferie e si rifiuta di usare tutta una serie di conoscenze perchè tanto sono solo leggende! Ma se lo psicopatico crede in quelle leggende, e lui vuole assecondarlo per salvare Peter, perchè mai continua a ripetere che sono solo leggende?
Stupendo il punto, verso pag. 162, quando Langdon bolla come mito l'ipotesi che ci sia una piramide sotterranea nascosta da qualche parte a Washington perchè "non è facile nascondere una piramide"! Detto da uno che ne ha trovata una sotto il Louvre fa un po' ridere!

Comunque, a dare manforte a Langdon, arriva ben presto addirittura la CIA, nella persona del Direttore della Sicurezza Inuoe Sato, la quale informa Langdon che deve assolutamente collaborare con il pazzo perchè in ballo c'è molto di più della vita di Solomon: in pericolo c'è addirittura la sicurezza nazionale.
Inuoe Sato è uno dei co-protagonisti più furbi che io abbia mai avuto occasione di leggere.
La CIA teneva sotto controllo il telefonino di Solomon, che è utilizzato dallo psicopatico, fin dal momento del rapimento e nonostante ciò, la CIA (dico la CIA, non l'associazione bocciofila di Rocca di Sotto) non riesce MAI a individuare la fonte del segnale. Sato si giustifica dicendo che il segnale è sparito prima che lo potessero intercettare. Peccato che lo psicopatico abbia fatto telefonate senza sosta per tutta la giornata! Credo ne abbia approfittato anche per fare gli auguri di Natale ad amici e parenti...

Non stupisce più di tanto quindi che Sato sia subito insospettita dalla competenza di Langdon nel decifrare i simboli sui polpastrelli della mano mozzata (e certo: è davvero un mistero come mai un professore di simbologia si intenda di simboli...) e in un crescendo di sospetti e mezze verità, tenterà anche di arrestare Langdon, che riceverà un aiuto provvidenziale e riuscirà a fuggire.
Raggiunto da Katherine, che lo psicopatico vuole far fuori a causa delle sue ricerche segretissime, i due cercano di risolvere gli enigmi che via via gli si propongono per indicare al rapitore dove si trova la mistica conoscenza che cerca, e salvare così Peter.
Anche qui il romanzo non ci offre niente di nuovo; addirittura alcuni enigmi ricalcano schemi già usati in Angeli e Demoni, come ad esempio la scritta misteriosa che non significa nulla fino a che non la giri sottosopra - peccato che tre secondi dopo aver visto la scritta io avevo capito che andava capovolta, mentre l'esimio professor Robert Langdon no.
Ma in ogni caso, specie quando tirano in ballo opere d'arte realmente esistenti, queste scene sono le più avvincenti del romanzo. E questo la dice lunga sulla godibilità del resto del romanzo.
Il libro si dipana quindi come una lunga caccia al tesoro per le vie di Washington, non diversamente da quanto già visto in Il codice da Vinci e Angeli e Demoni.
Quello che manca qui è purtroppo il ritmo incalzante che aveva caratterizzato i due romanzi citati.
Si arriva così di tappa in tappa verso il finale.
Il colpo di scena conclusivo riguarda l'identità del cattivo, ed io l'ho trovato assurdamente ridicolo, degno di una scadente soap opera.
SPOILER Il cattivo, che viene visto bene in faccia da Peter e poi anche da sua sorella Katherine, è in realtà il figlio di Peter morto in una prigione turca 16 anni prima, all'età di 21 anni...cioè, è il figlio di Peter fintosi morto. Inutile precisare che nessuno lo riconosce, anche se si è limitato a rasarsi la testa e le sopracciglia, tatuarsi una fenice sul petto e ad andare in palestra per pompare i muscoli. Fine SPOILER
Questa è la trovata più assurda del romanzo, ma sparse qua e la per la trama ci sono soluzioni e spiegazioni poco credibili o addirittura inverosimili.
Ho già citato la CIA che non riesce a intercettare un telefonino usato continuamente durante la giornata (in un momento di lucidità Langdon a distrugge il suo di telefonino per non farsi rintracciare); a ciò posso aggiungere le guardie della sicurezza allo Smithsonian Museum che si fanno passare sotto il naso lo psicopatico perchè occupate a parlare a telefono; o lo psicoaptico stesso che depone la mano mozzato al centro del Campidoglio ed è giustamente ripreso dalla telecamere mentre lo fa; mentre non è ripreso dal sistema di videosorveglianza quando si cambia d'abito, si infila una parrucca e se ne va indisturbato (a proposito, al Campidoglio le telecamere di sicurezza hanno l'audio...mai sentita una cosa simile ma potrei essere ignorante in materia...).
Il finale ve l'ho già descritto. Anche la storia alla base della rivelazione finale non sta in piedi, non è verosimile ed è appiccicata al personaggio con lo scotch. Infatti SPOILER il figlio creduto morto di Solomon dice di essere riuscito a fuggire da una prigione turca corrompendo il direttore, e chiedendogli di restituire alla famiglia un cadavere irriconoscibile. Nel caso ve lo steste chiedendo, no, a nessuno è venuto in mente di fare un'impronta dentaria per sicurezza. Infine, ci viene narrata una complicatissima storia di conti cifrati, di trasferimento di milioni di dollari, dell'omicidio del direttore del carcere e della fuga, il tutto organizzato dal figlio di Solomon, mentre è ancora detenuto e senza alcun sostegno esterno. Vabbè. FINE SPOILER
 A dire il vero, l'avevo capito da tempo che il finale non è il pezzo forte di Dan Brown. Qui però l'autore è riuscito a scendere un altro gradino: non solo, come detto, il sorpresone finale non sta in piedi, ma dopo la conclusione delle vicende, il romanzo continua per un altro centinaio di pagine, sproloquiando di misticismo, di veri segreti nascosti a Washington, di religione, filosofia, eccetera, senza far capire esattamente al lettore dove vuole andare a parare.
Sarebbe stato molto, molto meglio chiudere il romanzo a pag. 500 o giù di lì.
Effettivamente, qualche taglio avrebbe giovato al romanzo nel suo complesso, che è davvero prolisso, ricco di particolari di cui ci interessa poco o nulla, mentre altre cose che andavano chiarite restano nell'ombra.
Per esempio, perchè lo psicopatico vuole distruggere il laboratorio di Katherine e i risultati delle sue ricerche? Un paio di volte si accenna a conoscenze pericolose o indegne di finire nella mani del volgo, ma non mi risulta ci sia un nesso tra quello che lo psicopatico cerca e le ricerche di Katherine.
La sorella di Peter studia le scienze noetiche, definite come una sorta di anello di congiunzione fra la scienza moderna e il misticismo degli antichi.
Detto così, sembra che almeno in teoria il nesso esiste; ma in pratica...in pratica no. Katherine è una che si occupa di far gelare l'acqua inviando pensieri amorevoli al liquido perchè geli meglio...davvero, non scherzo.
Cosa voglia da lei di preciso lo psicopatico, di cosa avesse tanta paura per rischiare la vita e la sua copertura facendo saltare in aria il laboratorio, non lo sappiamo.
A volte sembra che l'uomo voglia preservare alcune conoscenze pericolose se divulgate, e che quindi sia, a modo suo, preoccupato per il futuro del mondo; altre volte - specie nel finale - invece l'uomo non fa altro che cercare di accrescere il proprio potere personale. Ho chiuso il libro con la sensazione che nemmeno lui sapesse bene cosa stava cercando di fare.
A dire il vero non sappiamo nemmeno di preciso cosa volesse ottenere con quell'enorme messa in scena della mano e del rapimento...visto che sembra avere accesso a risorse illimitate, e visto che sembra essere più furbo di qualunque persona lo circondi (non che ci voglia molto, eh), perchè dopo aver ottenuto da Peter il nome di Roberto Langdon, non lo ha semplicemente rapito e costretto a collaborare, invece di lasciarlo libero di scorrazzare per tutta Washington?
Perchè ha effettuato una minaccia alla sicurezza nazionale non strettamente necessaria alla realizzazione del suo piano, attirandosi così le attenzione della CIA?

Per concludere, la storia avrebbe anche potuto essere intrigante, se soltanto fosse stata curata di più nei dettagli; se l'autore non avesse cercato, barando, di soprendere il lettore a tutti i costi; se le fosse stato impresso un ritmo più incalzante.
Avrebbe giovato al romanzo un uso più parsimonioso dei flashback e anche qualche taglio in più, soprattutto nella parte iniziale e in quella finale.

Consigliato esclusivamente a coloro che non possono vivere senza Dan Brown e che leggerebbero anche la sua lista della spesa.
Gli altri farebbero bene ad evitarlo.

martedì 24 novembre 2009

31 Ottobre...

...di Glauco Silvestri.

Oggi ho deciso di scrivere una recensione un po' diversa, o meglio, su qualcosa di diverso.
Infatti il titolo di cui intendo parlare è un e-book di un autore emergente, Glauco Silvestri, che si può leggere gratuitamente sul suo sito insieme ad altri libri.
Potete trovare 31 Ottobre e altri ebook gratuiti qui .
Magari potete leggerlo e poi tornare a dare un'occhiata alla recensione.

Si fa un gran parlare del fatto che i libri costano troppo; eppure negli ultimi mesi, girovagando sul web, e appassionandomi sempre di più ai temi della narrativa italiana, degli scrittori emergenti e di come migliorare la propria abilità di scrittori mi sono spessa imbattuta in giovani autori che mettono a disposizione i loro lavori gratuitamente. Mi sembra quindi giusto e doveroso non solo leggere queste opere, ma anche dar loro, nel mio piccolo, un po' di visibilità.

Fatta questa premessa, iniziamo a parlare di 31 ottobre.
Si tratta di un racconto lungo, che, come si può facilmente intuire dal titolo, si svolge durante la giornata di Halloween. Protagonisti sono Alessandro Volpi, tenente dei Carabinieri di stanza a Bologna, e Marcella Putìn, della Scientifica. La mattina del 31 ottobre sono chiamati ad indagare su un efferato omicidio. Una ragazza è stata uccisa da qualcuno che le ha aperto il corpo con una lama affilata, dal seno all'inguine. Sulla scena del delitto si trova un misterioso gatto nero che rifiuta di allontanarsi.
Quando gli omicidi cominciano a moltiplicarsi nello spazio di poche ore, i due capiscono che hanno a che fare con uno psicopatico e cominciano una corsa contro il tempo. Ma qualcosa di misterioso e soprannaturale aleggia nell'aria...

Scrivere un racconto che abbia come tema Halloween può non essere facile. Si rischia di non far altro che richiamare tutta una serie di figure stereotipate e di cadere nel "già visto".
Diciamo subito che Glauco Silvestri evita questo pericolo. Sebbene richiami nel suo racconto gli elementi horror tipici di Halloween, non diventa mai banale, questo anche grazie alla scelta di giocare, fino alla fine, con il lettore, facendo in modo che si chieda in continuazione: siamo di fronte a un serial killer, oppure a delitti di origine soprannaturale?
Interessante poi la decisione di ancorare gli spunti soprannaturali alla concretezza di una città, Bologna, descritta nella sua quotidianità.

Passiamo ad esaminare i personaggi.
Il tenente Volpi è un bel personaggio. Solido, credibile e con delle potenzialità, secondo me.
Ho trovato un po' forzato invece il personaggio di Marcella, descritta da un lato come una scienziata, che però dall'altro non esita a sposare la tesi degli omicidi soprannaturali con molta disinvoltura, snocciolando una serie di conoscenze approfondite sui miti celtici che sarebbe difficile procurarsi nello spazio di poche ore.
Mi è sembrato forzato anche il legame che immediatamente sembra istaurarsi tra i due.
I personaggi secondari, trattandosi di un racconto e non di un romanzo, naturalmente non possono essere approfonditi più di tanto, però in una occasione ho trovato esagerata la reazione di due "comparse".
Si tratta di due ragazze a cui viene detto che la loro coinquilina è stata brutalmente uccisa. Raccontano della festa dove l'hanno vista l'ultima volta:

«[...] Era una vera palla. A mezzanotte siamo uscite e siamo tornate a casa. Lei è rimasta. C’era uno che l’aveva inchiodata e non la mollava più».
«Com’era?».
«In che senso?».
«Alto. Capelli neri. Non l’avevo mai visto in facoltà. Aveva un bel sorriso».
«Aveva un bel culo, altro che sorriso. Due belle chiappette sode. Doveva vederlo. Un vero fico. Se avesse inchiodato me sarei rimasta lì tutta la notte».
«Te lo saresti pure fatto. Lo so».
«Cosa sei, gelosa?».

Ragazze, un po' contegno! La vostra coinquilina (per quanto non vi fosse simpatica) è appena stata squartata da un maniaco!

Ecco, se da un lato alcune reazioni sono forzate o superficiali, in altre situazioni l'approfondimento a tutti i costi nuoce al ritmo della storia.
Siamo di fornte a un racconto lungo, non un romanzo; mi aspetto che la vicenda prosegua in maniera rapida. Perciò ho trovato fastidiose le inserzioni dei pensieri vaganti delle vittime prima che incontrassero il loro destino. Non sto parlando di quello che pensavano mentre morivano, o della paura che provavano nel vedere il loro assassino, ma sto parlando proprio di pensieri sparsi, banali, quotidiani che avrebbero lo scopo di farci "familiarizzare" con la vittima ma che a me sono risultate moleste in quanto rallentavano senza motivo l'azione.
Faccio un esempio (o magari due).

Una giovane donna va a buttare l'immondizia. Vicino ai bidoni incontra il suo assassino:

Aveva un coltello, un grosso coltello, molto simile a quello che suo padre usava quando andava a caccia. Li aveva visti, lei, in quel negozio vicino al Palazzo dello Sport. Quello dove vendevano anche le balestre e gli archi. Lo sapeva perché Massimo, un ragazzo che aveva visto un paio di volte, l’aveva portata lì quando aveva deciso di comprarsi un nuovo arco da caccia.

Insomma, la ragazza ha davanti un tizio con un coltello, non mi interessa dove ha già visto quel tipo di arma, se in quel negozio posso trovare ottimi archi e balestre e che questo Massimo va a caccia con l'arco! Voglio sapere che cosa le accadrà!

Ancora, Volpi interroga una ragazza che è sopravvissuta ad un'aggressioni che aveva le stesse caratteristiche degli omicidi. Racconta la sua storia in questi termini:

L’anno scorso. Era stata aggredita da un clochard. L’aveva chiamato così, in francese. Un senza-tetto. Era stato a Halloween, se lo ricordava bene. Era uscita dal lavoro presto. All’epoca faceva la cameriera al Victoria Station per coprire le spese dell’università. Ricordava quello che era successo come se fosse stato ieri. Aveva salutato tutti, al pub, prima di uscire. Non faceva freddo, si era messo il giubbotto di jeans e se l’era filata prima che qualcuno le chiedesse di servire un ultimo tavolo. Il giorno dopo avrebbe dovuto dare l’ultimo esame. Era arrivata in fondo, sempre con voti alti, ci aveva messo l’anima per finire entro dicembre. Poi avrebbe potuto dedicarsi completamente alla tesi. Un lavoro complesso. L’impronta architettonica negli ambienti futuristici disegnati nei fumetti di fantascienza. Per quella tesi aveva dovuto distruggere la collezione di Nathan Never del suo ragazzo. Portare su computer le strisce di quel fumetto, senza danneggiare gli albi, non era praticamente possibile. Eppure, non poteva evitarlo. Nathan Never era uno dei massimi rappresentanti della fantascienza italiana a fumetti e le sue ambientazioni avevano qualcosa di realistico, per quanto fossero state pensate da disegnatori che, di architettura, potevano conoscere veramente poco. Di Nathan lei amava la struttura verticale delle città. Diversi livelli, costruiti l’uno sopra all’altro, come nelle città alveari della saga dei Robot di Asimov. Ogni livello era caratterizzato dal ceto sociale che ci viveva. Ovviamente i piani alti, quelli che potevano respirare l’aria pulita e vedere il cielo, appartenevano all’alta borghesia, mentre quelli più bassi appartenevano ai ceti meno abbienti. Una struttura verticale che ricordava anche la piramide di potere che funzionava nel Medioevo. Vassalli, valvassori, valvassini e così via, fino a scendere ai servi della gleba. Con l’unica differenza che, nel futuro, il lavoro svolto dai servi della glebaPer cui, in quel mondo immaginario, i ceti meno abbienti erano in pratica una sorta di peso per la società, un cumulo di bocche da sfamare incapaci di produrre un qualcosa di utile per il resto del mondo. Fin lì era arrivata con la sua analisi del futuro o, almeno, di quello che le menti proiettate verso il futuro vedevano come possibile svolta della nostra società. Aveva ancora molto da fare, lei. C’erano ancora molte cose da dire e, in più, doveva ancora fare un’analisi dettagliata delle tecniche architettoniche utilizzate per rappresentare queste città futuristiche.

La parte che ho evidenziato in rosso mi pare francamente di troppo! Qual è la sua funzione? Non credo ci sia bisogno di giustificare il fatto che la ragazza ricordi perfettamente il giorno dell'aggressione!
Potrei citare almeno un altro paio di casi, come ad esempio la presentazione al lettore di quelle che diverranno le ultime due vittime, che a parer mio è tirata troppo per le lunghe.

Ho notato anche una certa tendenza ad inserire informazioni necessarie al lettore in maniera un po' prolissa e con uno stacco a volte brusco dalla narrazione.
Esempio: Marcella e Alessandro parlano della possibilità che il serial killer stia seguendo un rituale celtico.
E qui parte una lunga spiegazione, che parte dai Celti fino ad arrivare a Napoleone. Un po' più di sintesi non avrebbe guastato, secondo me.

Nel suo complesso comunque il ritmo rimane buono e la vicenda interessante.
La soluzione finale mi ha lasciato un po' perplessa. Come detto, l'autore gioca con dubbio, lasciando aperte fino alla fine le due possibilità (serial killer o delitti soprannaturali). Quando la soluzione viene svelata però non riesce a chiarire ogni dubbio e spiegare ogni particolare relativo agli omicidi (specialmente il secondo, quello avvenuto sull'autubus). Ambiguità voluta? Sinceramente a me non è sembrato.

Il racconto resta comunque una lettura piacevole, scritta con uno stile discorsivo, scorrevole e coinvolgente.

venerdì 20 novembre 2009

La chiave dell'alchimista...

... di Cristina Brambilla.

Ultimamente ho parlato quasi sempre di libri che non mi erano piaciuti.
Oggi, per una volta, vorrei recensire un libro che merita la sufficienza.

La chiave dell'Alchimista è un romanzo breve (circa 200 pagine scritte in caratteri molto grandi) di genere fantastico, il cui target sono i bambini/ragazzi (diciamo 10-14 anni, secondo me). Questo non vuol dire che un adulto non possa apprezzarlo.
Si è rivelato, infatti, una lettura piacevole e scorrevole anche per me.

Protagonista è Lucilla, una ragazzina di 13 anni, il cui padre decide improvvisamente di trasferirsi a Venezia.
Qui, l'uomo scomparirà misteriosamente, e Lucilla conoscerà una creatura fantastica, una gargoyle che le svelerà molti segreti riguardanti suo padre, che non è esattamente quello che sembra. Lucilla scoprirà che la magia e l'alchimia sono vere e reali, e giocheranno un ruolo determinante nella vicenda in cui si trova, suo malgrado, coinvolta.

La narrazione è svolta in parte in terza persona, dal punto di vista di Lucilla, in parte in prima persona, dal punto di vista della gargoyle (e sono le parti più godibili, secondo me). Scelta interessante, ma il cambio di punto di vista tra la ragazzina e la creatura a volte è così brusco da risultare fastidioso per il lettore.

Lo stile della Brambilla è semplice, ma non sciatto (anche se incredibilmente per ben due volte nel libro viene affermato che Nabucodonosor  deportò gli Ebrei a Babele, anzichè a Babilonia, e per bocca di personaggi che, vista la loro cultura, dovrebbero sapere queste cose - vedi nota 1).

La trama è semplice e lineare e non ha grossi scossoni: Lucilla deve infatti dipanare i fili di una matassa che non è esattamente ingarbugliatissima. Alcuni accadimenti possono essere indovinati facilmente, (ad esempio io avevo indovinato a pag. 10 il mistero misterioso che riguarda i vicini ebrei di Lucilla), ma il succedersi degli eventi ha comunque un suo ritmo e un suo perchè. La storia ha logica e coerenza (pur non essendo esente da un paio di ingenuità di cui dirò in seguito), ed anche qualche spunto interessante (ad esempio, l'apparizione nella soffitta della casa di Lucilla, la cui identità verrà svelata nel finale, che ci regala anche una piccola sorpresa).

Compare nel libro anche qualche nozione di alchimia spicciola, per così dire. Mi rendo conto che questo argomento non viene assolutamente approfondito o trattato in maniera esaustiva come potrebbero fare altri libri fantasy diretti ad un pubblico più maturo, e ciò potrebbe deludere il lettore adulto, ma aggiungo comunque questi elementi danno un po' di "pepe" al racconto.

Il finale non è niente male, anzi, mi ha piacevolmente colpito. C'è qualche concessione all'horror, che sebbene non mi abbia spaventato, di sicuro può dare qualche brivido ai più giovani. E soprattutto, il finale di questo romanzo ha il coraggio non essere buonista a tutti i costi e di non essere per forza lieto.

I personaggi sono credibili, anche se non tratteggiati molto profondamente. Il padre di Lucilla è poco più di una comparsa nel romanzo, ma è circondato da un alone di ambiguità (non so se voluto o meno, a dire il vero) che aggiunge un che di originale al romanzo. Insomma, non è proprio il classico padre amorevole, e questa scelta non lo appiattisce, anzi.
Lucilla è una ragazzina sveglia, tormentata dal ricordo della madre che giace in coma in un letto d'ospedale; è sola, introversa e un tantino cinica.
La gargoyle, scontrosa, egoista ma capace di evolversi nel corso della storia, è diventata il mio mito dopo aver soprannominato Lucilla Astutilla; aggiunge un tocco di ironia alla storia che non guasta.

Dicevo più su che ci sono alcune ingenuità nella trama.
Ad esempio, ad un certo punto Lucilla ha bisogno di qualcuno che si introduca in un appartamento per rubare una certa cosa di cui ha bisogno per svelare il mistero. La scelta cade su Dimitri, un ragazzino che borseggia i turisti e che Lucilla ha notato il giorno del suo arrivo a Venezia.
La ragazza lo contatta e mentre discutono di quel che andrebbe fatto, Lucilla - la ragazzina scontrosa, tormentata, cinica, etc. - improvvisamente cambia davanti agli occhi del lettore; pensa a quel cassetto strapieno di bigliettini di San Valentino che i ragazzi le mandano sempre perchè stravedono per lei (cosa mai citata prima nel romanzo, anzi, dalle descrizioni, sembra che Lucilla sia una ragazzina molto sola); comincia non a parlare, ma proprio a pensare usando il gergo dei suoi coetanei (anche qui, cosa che non ha mai fatto prima) e quasi quasi fa la svenevole con Dimitri.
Ecco, ci può anche stare che Lucilla si comporti diversamente davanti a un suo coetaneo maschio, ma quello che ho trovato stonato è che in quella scena del primo dialogo fra i due, non è il comportamento di Lucilla che cambia, ma proprio il suo modo di pensare e di vedere. Per un momento  - per la durata di quella discussione - sembra un personaggio diverso, incoerente con quanto descrittoci fino a lì.
Fortunatamente questo straniamento dura solo qualche pagina.

Altra piccola nota stonata, l'antagonista di Lucilla (non vi svelerò chi è, naturalmente): diciamo che le sue motivazioni sono interessanti, ma il suo piano d'azione non è proprio a prova di bomba.
E' anche vero che messi sotto la lente d'ingrandimento, molti astutissimi piani dei cattivi dei romanzi non reggerebbero: io sono ancora qui a chiedermi perchè, ne Il calice di fuoco, Voldemort, una volta piazzato un suo uomo all'interno di Howgarts, non gli abbia semplicemente ordinato di attirare Harry fuori dalla scuola e fargli toccare una maledetta passaporta, invece di imbastire quel macchinoso piano che coinvolgeva il Torneo TreMaghi. Vabbè.

E per concludere, il finale, pur nella sua complessiva validità, avrebbe meritato, a parer mio, un po' più di spazio.

In ogni caso, questi appunti negativi non sono così gravi da rovinare la lettura del libro, che resta interessante, piacevole e divertente. Se decidete di leggerlo, ricordate che è molto evidente che il target di questo romanzo sono i giovanissimi. Certo, anche Harry Potter era diretto a un pubblico di adolescenti, eppure nella lettura raramente me ne rendevo conto.
Qui non è così; ed è bene che sia chiaro che c'è una bella differenza fra una lettura piacevole e una che lascia il segno. Secondo il mio metro di valutazione, i vari Harry Potter appartengono alla seconda categoria, La chiave dell'alchimista alla prima.


Nota 1: Per la cronaca, la mitica Torre di Babele, secondo gli archeologi, può essere fatta coincidere con la ziqqurat costruita dal sovrano babilonese Nabucodonosor I, della seconda dinastia Isin, che regnò dal 1127 a.C. al 1105 a. C. circa, mentre la deportazione degli Ebrei dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (cui si accenna nel libro) fu opera di Nabucodonosor II, che regnò dal 604 al 562 a.C.

venerdì 13 novembre 2009

Un anello da Tiffany...

...di Lauren Weisberger.

Tre amiche trentenni, ognuna con una situazione sentimentale diversa ma sicuramente non facile, stringono un patto tra loro: nel giro di un anno, proveranno a cambiare radicalmente la loro vita.
Adriana, bellissima brasiliana che passa da un uomo a un altro senza rimorsi, dovrà trovare un marito o una relazione stabile; Emmy, appena mollata dal fidanzato fedigrafo, si rifarà vivendo un'avventura dopo l'altra; e Leigh...già, cosa farà la nevrotica ma seria, pacata, metodica Leigh, che vive con fidanzato bellissimo e innamoratissimo? Leigh ancora non lo sa, ma troverà anche lei il modo di migliorare la sua vita e partecipare al patto.

Lauren Weiberger è l'autrice di Il diavolo veste Prada e Al diavolo piace dolce.
Tralascio ogni commento su quest'ultima traduzione, che ha il solo scopo di comunicare al lettore medio che sì, questo libro è di quell'autrice lì che ha scritto quell'altro libro là da cui poi hanno fatto un film con quell'attrice famosa lì, cosa...come si chiama?
Ecco, più o meno è così che le case editrici immaginano il lettore medio e i suoi pensieri.
Ma poi, cos'è che al diavolo piace dolce? Evito di rispondere alla mia domanda perchè questo è un blog per famiglie!

Vorrei soffermarmi su i primi due romanzi della Wisberger. Due piccole perle: se non li avete letti, ve li consiglio.
Definirli chick-lit è riduttivo, dove per chick-lit si intenda narrativa d'evasione senza alcuna pretesa.
Specie Il diavolo veste Prada è sì divertente, ma è soprattutto realistico, profondo, amaro.
Meno amaro il secondo romanzo, ma comunque anch'esso non è superficiale.
L'ironia è graffiante, a volte anche cattiva, in entrambi i lavori.
Quindi, forte di questi due ottimi precedenti, lo scorso Natale ho regalato a mia sorella Olimpia il terzo lavoro della Weisberger: Un anello da Tiffany.
A dire il vero ero indecisa se comprarle Il gioco dell'angelo oppure questo, e sinceramente non saprei dire se le sia andata meglio o no.

Certo, Un anello da Tiffany non raggiunge la sconfinata approssimazione del romanzo di Zafon, ma non è un bel libro.
E' piatto e scontanto.
Abbiamo tre amiche trentenni. Puzza di già visto, già sentito? Da Sex and the city, passando per Desperate Housewives e Lipstick Jungle, il gruppetto di amiche trentenni in carriera e con una vita sentimentale incasinata è stato ampiamente sfruttato. Ma su questo si potrebbe anche passar su, se le tre amiche avessero un minimo sindacale di originalità e di spessore.
Quello che intendo è che si può scrivere una buona storia, una storia che intrattenga e diverta, anche senza toccare i vertici dell'originalità; anche mescolando elementi non proprio nuovissimi. Tutto sta a saperli mescolare. Ci sono molti modi per farlo bene, secondo me.
Per esempio, individuare un punto di vista insolito.
In Il diavolo veste Prada abbiamo uno spaccato di quanto sia cinico e disumanizzante il mondo della moda. Qualcosa di nuovo? Non proprio. Ma è narrato da un punto di vista diverso. Non le solite modelle belle e senz'anima, ma la direttrice di una prestigiosa rivista che sfiora la cattiveria di Hannibal Lecter.
Pensate adesso a I love shopping. Ci dice che alcune donne fanno letteralmente follie davanti alle vetrine. Qualcosa di nuovo? No.
Ma l'argomento viene svolto ingigandendo a dismisura l'irresponsabilità di Becky, che si caccia in situazioni assurde e surreali, descritte con ironia, e che fanno ridere.

Qui non abbiamo nemmeno il tentativo, secondo me, di scrivere una bella storia. L'autrice non si è impegnata a dare un minimo di verve alle vicenda, o almeno a infilarci un pizzico di ironia per alleggerire lo svolgimento piuttosto piatto e senza scossoni della trama.
A tratti ho persino avuto l'impressione di una certa superficialità nello scrivere, senza andare a fondo, senza preoccuparsi che i pezzi combaciassero, e che quello che si scrive fosse minimamente credibile. Come se il romanzo fosse stato scritto controvoglia.
Ho trovato poi francamente irritante il tentativo di spacciarci avvenimenti assolutamente banali, comuni e inutili per Grandi Accadimenti Che Imprimono Una Svolta Alla Storia e costruirci intorno reazioni emotive esagerate e totalmente spropositate delle protagoniste. Come se fosse successo chissà che, e invece non è successo proprio niente.
Niente. Ecco di che cosa è fatto questo romanzo.

Mi spiego meglio.

C'è Adriana, di origine brasiliana, che è bellissima, ricchissima, sexy, affascinante. E' stato irritante da morire leggere ogni tre righe la descrizione di quanto fosse bella, quanto lucenti fossero i suoi capelli, quanto fosse piatto il suo ventre, e come, anche quando spostava semplicmente il sedere sopra una sedia - senza alzarsi, eh, semplicemente mettendosi più comoda -, gli uomini si voltavano a guardarla rapiti (davvero, non me lo sono inventato, nel libro succede realmente!)
Echeppalle! (scusate il francesismo, ma quando ci vuole...)
Trovo estremamente noioso e sciatto questo ripetersi di situazioni identiche ogni tre righe.
Adriana si tocca i capelli - un uomo si volta a guardarla.
Adriana si fuma una sigaretta - due uomini si voltano a guardarla.
Adriana sbatte le ciglia - tre uomini si voltano a guardarla. E così via.

Adriana, nonostante tutto ciò, alla soglia dei trent'anni è tremendamente preoccupata di veder comprarire la prima ruga. E già, capisco che avendo costruito un personaggio che ha tutto dalla vita, qualche problemino esistenziale bisognerà anche appiccicarglielo, no? Altrimenti il lettore come fa a identificarsi?
Ma più interessante è notare come le è venuto il dubbio che la bellezza possa un giorno svanire. Il dubbio le sorge perchè (tenetevi forte) un giorno un pappagallo l'ha guardata e ha detto "ciccia!".
No, dico sul serio. Il pappagallo le causa una crisi esistenziale. (Ah beh, se è per questo io ho due canarini, ma per fortuna non parlano...)
Cito:
Per quanto tempo ancora poteva ragionevolmente aspettarsi di condurre il gioco prima che la bellezza cominciasse ad appassire? Trentuno? Trentadue? Forse. Ma probabilmente era meglio non rischiare.
Eccerto, a trentatrè anni infatti scatta la rottamazione. Meglio non rischiare, eh.
A parte la superficialità di queste affermazioni, esse potrebbero ancora avere un senso se Adriana ci fosse descritta come una maniaca perfezionista, che cura il proprio corpo ossessivamente. Una paranoica, insomma.
Ma metterle in bocca pensieri paranoici così, random, quando niente (a parte il pappagallo) è intervenuto a turbare il suo equilibrio, è gratuito e non ha molto senso.

Adriana non fa assolutamente niente per vivere (no, andare dall'estetista ogni 5 minuti non conta), ma dipende economicamente dai ricchissimi genitori; e credete che si ponga il problema? Certo che no, almeno fino a quando, in seguito alla promessa fatta alle amiche, si trova un fidanzato stabile. Solo allora, le viene in mente che forse (forse, eh!) non è tanto gratificante starsene con le mani in mano tutto il giorno, visto che adesso non può più nemmeno andare a caccia di uomini! Una ragazza deve avere un hobby, nella vita, no?  Altrimenti rischia di annoiarsi, e si sa, la noia fa venire le rughe anche prima dei trentadue anni! Orrore!
Naturalmente, siccome lei è bellissima, sexy, affascinante....etc. etc., va a una cena, casualmente da un consiglio a una redattricie di Marie Claire e casualmente diventa collaboratrice della rivista. Problema risolto. Senza bisogno di alzare un dito. O meglio, senza bisogno di muovere il sedere sulla sedia!

Vogliamo parlare poi del fidanzato di Adriana? Bello, ricco e famoso? Conquistato in più o meno mezz'ora? Tra una messa in piega e una manicure?
E sia, parliamone. In pratica non è un personaggio, è un pezzo di arredamento. Sta lì, sullo sfondo, come una tenda o una carta da parati.
Serve solo ad Adriana come assicurazione contro i rischi del futuro & dell'invecchiamento precoce.
Il che mi starebbe anche bene, se si intendesse sottolineare la incredibile superficialità di una donna che si fidanza perchè non avere l'anello al dito a trent'anni pare brutto.
Ma così non è. Tristezza!

Passiamo alla seconda amica: Emmy. In una parola, una lagna. Classica, irritantissima figura di donna che senza un uomo accanto non sa che pesci prendere.
Viene mollata dal fidanzato fedifrago all'inizio del romanzo, e dopo anni di bugie, tradimenti e ostentata indifferenza di lui, lo rimpiange. (Va be', contenta lei...)
Decide di diventare una mangiatrice di uomini, e naturalmente ci riesce, dopo le prime comprensibili difficoltà.
Incontra un uomo in albergo. Le piace, ci chiacchiera un po', medita di portarselo a letto, ma prima che lei possa invitarlo esplicitamente, lui deve scappare perchè invitato ad una festa.
E lei ci resta male, per sei mesi si chiede dove ha sbagliato e perchè lui l'ha rifiutata.
Ho riletto il brano più volte, nel tentativo di trovare dov'è che lei lo avesse invitato e quando lui le avrebbe mollato il due di picche. Non sono riuscita a trovarlo. Eppure si va avanti per pagine e pagine con Emmy che si tormenta!
Comunque, dopo questa devastante esperienza, quando Emmy finalmente riesce ad avere la sua prima, eccitante avventura da una notte e via...ecco il colpo di genio! Lei ci resta male perchè lui voleva un'avventura di una sola notte, e se ne va via senza giurarle amore eterno!
Mah.

Leigh, la terza del gruppetto, potrebbe essere potenzialmente la più interessante. Editor in una grande casa editrice, è incastrata in una relazione che non le da gioia, ma che non tronca perchè, a detta di tutti, lui è un uomo perfetto. In più, è affetta da manie ossessivo-compulsive.
Ho detto potenzialmente interessante, perchè sarebbe stato lecito aspettarsi che le sue manie di ordine, pulizia, eccessiva schematizzazione le portassero qualche problema, qualche difficoltà nella vita di relazione o sul lavoro. Macchè. Per tutto il libro vengono trattate alla stregua del vizio di mangiarsi le unghie. Fastidioso, ma niente di più.

Tra le sue manie c'è anche quella di dire quello che le passa per il cervello, senza filtri.
Sempre?
No, non sempre. Ogni tanto. Quando capita. Quando è comodo ai fini della trama.
Esempio: Leigh incontra un giovane autore, Jesse Campbell, - il classico bello e maledetto - (cos'è questo odore? Ah, sì, sono i clichè che si spandono...) che, dopo due romanzi estrememamente buoni, e un terzo che è stato un flop, tenta di tornare alla ribalta con una nuova opera.
Il discorso vira su una recensione estremamente cattiva ricevuta dal romanzo-flop da parte del critico del Times.

"La recensione era meschina [dice Leigh ], non c'è dubbio. Vendicativa e poco professionale, un colpo basso. Detto questo, credo che Rancore [il romanzo flop] sia la sua opera più debole. Non meritava una recensione come quella, ma non è nemmeno lontanamente al livello della Sconfitta della Luna o, naturalmente, di Disincanto."
Bene, questa opinione è definita nel testo temeraria. Talmente cruda e cattiva da far temere a Leigh di essere licenziata per averla espressa.
Addirittura nell'udirla il capo di Leigh si porta una mano alla bocca in preda ad un muto orrore.
Ma stiamo scherzando? Questa sarebbe l'idea che la Weisberger ha di critica crudele?
Naturalmente Leigh non viene licenziata, ma non perchè in fin dei conti non ha detto nulla di male, ma perchè l'autore ha apprezzato la brutale sincerità della donna, e vuole accanto a sè una editor che abbia il coraggio di dirgli sempre la verità, perchè da quando è diventato famoso, nessuno è mai stato sincero con lui.(Oh, poverino!)
E Leigh, di fronte alla proposta, come risponde? Così:

"Ogni tanto parlo senza pensare. Ma non credo di essere capace di essere sincera a comando. Quel genere di cose mi esce fuori quando meno me lo aspetto."
Cioè, ci stai dicendo che non riesci a dire normalmente la verità? Che non ti viene naturale dire la verità quando apri bocca? Il problema, casomai, dovrebbe essere il contrario, dovrebbe essere difficile mentire a comando!
E poi, fino ad ora ti sei disperata perchè dici tutto quello che ti passa per la testa, adesso che ti serve questa qualità, sostieni di non esserne capace?
Mah.

Leigh ha qualche dubbio sulla sua relazione; a pagina 103 confessa alla sua amica Emmy di non essere innamorata di Russell, il suo fidanzato (ah, detto per inciso, Emmy fa finta di aver capito male e ignora la questione. Certo, avendo amiche così, si spiegano perfettamente i disturbi del comportamento di Leigh... )
Se ne rende conto in quel momento, ma invece di scendere a patti con questa ammissione, a pag. 134 seguiamo il filo dei pensieri di Leigh e scopriamo che:
"Lei amava Russell, lo amava davvero."
Non una parola sulla crisi di 30 pagine prima.
Mah.
Inutile precisare che Leigh diventerà l'editor dello scrittore bello&maledetto, e indovinate come andrà a finire?
No, non ve lo dico, perchè è davvero troppo facile.

Di proporzioni epiche poi, sono i dubbi e la confusione che suscita il rapporto Leigh - Jesse Campbell.
Hanno un pranzo di lavoro per conoscersi meglio, scambiano quattro parole. Lui le dice che lavora meglio a casa sua, fuori città, e chiede a Leigh che i prossimi incontri di lavoro si tengano lì.
Poi si salutano. Piove. Lui se ne va. E Leigh?

"Beh, Leigh ribolliva di rabbia. Era vermanete un co****ne e un presuntuoso. Non si era nemmeno preso il disturbo di chiederle se voleva un taxi o di accompagnarla a piedi in ufficio...non l'aveva nemmeno ringraziata per il pranzo! Non sapeva come avrebbe fatto a vezzeggiare un uomo con un ego formato mammut."

Non c'è che dire, un vero criminale.

In pratica, questo è il romanzo, per grandi linee.
Tra fidanzati che ritornano in ginocchio e fidanzati che non vedono la verità nemmeno se gliela metti per iscritto ("Leigh, ma che ti succede? Sono settimane che sei a terra, e non ho la minima idea del perchè." ); amanti con un nobile segreto da difendere, pappagalli a dieta, cameriere ventenni che sperano di arrivare come le protagoniste a trent'anni (hanno trent'nni, non settanta!! Ma perchè nessuno sembra capirlo?), si va avanti così, fino all'immancabile lieto fine, sdolcinato e scontato anch'esso.

Libro da evitare.

Ps: Olimpia, è tutta colpa mia! Perdonami! :)

Pps:e siccome mi piace farmi del male (letterariamente parlando) adesso sto leggendo il secondo seguito autorizzato di Via col Vento, ovvero, Il mondo di Rhett. La recensione prossimamente su queste pagine!

mercoledì 11 novembre 2009

Giochino letterario

Se bazzicate il web da un po', avrete sicuramente letto di quel giochino via mail, in cui ci si domanda: perchè una gallina attraversa la strada? E la risposta varia a seconda che a rispondere sia Aristotele, Marx o Cartesio.
E' un giochino molto divertente.

Due blog che ho scoperto da poco lo hanno riletto in chiave letteraria.
Trovate i post qui:
Saurono era un bravo artigiano
Poteva andare peggio

Si potrebbe provare a continuare.
Perchè la gallina attraversa la strada?

Douglas Adams: 42.

Sophie Kinsella: Perchè dall'altra parte della strada è appena iniziata una svendita di scarpe di manolo Blanc che non può assolutamente perdere.

Carlos Ruiz Zafon: perchè oltre quella strada, avvolto dalla nebbia, sorgeva il cadavere abbandonato di un palazzo, chiuso da un grosso portone di legno intagliato, annerito dal tempo e dall'umidità: il Cimitero dei Libri Dimenticati.

Continuate voi!

Ps: qui trovate la versione originale del gioco.

venerdì 6 novembre 2009

Susan a faccia in giù nella neve...

...di Carol O'Connell.

Alla vigilia di Natale, a Makers Village, una cittadina nello stato di New York, due bambine di dieci anni vengono rapite. L'unica traccia è la bicicletta di una di loro, ritrovata abbandonata alla fermata dell'autobus.
Il poliziotto incaricato delle indagini, Rouge, ha un motivo in più per cercare di ritrovare le bambine: 15 anni prima, la sua gemella, allora bambina, fu rapita e uccisa. E' vero che un uomo, un prete, è stato condannato per quell'omicidio, ma si è sempre proclamato innocente. E ora che le modalità del rapimento sembrano ricalcare quelle di 15 anni prima, Rouge spera che questa volta riuscirà ad arrivare in tempo per salvare la vita alle bambine scomparse. Con l'aiuto di Aly Cray, una criminologa dal volto sfigurato, Rouge tenta di far parlare l'unico che forse ha visto qualcosa, un ragazzino introverso che frequenta una scuola speciale vicino al luogo della sparizione.

Questo thriller tocca argomenti piuttosto delicati, come quello della pedofilia, la pedofilia e il clero, il rapimento di bambini. Lo fa con molta delicatezza, senza inutili particolari morbosi, ma raccontando tutto quello che il lettore deve sapere.
L'intreccio della trama va a scavare gli inconfessabili segreti sepolti nel passato di alcuni eminenti personaggi che abitano a Makers Village, cercando di accendere la curiosità del lettore; cosa che però riesce a fare solo in parte.
Probabilmente, a causa della delicatezza dei temi trattati, l'autrice usa un tono molto pacato, raccontando gli eventi con semplicità e senza forzare troppo la mano. Il ritmo però ne risente.
Lo svolgimento della sotria, infatti, risulta lento, come se fosse troppo diluito tra le pagine, tanto che alla fine, quando giunge il momento di tirare le somme, il lettore fa fatica e rimettere insieme tutti i pezzi del puzzle.
E questo è un peccato, perchè a conti fatti, guardando indietro dopo aver finito il romanzo, non si può certo affermare che la trama sia banale o noiosa. Anzi, l'intreccio risulta degno di nota, ma non sono riuscita a godermelo appieno durante la lettura del romanzo.
Toccanti e molto molto ben costruite le scene che raccontano la prigionia delle bambine, la loro paura, i loro ingenui tentativi di fuga. Le stesse bambine, diverse tra loro ma accumunate da una grande amicizia, sono ben caratterizzate e descritte, risultando i personaggi a cui il lettore si affeziona di più.
Del resto, le pagine che le vedono protagoniste sono le migliori del romanzo, quelle che davvero riescono a creare ansia e angoscia per la sorte delle due piccole.
Gli altri personaggi, tolti forse quelli principali sono un tantino piatti, parlano tutti allo stesso modo, fanno tutti più o meno le stesse cose, tanto che mentre leggevo, faticavo a distinguerli l'uno dell'altro, e dovevo tornare indietro chiedendomi "ma questo chi è?".

C'è di buono comunque che la Carrol rifuge dalla necessità del colpo di scena a tutti i costi, che sembra essere diventato il tratto distintivo dei thriller più recenti.
Quindi alla fine il colpevole è quantomeno plausibile, e non sembra estratto a sorte tra i vari personaggi disponibili.
Certo, una piccola sorpresa il finale ce la riserva, altrimenti, che thriller sarebbe?
Naturalmente non vi dirò qual è, ma si tratta di una trovata originale, che riesce a muovere l'animo del lettore, e che secondo me vale da sola il prezzo del libro, anche se forse i puristi del genere potrebbero storcere il naso.
Per concludere, valutazione finale: un buon thriller che strappa la sufficienza, sebbene non sia di quelli dal ritmo serrato e sconvolgente, con una trama tutto sommato solida e qualche tratto originale.