sabato 30 aprile 2016

Acquanera...

...di Valentina D'Urbano.


La scheda del libro: Acquanera sul sito Longanesi
 
Fortuna torna a casa, nel paese natale di Roccachiara, in seguito al ritrovamento di un corpo che potrebbe essere quello di Luce, la sua migliore amica scomparsa improvvisamente dieci anni prima.
Fortuna, bambina triste e solitaria, cresciuta in una famiglia molto particolare, con una madre che l'ha ignorata sin dalla nascita, ci racconta la storia di questa famiglia, una storia oscura, triste, in cui ci sono segreti con cui, prima o poi, bisognerà fare i conti.
 
Acquanera è uno di quei libri che quando cominci a leggerli, non puoi più metterli giù.
C'è qualcosa, nella scrittura di Valentina D'Urbano, che è ipnotico, affascinante. La storia che racconta è un flusso ininterrotto di vicende ed emozioni. Sembra davvero di ascoltare Fortuna che parla, racconta, svela.
 
La storia inizia negli anni quaranta, quando la nonna di Fortuna, Elsa, si trasferisce a Roccachiara, questo paesino perso tra le montagne, il cui paesaggio è dominato da un lago di acqua sempre scura, un luogo sfortunato, simbolo di sventura e di morte.
Come l'acqua del lago è immobile in superficie, ma agitata da pericolose correnti in profondità, così è il paese: tranquillo in apparenza, senza guizzi, ma opprimente, statico e soffocante.
Elsa a volte ha dei sogni premonitori, e viene additata come strega; scacciata dalla casa in cui presta servizio, viene accolta da Clara, un'esperta di erbe, anche lei considerata alla stregua di una fattucchiera.
Inizia così una storia lunga oltre cinquanta'anni; Clara, Elsa, sua figlia Onda e la figlia di quest'ultima Fortuna vivono la loro esistenza a Roccachiara, isolate da tutti e temute e disprezzate.
Non importa quanto utili e a volte miracolose siano le erbe e le cure che le donne ne traggono; trascorrono la loro esistenza come delle paria.
Quando la figlia di Elsa, Onda, mostra di avere il potere di parlare con i morti, le cose non migliorano di certo, e quando nasce Fortuna, che crede di essere figlia dell'avventura di una notte, anche alla bambina tocca il destino di solitudine e isolamento che già aveva sperimentato sua madre.
Le cose cominciano a cambiare quando in paese arriva un'altra bambina considerata una paria: Luce, la figlia del becchino. Ma Luce è una bambina molto particolare, che si porta dietro un fardello oscuro.
Figura centrale del romanzo è Onda. Figlia di Elsa, nata nello stesso giorno della morte tragica del padre, Onda cresce selvatica e sprezzante. Onda parla più con i morti che con i vivi; non vuole ricevere amore e non ne da. E' tormentata dal dolore delle anime che si rivolgono a lei perché porti un ultimo messaggio ai vivi. Si abitua alla solitudine e ne fa uno scudo, una corazza talmente impenetrabile da lasciar fuori anche la sua bambina, e questa scelta segnerà le vite, oltre che sua e di Fortuna, anche di Luce.
 
Acquanera  è la storia di una solitudine opprimente; del bisogno di amore che è innato in qualunque essere umano e di quello che si è disposti a fare nella speranza di ottenerlo. E' un romanzo che parla della morte e di vite che a volte sono più pesanti della morte. Parla di silenzi e di incomunicabilità, di legami di famiglia impossibili da ignorare e dimenticare.
La storia è un flusso di parole dolenti, è un racconto affascinante, cupo, triste, opprimente.
E' una storia che non lascia scampo e non lascia speranza. Non c'è niente di consolante in questo romanzo, e forse questa è la ragione che spiega perché colpisca così in profondità il cuore del lettore. Perché al netto delle vicende dei personaggi, al netto degli elementi soprannaturali (che non sono mai stati descritti così realisticamente), resta il peso scuro che ognuno ha dentro di noi. Abbiamo diritto all'amore che riceviamo o che vorremmo ricevere? Ne siamo degni?
A seconda della risposta che diamo a queste domande, probabilmente varieranno le nostre azioni.
Probabilmente il senso della vita è tutto qui.
 
Consigliato.
Voto: 8
 
(ps: Un grazie a Daniela di Un libro per amico per avermi consigliato e fatto conoscere questo libro, tramite la challenge del blog Lettrici Geograficamente Sparpagliate)

giovedì 28 aprile 2016

La lista dei miei desideri...

... di Lori Nelson Spielman.


La scheda del libro è sul sito della casa editrice Sperling & Kupfer.
 
 
Brett Bohlinger ha 34 anni ed ha appena perso la sua amatissima mamma. Il giorno della lettura del testamento, Brett pensa che erediterà una grossa fortuna e la direzione dell'azienda di famiglia. Ma sua madre, evidentemente, aveva altri piani per lei.
Tutto ciò che le lascia è una lettera e una lista dei desideri che Brett aveva scritto quando era adolescente, e la condizione di doverla completare entro un anno se vuole entrare in possesso della sua quota di eredità. Ogni volta che completerà un obiettivo, Brett riceverà dall'avvocato di famiglia una lettera di sua madre.
Solo che la lista contiene desideri che sono molto lontani dalla vita che Brett conduce adesso... e per completarla la ragazza dovrà mettere in discussione ogni singolo aspetto della sua vita.
 
Brett è una che nella vita ha osato poco e niente. Ha accantonato i suoi sogni e  preferito accontentarsi anziché lottare per raggiungere una vera felicità.
La mia prima impressione sulla protagonista è stata negativa. Nella prime pagine l'ho trovata insopportabilmente lagnosa. Sì, lo so che aveva appena perso la madre, ma il suo atteggiamento non mi sembrava dolore ma autocommiserazione. 
Diciamocelo: nei primi capitoli, Brett ha la spina dorsale di un'ameba. Morta.
Accetta tutto, passivamente; accetta e giustifica perfino il fidanzato che, pur sapendo quanto era forte il legame fra Brett e sua madre, non si presenta alla veglia funebre.
A proposito di fidanzato: a Andrew (questo è il suo nome) manca solo un cartello sulla testa con su scritto al neon "arrampicatore sociale". Lo si stana da lontano un miglio.
Cioè, lo stanano tutti (i lettori) ma non Brett.
Questo ricorso al facile stereotipo per far procedere la storia mi ha un po' infastidito. Alcune situazioni sono così palesemente sbagliate e dolorose per la vita di Brett che viene da chiedersi se fosse davvero necessaria la lettera della mamma e la lista dei desideri per darci un taglio.
 
Anche il rapporto tra Brett e sua madre lo trovato troppo, troppo idilliaco. Troppo zuccheroso, troppo perfetto. Addirittura sua madre riesce a prevedere, nelle lettere che vengono consegnate a Brett mano a mano che i desideri vengono spuntati dalla lista, dettagli che, essendo casuali, non avrebbe potuto in alcun modo sapere o prevedere, anche conoscendo sua figlia come le sue tasche.
Inoltre le sue richieste sono completamente sganciate dalla realtà: il primo obiettivo, quello di avere figli, potrebbe realizzarsi soltanto in un romanzo. Infatti, secondo sua madre, in un anno Brett dovrebbe: riprendersi dal lutto; lasciare il suo attuale fidanzato (che secondo sua madre non è il suo vero amore, e uno degli obiettivi della lista è - indovinate un po' - innamorarsi); innamorarsi sul serio; fare un figlio (non si capisce se concepirlo o partorirlo entro l'anno). Mi sembra decisamente assurdo.
 
Per fortuna, dopo questo inizio un po' forzato, la storia riesce a riservarci emozioni e qualche sorpresa. Quando Brett si mette in carreggiata, quando smette di cercare di completare la lista ma si accorge che fino a quel momento aveva vissuto un'esistenza non sua, la storia acquista spessore e diventa più interessante. Anche il personaggio stesso di Brett acquista un'ombra di spina dorsale e diventa più simpatico. Certo, alcune cose accadono un po' "perché sì", senza che Brett abbia lottato per ottenerle (per chi ha letto il libro, mi riferisco al risultato dell'udienza in tribunale, il cui esito non è assolutamente dipeso da Brett), tutto sommato le forzature non sono così pesanti da rovinare il fluire della trama. 
Anche l'inevitabile lieto fine non è così scontato come sembrerebbe all'inizio.
 
La lista dei miei desideri è un romanzo piacevole, sicuramente non molto impegnato, ma piacevole.
In realtà non promette più di quello che intende mantenere. E' una storia accattivante, lineare con un accento profondo sul finire (confesso: c'è stato un momento in cui mi sono commossa). Certo, aleggia in sottofondo quel messaggio un po' stucchevole "se ci credi i tuoi sogni si avverano", ma tutto sommato è una lettura godibile, che lascia un sorriso stampato sul volto del lettore. Un intermezzo piacevole fra libri emotivamente più pesanti.
Voto: 6 e 1/2

Una mutevole verità...

...di Gianrico Carofiglio.


La scheda del libro è qui, sul sito della Einaudi.
 
Il maresciallo Pietro Fenoglio, piemontese trapiantato a Bari, segue il caso di un uomo assassinato nella sua casa. Sembra un'indagine molto facile; un'unica pista, un unico sospettato, un testimone che l'ha visto sulla scena del crimine all'ora del delitto, le sue impronte sull'arma del delitto. E allora, cos'è che continua a tormentare il maresciallo? Cos'è che non  quadra, e che continua a turbare il maresciallo?
 
Una mutevole verità, vincitore del premio Scerbanenco 2014, è la ricostruzione di un'indagine classica.
Un uomo schivo, che vive da solo viene trovato morto nel suo appartamento. Le indagini puntano contro un giovane che un'anziana vicina ha visto fuggire dalla scena del crimine. L'uomo si è liberato dell'arma del delitto gettandola in un cassonetto poco lontano.
Individuato, non si difende. Ma qualcosa non torna. Qual è il movente? Il sospettato non parla, e i carabinieri non sembrano in grado di individuarne uno. E così il maresciallo riapre un'indagine che sembra già chiusa in partenza. Anche la vittima, all'apparenza così tranquilla, cosa nasconde in realtà?
 
Il romanzo è piacevole e scritto con intelligenza. Si basa sulla ricostruzione di fatti veri, adeguatamente romanzati e "camuffati" perché i protagonisti nella vita reale non siano riconoscibili.
Il realismo di Carofiglio e la sua attenzione ai dettagli conferiscono solidità al romanzo senza mai minare la scorrevolezza della lettura, anzi, rafforzandola.
Come sempre niente è lasciato al caso, e niente è fuori posto. O meglio, qualcosa è fuori posto fino a che non interviene Fenoglio ad individuare il dettaglio e collocarlo nella giusta posizione.
 
Interessante anche il personaggio principale, Fenoglio. Un uomo tranquillo, con una vita banale e tranquilla, una famiglia, una quotidianità normale, che nasconde una grande mente analitica e una grande attenzione. 
Proprio la sua pacatezza nel seguire le indagini, senza fretta, senza cercare lo scontro quando non è necessario  (come nell'episodio che costituisce l'antefatto del romanzo, durante l'arresto di un latitante),  lo rendono un personaggio in cui il lettore può immedesimarsi.
Venivo da una lettura impegnativa, emotivamente più pesante, e la lettura di questo romanzo mi ha piacevolmente sorpreso e rilassato.
 
Unico neo, la brevità del testo, 128 pagine nella sua edizione cartacea (che ci posso fare, io sono per i libri corposi, altrimenti finiscono troppo presto!).
Voto: 7

mercoledì 27 aprile 2016

L'invenzione delle ali...

...di Sue Monk Kidd.


 
 
La scheda del libro è qui, sul sito Mondadori.
 
 
Charleston, 1803. Per il suo undicesimo compleanno, Sarah Grimké riceve in regalo una schiava di nome Monella, che ha più o meno la sua età. Sarah rifiuta quel dono con tutte le sue forze, perché la schiavitù la ripugna, ma è solo una bambina in una società maschilista e conservatrice. Inizia così la storia di queste due bambine, Sarah e Monella, separate da un abisso ma unite dalla costante ricerca della libertà.
 
Sarah, a cui poi si aggiungerà la sorella più giovane Nina, sono due figure storiche. Si tratta delle prime due donne a far parte del movimento abolizionista e a parlare in pubblico a favore dei diritti delle persone di colore e delle donne.
Monella invece nasce dalla fantasia dell'autrice, anche se è ispirata ad una giovane schiava della famiglia Grimké, che però morì giovane per cause che non conosciamo.
 
Sarah e Monella (o Hetty, come la chiamano i padroni) si dividono il palcoscenico di questa storia, narrando in prima persona un capitolo ciascuna.
La storia cominciando quando entrambe hanno circa undici anni. La voce di queste due bambine, più simili tra loro di quanto possa sembrare all'inizio, è fresca, leggera e a volte, nel caso di Monella, anche leggermente ironica.
Sarah sta crescendo in un ambiente fortemente condizionato dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali; un mondo che si oppone al cambiamento con tutte le sue forze. La bambina vorrebbe liberare Monella, ma non le viene permesso, così pensa di aiutarla a sfuggire alla sua condizione insegnandole a leggere. Quando vengono scoperte, vengono punite. A Sarah viene impedito l'accesso alla biblioteca paterna, e qui la piccola ha la sua prima grande delusione. Pensava che suo padre avrebbe capito quello che stava tentando di fare, l'avrebbe appoggiata e avrebbe appoggiato il desiderio di diventare giurista come lui e i suoi fratelli.
Dal canto suo, Monella ha una visione del mondo più disincantata, ha imparato presto a vedere le persone per quello che sono, e, insieme a sua madre Charlotte, donna di ingegno e straordinaria tenacia, lotta come può per migliorare la sua condizione e riacquistare, un giorno, la libertà.
 
Sono rimasta colpita dalla capacità di Sue Monk Kidd di mostrarci il sistema dello schiavismo in tutta la sua meschinità.
L'autrice non ha bisogno di raccontarci atti di efferata crudeltà per disgustare il lettore e disprezzare persone che con sorprendente leggerezza consideravano gli schiavi una proprietà.
Di esempi posso citarne tanti: Monella presentata a Sarah con un fiocco intorno al collo, come fosse un pacco regalo da scartare per il suo compleanno; l'obbligo per lo schiavo di dormire per terra fuori dalla stanza del padrone, casomai il padrone avesse bisogno di qualcosa; la possibilità di affittare lo schiavo e trattenere 3/4 della sua paga (3/4!), l'elenco degli schiavi e del loro valore contenuto nei registri di casa, in cui gli schiavi erano elencati insieme ai beni mobili, tra un tappeto e un paiolo in rame.
 
[Monella] Beni mobili e immobili. Mi tornarono alla mente le parole del libro di cuoio. Eravamo come lo specchio in foglia d’oro e la sella del cavallo. Non persone a pieno titolo. Io non ci credevo, non ci avevo mai creduto per un solo giorno, ma se ascoltavi i discorsi dei bianchi abbastanza a lungo c’era una parte triste e avvilita di te che cominciava a dubitare. A quel punto tutto l’orgoglio per il nostro valore mi abbandonò. Per la prima volta provai il dolore e la vergogna di essere quello che ero.
Dopo un po’ scesi nello scantinato. Quando mamma vide i miei occhi arrossati disse: «Nessuno può scrivere in un libro quanto vali».
 
Non che le crudeltà mancassero, no. Ma l'autrice riesce a farci vedere "la banalità del male", in tutte le sue dimensioni, non solo in quelle più macroscopiche.
Crescendo, Sarah non rinuncia ai suoi principi e valori, ma viene in qualche modo risucchiata dall'ipocrisia della società in cui vive, ed il legame che aveva faticosamente stabilito con Monella si allenta, anche se non si spezzerà mai del tutto.
La vita allontanerà le due ragazze, ognuna vivrà esperienze dure, diverse tra loro, ma alla fine, riusciranno a ritrovarsi, sia spiritualmente che fisicamente.
 
La storia è vibrante, mai noiosa, mai banale e mai scontata. Oltre a essere apprezzabile per il significato e i valori che porta con sé, è anche una bella storia, ricca di avvenimenti e di personaggi secondari, ma tutti molto veri.
Su tutti però spiccano Monella e sua madre. E' incredibile come un personaggio quasi completamente inventato riesca a superare in vividezza e empatia Sarah, sulla cui vita e opere Sue Monk Kidd ha compiuto accurate ricerche.
La prima parte del romanzo, quella in cui Sarah e Monella sono bambine, è a  parer mio la migliore.
La storia rallenta un po' nel finale, specie per quel che riguarda la parte narrata da Sarah, ma resta pur sempre un romanzo da divorare in due giorni, i cui personaggi resteranno nel cuore del lettore a lungo.
 
Oltre a un libro sulla schiavitù, L'invenzione delle ali è un romanzo sulla ricerca costante della libertà, sulla ricerca del proprio posto nel mondo e sulla costante lotta che ognuno di noi compie per trovarlo.
Voto: 8
 
 


domenica 24 aprile 2016

Niceville - La resa dei conti...

...Carsten Stroud.


La scheda del libro è sul sito della Longanesi, qui.
La recensione ai primi due volumi della trilogia si trovano qui e  qui.
 
Dopo aver cominciato a capire cosa sta tramando nell'ombra a Niceville, cominciamo a fare i conti con le conseguenze di ciò che è accaduto.
Rainey Teague è sempre più vicino "al lato oscuro"; e come se ciò non bastasse, le centinaia di persone sparite misteriosamente a Niceville nel corso degli anni cominciano a ricomparire altrettanto misteriosamente. Anche i morti sembra non possanono riposare, perché c'è qualcosa che devono fare nella piantagione Ruelle, che sembra sospesa nel passato, e dove una donna di nome Glynis cerca giustizia per la sorella Clara, per un torto avvenuto decenni fa...
 
La resa dei conti è l'ultimo volume della trilogia dedicata a Niceville, la piccola cittadina del Sud degli Stati Uniti, che di carino ha solo il nome.
Il titolo non tradisce le aspettative. Sì, avremo la nostra resa dei conti finale, con tanto di duelli alla "Mezzogiorno di fuoco", sparatorie, vendette, e tutti gli oscuri segreti che finalmente emergeranno dal passato.
Per me che ho sempre apprezzato le atmosfere delle storie ambientate nel periodo precedente la Guerra di Secessione, le parti migliori del romanzo restano sempre quelle ambientate nel passato o nella piantagione Ruelle.
I morti - o meglio, coloro che sono sospesi tra la vita e la morte - che lavorano alla piantagione per un fantomatico raccolto (ovvero per trovare, finalmente, la pace, avendo commesso in vita  qualcosa da espiare) sono delle figure dolenti e di grande impatto narrativo. Finalmente scopriamo in cosa consista il raccolto, ed io penso sia una grande trovata narrativa.
Troppo spazio dedicato, sempre a parer mio, alla sottotrama della rapina in banca, a cui vengono aggiunte altre complicazioni non proprio rilevanti per la trama principale. E per la prima volta ho provato un senso di fastidio nel vedere l'intreccio interrotto da queste digressioni.
La parte squisitamente horror/sovrannaturale del romanzo è avvincente, ed è quello che spinge il lettore a non mettere giù il libro; l'altra parte, quella da romanzo "hardboiled" perde di mordente in questo volume, anche perché oramai quasi tutti i nodi sono arrivati al pettine.
 Eppure questa parte continua ad avere un grande spazio anche quando non sarebbe necessario. Intendiamoci, di per sé i capitoli in questione sono godibili, scritta con la solita verve e una sottile vena di ironia, ma continuo a pensare che l'autore si sia fatto prendere la mano.

Ritorna in questo volume il famigerato manicomio in disuso già visto nel secondo volume, in cui è stato protagonista di una delle più belle scene horror che io abbia mai letto. E' proprio qui che avverrà la fatidica resa dei conti, con un esito, per il cattivo, degno del miglior King.
Ecco, nonostante non siano rimasti in sospeso grandi enigmi, e nonostante ogni tessera del puzzle abbia trovato la sua collocazione, trovo che la spiegazione finale (sull'entità che tormenta Niceville, sulle sue origini, su come sconfiggerla), benché suggestiva, sia stata un po' sbrigativa. Dopo le oltre mille pagine che compongono la trilogia, non credo che una decina di pagine in più avrebbero ucciso il lettore.
Non che si tratti di un finale deludente, questo no. Ma avrebbe meritato più spazio e più calma nell'essere narrato. 

Certo, mi rendo conto che la trilogia di Niceville non sia un'opera facile da leggere. La moltitudine di personaggi, le diverse sottotrame, i continui cambi di fronte della narrazione e di alcuni personaggi (specialmente di Rainey Teague) ne fanno un romanzo che ha bisogno di attenzione e di buona memoria.
C'è da dire che la lettura è però molto scorrevole, anche grazie alla vivide descrizioni dell'autore, ed al suo stile fresco e a tratti ironico. Certo, questo modo di raccontare, usando un narratore onnisciente esterno, che è scarsamente coinvolto nelle vicende dei personaggi rende difficile empatizzare con loro; sono dei bei personaggi, ben caratterizzati, vivi quanto basta, ma non stiamo in pena per loro più di tanto.
E questo è il secondo grande limite dell'opera, secondo me (il primo è, come detto, l'autocompiacimento dell'autore nel narrare i capitoli d'azione, che gli hanno preso la mano).

Nel complesso ci troviamo di fronte ad una trilogia ben scritta, scorrevole ed originale, che fonde elementi tipici del genere horror con altri generi, e riesce bene nel suo scopo.

Voto 7- al volume conclusivo, ed un 7 pieno alla trilogia nel suo complesso.
 

venerdì 22 aprile 2016

Niceville - I confini del nulla...

... di Carsten Stroud.


La scheda, come sempre, la trovate qui.
 
Dalla presentazione:
 
Benvenuti a Niceville,  la città dove il male  è nato molto prima degli uomini. 
Il sole inonda di luce dorata le strade e le case coloniali, filtrando tra le querce e i salici per andare a rifrangersi sulle acque turbolente del fiume Tulip. Niceville sarebbe una cittadina idilliaca... Se non fosse per le ombre, i sussurri, le sparizioni. E tutte quelle morti misteriose. Il detective della omicidi Nick Kavanaugh è un forestiero, che vive e lavora in quel piccolo centro nel profondo Sud degli Stati Uniti per amore della moglie, Kate Walker, discendente di una delle più antiche famiglie della zona. Da tempo Nick è alle prese con eventi non solo criminosi, ma anche inspiegabili. Da un lato ci sono le conseguenze imprevedibili e sanguinose di una rapina in banca finita nel sangue, con una lunga scia di ricatti, vendette e complicità. E dall’altro, c’è Rainey Teague. Che è solo un ragazzo... o forse no. Forse è abitato da un’energia oscura e implacabile. La stessa che permea ogni angolo di Niceville. Perché a Niceville nulla resta morto e sepolto a lungo. A Niceville ogni famiglia custodisce un segreto che mormora dai confini del nulla, affilando gli artigli nel buio. A Niceville nessuno può sfuggire al vuoto. [...]
 
Qualche statistica su Niceville:
179 persone scomparse in modo inspiegabile
3.276 corvi
Crater Sink, una dolina di acque nere profonda almeno trecento metri. Ciò che vi finisce dentro non esce mai. Si trova in cima a Tallulah’s Wall, un picco roccioso alto 360 metri che incombe sulla parte nordorientale di Niceville.
Niceville ha in totale 25.000 abitanti.
Non tutti sono brave persone.
 
Il secondo volume di questa trilogia dedicata all'inquietante cittadina di Niceville riprende gli eventi più o meno dove il primo volume ci aveva lasciati (trovate la recensione qui).
Carsten Stroud si conferma, a parer mio, uno scrittore con lo straordinario talento di gestire felicemente molti personaggi e diverse sottotrame.
Nessun personaggio è soltanto una sagoma di cartone; ognuno di loro è ben caratterizzato e ha la sua fetta di spazio sul palcoscenico di Niceville.
Gli avvenimenti sono raccontati dalla voce di un narratore onnisciente esterno ai personaggi, che li segue come se stesse commentando, con divertita ironia, le loro vicende a posteriori. L'onniscienza del narratore però viene dosata con cura e lo scrittore non ne abusa mai per creare colpi di scena. Diciamo che non ne ha bisogno.
 
Anche in questo caso abbiamo, grosso modo, generi letterari che si intersecano: l'hardboil e il genere più genuinamente horror.
Nei capitoli appartenenti al primo, la narrazione è ricca di particolari realistici; impressionante, (e anche un tantinello inquietante) la maestria di Stroud nel descrivere le armi e gli effetti devastanti di ogni colpo sparato.
Ci sono un sacco di armi da fuoco, in questa storia, ma non sono le cose più pericolose di cui ci troveremo a leggere.
 
Per quel che riguarda le vicende più marcatamente horror, continua anche la lenta e incredula discesa dei protagonisti nel "pozzo degli orrori" che è Niceville. E anche qui, gli elementi che fanno grande un horror ci sono tutti.
Rainey Teague, il ragazzino rapito e ritrovato dentro una cripta sigillata, comincia a manifestare comportamenti inquietanti; almeno una sparizione sembra essere collegata direttamente a lui. Strani  - e incredibili particolari emergono sulle sue origini e la sua adozione. E tutto, ancora una volta, sembra affondare le radici nel passato della famiglia Teague e della altre famiglie fondatrici della città.
Una menzione speciale al manicomio abbandonato  - un classico della letteratura horror, direi - in cui sono ambientati un paio di capitoli. La descrizione delle scene che vi si svolgono è magistrale, il buio e le ombre che si annidano ad ogni angolo sono palpabili, e nonostante stia usando solo la scrittura Carsten Stroud riesce a sollecitare tutti i nostri sensi. Anche l'udito, ad esempio; i rumori - o l'assenza di essi - narrati da questo scrittore riescono ad essere molto più spaventosi di qualsivoglia improvvisa apparizione diabolica.
 
La trama procede speditamente, il ritmo è elevato e non ci sono punti morti. Trattandosi del volume centrale della trilogia, ci si potrebbe aspettare una storia di transizione, e quindi più lenta e meno interlocutoria, ma non è così.
Sicuramente dal punto di vista della trama la transizione esiste; nel primo volume facevamo la conoscenza dei misteri di Niceville. Adesso cominciamo a fare i conti con le conseguenze di quanto è avvenuto nel primo volume. Questo volume ci traghetta dal "senso di stupore" per la scoperta che il male si annida a Niceville al "senso di urgenza" perché è necessario fare qualcosa prima che la situazione precipiti del tutto.
 
Niceville  - I confini del nulla - non è un libro che si può raccontare senza sciuparne la bellezza. Va letto, per immergersi nelle atmosfere cupe di un passato che non vuole saperne di restare sepolto.
Voto: 7 e 1/2.
 
 

giovedì 21 aprile 2016

Niceville...

... di Carten Stroud.


La scheda del libro è sul sito della Longanesi.

Un ragazzino scompare. Letteralmente (leggendo scoprirete perché) svanito nel nulla. Per dieci lunghi giorni tutte le forze di polizia lo cercano ovunque. Dopo dieci giorni ricompare, vivo, in una cripta sigillata da almeno un centinaio di anni.
Contemporaneamente, una sanguinosa rapina viene commessa poco distante da Niceville.
E dopo qualche giorno, altre tre persone svaniscono nel nulla. 
Questi avvenimenti sembrano non avere nulla in comune. Eppure piano piano i personaggi di entrambi intrecceranno le loro vicende in una maniera che non avrebbero mai potuto immaginare.
No, questa (all'apparenza) sonnacchiosa cittadina del sud degli Stati Uniti non è tranquilla come sembra.
Qualcosa di malvagio lavora nell'ombra, da tanto tempo, per uno scopo - per ora - incomprensibile.

L'incipit:
Il dipartimento di polizia di Niceville riuscì in meno di un’ora a identificare l’ultima persona che aveva visto il bambino ancora vivo. Era un uomo di nome Alf Pennington, proprietario di un negozio di libri usati sulla North Gwinnett, vicino all’incrocio con Kingsbane Walk. La sua libreria si trovava proprio lungo il tragitto che il ragazzino, il cui nome era Rainey Teague, percorreva di solito per tornare da scuola, la Regiopolis Prep, a casa sua, a Garrison Hills.
 Era un percorso di circa un chilometro e mezzo e il ragazzino di soli dieci anni, che amava vagabondare con calma guardando tutte le vetrine dei negozi lungo la strada, impiegava di solito poco più di mezz’ora per compierlo.
 
L'incipit di Niceville ci catapulta direttamente nella storia, senza giri di parole, senza preamboli. Apriamo il libro e bam! Siamo lì.
Ho cominciato ad amare il romanzo fin dalle sue prime righe proprio per questo.
La storia del bambino scomparso da il via al romanzo; è una storia che affonda le sue radici nel periodo delle grandi piantagioni, negli anni immediatamente precedenti la guerra civile americana.
Flashback e "apparizioni " di quel periodo non mancano, portando con sé tutto il torbido fascino di un periodo storico con molte ombre.
Queste ombre antiche si allungano nel presente, e tutta la storia ne è pervasa, e il lettore riesce a sentirle in sottofondo.
Il male vive a Niceville, e il lettore può sentirlo.
 
L'autore riesce a inglobare nella sua storia horror altri generi letterari, quali il giallo investigativo e il poliziesco hardboiled.
Anche se a prima vista questa commistione di generi sembra, sulla carta, non reggere, a conti fatti regge benissimo.
Niceville è una delle storie più avvincenti e originali che abbia letto negli ultimi anni.
La commistione di generi sulle prime crea una netta divisione tra le due sottotrame principali (la scomparsa del bambino e la rapina in banca), ma man mano che gli eventi procedono, la divisione sfuma fino ad essere quasi impercettibile.
Da parte mia, ho apprezzato moltissimo i capitoli ambientati o riguardanti gli eventi passati, che hanno luogo, come detto, negli anni precedenti la Guerra Civile Americana. Carsten Stroud riesce a evocare atmosfere soffocanti e misteriose con molta bravura.
Gli elementi classici del genere horror ci sono tutti: oscure presenze; inspiegabili sparizioni; case infestate. Ma questi elementi sono rielaborati con abilità e con originalità. Mi spiego: è vero che abbiamo sparizioni inspiegabili e ataviche dimore infestate, ma le infestazioni e le manifestazioni soprannaturali prendono pieghe ben diverse da quelle che l'appassionato del genere potrebbe aspettarsi.
Tra l'altro, gli avvenimenti inspiegabili non prendono il via all'improvviso, come capita in certi libri in cui pare che da un giorno all'altro il mondo prenda a girare nel verso sbagliato; la fama sinistra di Niceville esiste già da un po' (diciamo da secoli), gli eventi inspiegabili affondano le loro radici in un passato molto, molto lontano, e la polizia ha addirittura un fascicolo aperto su numerosissime sparizioni tutte irrisolte, che fanno della cittadina un caso studiato a livello accademico dalle forze dell'ordine.
 
I protagonisti sono diversi: c'è il detective del CID Nick Kavanaugh, ex militare dei corpi speciali, che rimpiange il suo passato nell'esercito; sua moglie Kate, avvocato civilista specializzata in diritto di famiglia; sua sorella Beth, suo fratello Reed, anch'egli nella polizia, e tutta una serie di co-protagonisti ognuno dei quali abbastanza eccentrico da risultare originale, ma non così tanto da sembrare una macchietta.
Li ho amati tutti, anche i cattivi.
Quando leggo un libro, e devo costantemente ricordarmi che non posso fare il tifo per un certo personaggio, perché lui è il cattivo e a me piacciono i buoni, so per certo che lo scrittore ha fatto un buon lavoro.
 
Una menzione speciale meritano i nomi dei protagonisti, quasi tutti impronunciabili (almeno per me! Come mai si pronuncerà Teague? [Tighiu]? O qualcosa del genere?) ma che esprimono carattere.

Un po' Stephen King, un po' James Ellroy, Carsten Stroud riesce a dare vita a qualcosa di unico nel suo genere.
Certo, essendo questo il primo volume di una trilogia, bisognerà vedere se le ottime premesse verranno mantenute nei volumi seguenti.
Ma nel frattempo... godiamoci il viaggio e il soggiorno a Niceville.
Voto 7 e 1/2.
 
 

mercoledì 20 aprile 2016

Wintergirls...

..di Lauri Halse Anderson.


La scheda del libro è sul sito Giunti Editore.
 
Wintergirls è la storia del rapporto malato tra due ragazzine, che si trascinano l'un l'altra nel gorgo dell'anoressia e dell'autolesionismo. Quando Cassie muore, e Lia ha molte ragioni per sentirsi in colpa per quello che le è accaduto, i suoi disturbi peggiorano in maniera drastica, fino a che...
 
Inutile girarci intorno: Wintergirls non è un libro facile da leggere e da metabolizzare. Durante tutta la lettura mi sentivo lo stomaco stretto in una morsa.
Ma Wintergirls è un libro che merita di essere letto.
 
Questa non è una storia vera, ma potrebbe tranquillamente esserlo. Forse questa doppia anima del romanzo è ciò che lo rende così penetrante. Con un linguaggio apparentemente leggero e svagato, Lia racconta in prima persona la sua ossessione per il cibo e le sue manovre per non mangiare e non prendere peso.
Lia racconta la sua storia al presente, e la sua voce narrante non si rende conto di quanto sia sbagliato, pericoloso e controproducente quello che sta facendo a se stessa. Lia racconta una normalità che agli occhi del lettore è aberrazione; questo espediente straniante conferisce uno spessore al racconto che tiene inchiodati alle pagine.
La vita di Lia è una battaglia: lei contro il resto del mondo. Lia vive in trincea, crede che ognuno sia suo nemico, ed è come se ogni sentimento, sensazione (anche il senso del pericolo) siano congelate in lei. Vive un ininterrotto inverno glaciale (da qui il titolo del libro). Nessuno può entrare.
 
Perché? Vuoi sapere perché?
   Infilati in una cabina di un solarium e friggiti per due o tre giorni. Quando la pelle sarà tutta bolle e comincerà a spellarsi, rotolati nel sale grosso, poi mettiti una maglia di lana intrecciata con vetro filato e lamette. Poi mettiti sopra i tuoi vestiti normali e stringili più che puoi.
   Fuma polvere da sparo e vai a scuola e salta dentro i cerchi, mettiti seduta e supplica, e rotolati a comando. Ascolta i sussurri che di notte ti si annidano in testa, ti dicono che sei brutta e grassa e stupida e stronza e, peggio ancora, “una delusione”. Vomita e crepa di fame e tagliati e bevi perché non vuoi sentire nulla di tutto questo. Vomita e crepa di fame e tagliati e bevi perché hai bisogno di un anestetico e funziona. Per un po’. Ma poi l’anestetico diventa veleno e a quel punto è troppo tardi perché te lo sei iniettato dritto nell’anima. Ti sta distruggendo e non puoi farne a meno.
   Guardati in uno specchio e vedrai un fantasma. Senti ogni battito del tuo cuore che urla che ogni singola cosa in te non funziona.
   “Perché?” è la domanda sbagliata.
   Chiediti piuttosto: “Perché no?”.
 
Il senso del libro è tutto in questo passaggio. C'è qualcosa - disagio, dolore, senso di inadeguatezza, paura - intrappolato dentro Lia e Cassie, e loro non sanno come farlo uscire. E chi sta intorno non riesce ad ascoltarle davvero.
La cosa più agghiacciante e più vera è proprio questa. Ci sono tante persone intorno a lei: sua madre, suo padre, la sua nuova compagna che vuole bene a Lia ed è sinceramente preoccupata per lei, e la sua sorellina. Eppure nessuno dei loro sforzi riesce ad incrinare la corazza di ghiaccio di Lia.
Certo, anche loro non sono esenti da colpe; vedere questa famiglia allargata attraverso gli occhi di Lia è stato molto istruttivo. Triste, ma istruttivo.
Ad un certo punto, qualcosa incrina la corazza di ghiaccio della ragazza, e da qui comincia la sua redenzione (Grazie al cielo!! Non credo che sarei mai più riuscita a dormire bene se il libro non mi avesse lasciato un filo di speranza!!).
 
Questo libro andrebbe letto nelle scuole. Andrebbe proposto ai genitori. La bravura dell'autrice consiste tutta nel farci entrare sul serio nella testa di un'adolescente anoressica, senza sentimentalismi, senza pietismi inutili. Solo la cruda e dura realtà. 
Come ci sia riuscita, io non lo so. Ma la Anderson ha davvero aperto una finestra su un mondo difficile da comprendere.
Istruttivo. Coinvolgente. Consigliato.
Voto: 8
 
 

giovedì 14 aprile 2016

La lettrice bugiarda...

...di Brunonia Barry.



La scheda del libro la trovate sul sito della Garzanti.

Towner Whitney torna a Salem, nel Massachussets, dopo quindici anni di assenza. Salem è il luogo dove è cresciuta, ma che rievoca troppi brutti ricordi, primo fra tutti il suicidio della gemella Lindley, avvenuto quando era una ragazzina. La scomparsa di Eva, seconda moglie di suo nonno, che è per lei come una madre, la costringe però a tornare.
La famiglia di Towner è eccentrica e problematica. Le donne della famiglia sono veggenti, leggo il futuro attraverso le trame del pizzo che esse stesse creano a mano.
La madre di Towner, May, gestisce un rifugio per donne maltrattate e vive su una piccola isola come una reclusa; quando Towner e Lindley erano piccole, aveva dato alla sua sorellastra Emma Lindley perché la crescesse come figlia sua, visto che non poteva averne, e questo Towner non glielo ha mai perdonato, anche perché il marito di Emma, Cal, è un uomo ambiguo e violento.
La scomparsa di Eva metterà in moto gli eventi che porteranno Towner a scoprire il segreto della sua famiglia, e che il passato non è come sembra.
 
Per la serie, un libro, un perché, il perché di oggi è: come mai questo libro si intitola, nella sua traduzione in italiano, la lettrice bugiarda? Non c'è nessuna lettrice, non nel senso classico del termine, perché la parola lettrice fa riferimento, nel romanzo, alla lettura del futuro, mentre di bugiarde neanche l'ombra. Casomai nel libro qualche lettrice è reticente... ma bugiarda no, eh.
Infatti il titolo originale è The Lace Reader (Le lettrice di pizzo). Sicuramente si tratta di un dettaglio, ma è bene avvisare il potenziale lettore che il titolo può trarre in inganno sul contenuto del romanzo. 
 
La lettrice bugiarda è principalmente la storia di una famiglia antica e misteriosa. L'ombra della magia e della lettura del futuro aleggia intorno ai suoi componenti per tutta la durata del racconto, senza però essere particolarmente invadente e senza prendere il sopravvento.
Sullo sfondo di una Salem moderna ma ancora segnata dagli eventi del 1647, quando cominciò la tragica caccia alla streghe nel Massachussets, si muovono personaggi che all'inizio sono difficili da comprendere. Towner, che racconta la maggior parte della storia in prima persona, parla a ruota libera saltando di palo in frasca; sua madre May è indecifrabile nelle sue decisioni, il suo mutismo, le sue azioni. Emma, diventata cieca per le percosse di Cal, è poco più di ombra sbiadita. Cal invece, è ora un fanatico religioso che ha fondato una setta di pericolosi estremisti cristiani.
L'unico punto fermo sembra Eva, ma Eva è sparita, e la mente di Towner sembra sbandare, e a dire il vero, anche il lettore con lei.
Questo romanzo ha infatti un unico grande limite: se non si supera pagina 200 circa, ci si continua a chiedere che genere di storia abbiamo in mano e dove andremo a finire.
Il che, su un libro di 377 pagine, può effettivamente rappresentare un problema.
La sensazione di girare a vuoto è molto forte.
 
Quando gli eventi precipitano (e mi viene da dire finalmente) il romanzo cambia volto. Finalmente la trama si apre al lettore, intesse misteri e comincia a svelarli fino al concitato finale dove ogni cosa viene chiarita.
Capisco che le prime duecento pagine possano anche essere state preparatorie per comprendere la strana famiglia di cui l'autrice vuole raccontare la storia. Ma sono francamente troppe. E' come se la Barry avesse avuto paura di scoprirsi troppo presto. Ma qualche taglio ben assestato avrebbe senza dubbio aiutato la scorrevolezza della storia.
Da pagina 200, sembra di avere tra le mani un altro romanzo: finalmente troviamo la saga familiare ricca di segreti e misteri che la quarta di copertina promette. Finalmente troviamo una bella storia che merita di essere letta.
 
Personalmente, credo che il gioco valga la candela. Ma io sono una lettrice paziente, difficilmente abbandono un libro (credo di avere un solo libro abbandonato nella mia storia di lettrice, L'eleganza del riccio di Muriel Barbery, una noia mortale, a parer mio); capisco che un lettore diverso, che ama immergersi immediatamente nella trama, possa avere difficoltà a portare a termine la lettura.
Voto: 6 e 1/2

martedì 12 aprile 2016

La ragazza del treno...

...di Paula Hawkins.


Sul sito delle Edizioni Piemme trovate la scheda del libro.
 
Rachel è una trentenne a pezzi. Tradita dal marito in un momento della sua vita in cui era particolarmente fragile, adesso è sola, alcolizzata, depressa, ha perso il lavoro e vive nella camera degli ospiti di un'amica. Tutti i giorni prende il treno per Londra fingendo di andare in ufficio, e tutti i giorni il treno si ferma ad un semaforo, e Rachel guarda le case vicine ai binari e spia all'interno. In una di queste villette, vive una coppia che sembra a Rachel la coppia perfetta: belli, giovani, innamorati e felici. Rachel fantastica sulla loro vita perfetta, ma ben presto la ragazza scoprirà che non è tutto oro quello che luccica. Quando la giovane donna della villetta scompare Rachel sarà l'unica ad aver visto qualcosa di strano prima della scomparsa...
 
La ragazza del treno è stato presentato come "il caso letterario dell'anno". Ve lo dico subito, così ci togliamo il pensiero e amen. No, non siamo di fronte ad un capolavoro eterno ed immortale della letteratura. Se lo leggerete con questo spirito, ne resterete delusi.
Ma La ragazza del treno è un buon thriller, il cui vero punto di forza non è tanto il cosa racconta, ma come lo racconta.
La storia è narrata in prima persona dalla voce di tre donne: Rachel, Ann (la donna con cui il marito di Rachel l'ha tradita) e Megan (la donna della villetta).
Rachel è la voce narrante principale. E' un personaggio fragile e instabile. Tenta di insinuarsi nella vita di Scott e Megan con comportamenti al limite dello stalking. Per questo c'è da chiedersi: è attendibile? Proprio la sua instabilità contribuisce a creare l'alone di mistero che intriga il lettore. Cosa ha visto davvero prima che Megan scomparisse?  I suoi ricordi sono reali? O frutto di allucinazioni dovute all'alcool? Non lo sapremo fino alla fine del romanzo.
Ann invece è una donna all'apparenza sicura di sé, ma che in realtà è molto insicura, e psicologicamente dipendente dal marito Tom (l'ex marito di Rachel).
Megan invece è una bambina nel corpo di un'adulta; nel momento in cui fa l'unica scelta matura della sua vita, si avvia a passo di danza verso il baratro.
Comprimari sono Tom e Scott, il marito di Megan, che Rachel aveva idealizzato guardandolo vivere dal finestrino di un treno.

Le voci narranti raccontano eventi leggermente sfasati dal punto di vista temporale e questo, sebbene inizialmente possa creare un po' di smarrimento (ma basta badare alla data con cui ogni capitolo inizia), a conti fatti crea il classico puzzle o rompicapo, cui il lettore aggiunge pazientemente una tessera dopo l'altra, pagina dopo pagina.
La storia non è così chiara come sembrerebbe all'inizio, e la narrazione dal punto di vista di tre persone diverse, che vedono gli stessi eventi in modo completamente differente, da l'impressione al lettore di essere sulla scena del crimine, e in ogni caso dentro la storia.
Il lettore è messo via via davanti alla ricostruzione parziale degli eventi e non può fare a meno di andare avanti a leggere per cogliere la verità nella sua interezza.
Cosa nasconde l'amnesia "da sbronza" di Rachel? Scott è davvero l'uomo innamorato che sembra? Quale segreto è sepolto nel passato di Megan? Cosa c'è dietro le frequenti assenza da casa di Tom?
 
Il romanzo fila via veloce come un treno (scusate, non ho resistito) e si rivela una lettura piacevole e originale. Non male il finale, dove scopriamo il colpevole e scopriamo la sua lungimirante strategia manipolatoria che mi ha piacevolmente sorpreso.
Voto: 7
 

lunedì 11 aprile 2016

Urla nel silenzio...

...di Angela Marsons.



Sul sito della casa editrice Newton Compton Editori trovate la scheda del libro e la possibilità di leggere un estratto.

Prima di iniziare, vorrei spendere due parole sulla casa editrice.
Io amo la Newton Compton Editori. Sono stati i primi, anni e anni fa, ad abbassare i prezzi dei libri, a permettermi di comprare, con sole mille lire, grandi classici del genere fantascientifico, horror, giallo. Come dimenticare la ristampa a prezzi bassissimi dell'opera completa di Arthur Conan Doyle o di H. P. Lovecraft? Non li ringrazierò mai abbastanza.
Oggi sono tra le prime case editrici a proporre ebook a prezzi ragionevoli (Urla nel silenzio costa solo 2,99 euro). Una casa editrice che merita di essere sostenuta da noi lettori.

Bene, detto questo, passiamo all'analisi del libro.

Kim Stone, detective della polizia inglese, si trova ad indagare su una serie di omicidi che appaiono legati ad un vecchio orfanotrofio abbandonato da tempo. Indagare su queste circostanze non sarà facile per lei, che ha alle spalle una infanzia passata tra istituti e famiglie affidatarie; ma proprio grazie alla sua particolare sensibilità in materia, riuscirà a sbrogliare la matassa e venire a capo del mistero.

Per la serie, una casa editrice , un perché, vorrei tanto sapere quale sia la necessità di scrivere, su ogni thriller pubblicato dalla Newton Compton la frase "un grande thriller". Ora, io non so chi si occupa di creare e approvare le copertine dei libri, ma chiunque tu sia, ti prego, lascia che siamo noi lettori a giudicare se abbiamo davanti un grande thriller o meno. A volte si rischia di fare brutte figure.
E' questo il caso? Beh, sì e no.
 
Urla nel silenzio è un buon thriller, senza dubbio.
I segreti sepolti nel passato che tornano e muovono la mano omicida non saranno un tema originalissimo, ma per quel che mi riguarda sono sempre piacevoli da leggere e da scoprire. L'intreccio è ben congegnato e la trama abbastanza solida, a parte un piccolo dettaglio di cui dirò in seguito.
Durante la lettura avevo delle perplessità sulle modalità degli omicidi; mi pareva che, se uccidi per coprire un segreto, dovresti essere un tantinello più discreto nell'eliminazione delle persone che ne sono a conoscenza, altrimenti sarebbe come spedire un invito a scavare nel passato alla polizia e ai giornalisti. Questo dettaglio mi infastidiva, ma ho scoperto con piacere che la cosa aveva un suo perché e una sua spiegazione razionale, che ho compreso solo arrivata al doppio colpo di scena finale. Questo vuol dire semplicemente che l'autrice, quando scriveva, sapeva quello che faceva e dove voleva arrivare, il che è senz'altro un punto di merito per il romanzo.
Il finale resta la cosa migliore di questo thriller, il che non è poco (quanti libri di questo genere avete letto che sono andati a rotoli perché la conclusione non era all'altezza dell'intreccio?).
Interessanti anche i capitoli in cui seguiamo gli omicidi dal punto di vista delle vittime. Un piacevole diversivo dalla attuale tendenza a seguire, per alcuni capitoli, il punto di vista dell'assassino.
Le vittime e gli eventi passati che le riguardano occupano molto spazio e approfondimento nel romanzo, e questo è un altro punto di forza della storia.
L'unica perplessità me l'ha lasciata, come accennavo sopra, un particolare. La detective Kim Stone arriva all'identità dell'assassino... ma come? Continua a ripetersi che c'è un pezzo del puzzle che non si incastra nel resto, e questo le permette di arrivare a scoprire la verità. Sì, ma il pezzo che non si incastra qual è? Sarebbe stato educato condividerlo anche con noi lettori.
Fin qui le note positive.
 
Cos'è quindi che non fa di Urla nel silenzio un grande thriller?
Diciamo che il romanzo non osa più di tanto. Fa il suo compitino, ci dipana davanti agli una storia torbida e misteriosa e stop. I legami fra le vittime sono fin troppo evidenti, così come il legame con il vecchio orfanotrofio (gli omicidi cominciano quando si sparge la notizia di imminenti scavi archeologici su un terreno adiacente alla struttura abbandonata). Perciò la trama si svolge suscitando interesse sì, ma senza eccessiva suspence. Anche la detective, per quanto simpatica, non si discosta molto dagli stereotipi del genere (rude dal cuore tenero, anzi tenerissimo, passato tragico, difficoltà nei rapporti coi superiori).
 
Il finale, come detto, è buono, e riscatta in parte il senso di "già visto" che aleggia tra le pagine.
 
Credo che, comunque, Urla nel silenzio meriti  una chance di lettura.
Voto:6 e 1/2
 
 
 

mercoledì 6 aprile 2016

Il metodo del coccodrillo...

...di Maurizio De Giovanni.
 
L'ispettore Giuseppe Lojacono è un bravo poliziotto siciliano. Un giorno un pentito dichiara, falsamente, che l'ispettore ha passato informazione ai clan mafiosi della zona. Riscontri non ce ne sono, Lojacono sembra innocente, ma su di lui pesa l'ombra del sospetto. La moglie lo lascia, la figlia non vuole più vederlo e viene trasferito a Napoli, che lui vive come una specie di prigione.
Nel commissariato dove presta servizio, i colleghi non gli rivolgono la parola, ed il suo superiore gli intima di restare fuori da ogni indagine. Finchè una notte in cui è l'unico di turno, rispondendo ad una chiamata, accorre sul luogo dell'omicidio di un ragazzo di sedici anni, e nota sul posto dei fazzoletti bagnati da quelle che si riveleranno lacrime. L'assassino, ribattezzato il Coccodrillo, non si fermerà al primo omicidio. Grazie all'intervento del pm Laura Piras, che sa guardare alle qualità di Lojacono e oltre il pregiudizio, l'ispettore comincia ad indagare su questo caso.
 
Lasciatemi dire una cosa: uao! Conoscevo la scrittura morbida e lenta di De Giovanni, e l'apprezzavo, ma qui l'autore ha, secondo me, superato se stesso. Il metodo del coccodrillo è un noir degno dei migliori autori americani; è duro, veloce, crudo, dolente. Non per niente ha vinto il Premio Scerbanenco 2012.
La trama è abbastanza lineare ed è facile intuire, più o meno a metà, dove si andrà a parare. Ma questo non toglie nulla al piacere della lettura perché l'intreccio è congegnato in modo che, anche una volta compreso il disegno dell'assassino, il lettore si troverà incollato alle pagine e a Lojacono seguendo la sua indagine e sperando riesca a fermare il serial killer.
I personaggi si portano dietro la loro umanità, senza scadere nella macchietta del poliziotto problematico, duro dal cuore tenero; sono molto umani e non sono super eroi. Sono "normali".
L'antagonista, il Coccodrillo, è una serial killer atipico. Non si tratta infatti del classico pazzo psicopatico con una infanzia tragica alla spalle; no, è umano e "normale" pure lui.
Io non apprezzo particolarmente quando gli autori di thriller cedono la parola all'assassino. Mi innervosisce, onestamente, perché di solito non mi interessa niente dei tormenti interni dell'assassino; io spero solo che lo prendano il prima possibile (sì, ho una visione un tantino manicheista quando si parla di thriller). Certo, devo riconoscere che qui le parole dell'assassino hanno il loro senso e il loro perché, ma ho continuato a trovarle una fastidiosa interruzione alla trama.
L'idea poi di narrare la storia adottando occasionalmente il punto di vista di altri personaggi secondari ha permesso all'autore di sviare, con un pizzico di furbizia, il lettore dalla totale comprensione delle vicende. Non svelerò il trucchetto di De Giovanni, dirò solo che è stato bravissimo a far travisare completamente al lettore la storia di uno dei personaggi minori (storia che però ha il suo peso nella trama principale); il bello è che, una volta scoperto l'inganno, il lettore dovrà ammettere che mai gli è stato detto che A era A; lo ha dedotto - sbagliando completamente - da solo. E' un dettaglio importante, perché odio quando gli autori ti prendono in giro ingannandoti raccontando bugie.
Il finale riserva un colpo di scena forte, inteso non come rivelazione sconvolgente, ma come evento traumatico e duro da digerire.
Quando leggendo un finale ti manca letteralmente il fiato, allora sai di essere davanti ad un buon libro.
 
Anche questo libro di De Giovanni è ambientato a Napoli. Lasciatemi spendere due parole sull'ambientazione.
Napoli è una città complessa e sicuramente unica. Solitamente, quando si parla di Napoli, prevale una certa immagine stereotipata (negativamente) oppure olografica, da cartolina. Bene che vada, se qualcuno vuol parlare positivamente della città o dei suoi abitanti, se ne esce con frasi come "voi napoletani siete... [inserire una aggettivo a caso tra simpatici, furbi, allegri, appassionati, focosi...]". Come se noi napoletani avessimo una testa sola, un'anima sola e girassimo col mandolino a tracolla, una fetta di pizza in tasca, fischiettando funicolì funicolà. 
No.
Lo stereotipo, anche quando è positivo, è riduttivo e mortificante.
E per questo mi ha colpito l'ambientazione di De Giovanni. Ha descritto Napoli con gli occhi di uno che la vive come l'ultimo dei luoghi in cui vorrebbe essere, che non si fa incantare dal paesaggio da cartolina, anche perché, per tutto il romanzo piove, fa freddo e tira vento. Il ribaltamento totale dei luoghi comuni. Maurizio De Giovanni rivendica un po' di normalità per una metropoli complicata, che vive situazioni problematiche tipiche delle grandi città ad ogni latitudine.

Sapevo che Maurizio De Giovanni era bravo, ma con questo libro mi ha stupito.
Voto 9

lunedì 4 aprile 2016

Chiamate la levatrice...

... di Jennifer Worth
 
Questa è la storia di una giovane levatrice nella Londra proletaria degli anni 50. Muovendosi tra i quartieri più poveri, Jennifer Worth racconta in prima persona la vita che ha scelto, il mestiere che ha scelto, che proprio in quegli anni muoveva i primi passi.
Tra difficoltà dovute a carenze della scienza medica, alla povertà e alla scarsità di mezzi, Jennifer Worth ci presenta una galleria di episodi e personaggi che fanno breccia nel cuore del lettore.
 
Chiamate la levatrice, primo libro di una trilogia, cui è seguito Tra le vite di Londra e a cui seguirà, pare a breve, Farewell to the East End (tutti editi da Sellerio), è un romanzo molto originale. E' la cronaca, quasi un diario, delle lunghe giornate di una levatrice professionista che opera tra i quartieri più popolari e popolosi di Londra, aiutando le donne a partorire, quando ancora il parto in casa era la norma, si partoriva senza dottore e il tasso di mortalità della mamma e del bambino era ancora altissimo.
La cosa che mi ha sorpresa e interessata di più è stata la descrizione della Londra degli anni 50 e dei suoi abitanti. Lontanissima dall'immagine della metropoli cosmopolita e trendy a cui siamo abituati, Londra sembrava in quell'epoca molto più simile a quella descritta da Charles Dickens che a quella odierna. Una città, dunque, tutta da scoprire.
Sovrappopolazione, estrema povertà, scarsità di igiene, alcolismo, prostituzione erano i problemi con cui quotidianamente una levatrice doveva confrontarsi, e la sua esperienza poteva fare la differenza tra la vita e la morte per la paziente.
Alcuni personaggi restano nel cuore del lettore: la giovane Mary per esempio, con la sua tragica storia; oppure l'anziana Mrs. Jenkins, che attraversa tutto il diario della levatrice, quasi come un filo conduttore, fino a che non viene raccontata la sua storia.
Le sue vicende sono quelle che mi sono rimaste più impresse. C'è lo stridente contrasto, in una società come quella inglese tesa verso la modernità e la modernizzazione, tra gli slanci verso il progresso, e situazioni come quelle degli ospizi per gli indigenti, che altro non erano che prigioni camuffate, dove venivano rinchiusi i poveri, che altra colpa non avevano se non quella di non riuscire a tirare avanti. Si trattava per lo più di donne vedove e con bambini piccoli a carico; il trattamento loro riservato era peggiore di quello riservato ai criminali. le famiglie venivano separate per non ricongiungersi mai più. Ancora adesso, mentre ne scrivo, sento una stratta allo stomaco.
Va dato atto all'autrice di essere riuscita a rendere in maniera così vivida le condizioni degli ultimi nella società inglese, dove, evidentemente, la povertà era considerata una colpa.
 
Se si può muovere una critica a questa autobiografia è unicamente quella che il racconto manca di organicità, saltando da un caso all'altro, da un argomento all'altro con molta facilità.
E' evidente che l'autrice ha scritto le sue memorie seguendo il filo dei suoi pensieri, e ciò ha conferito freschezza e leggerezza alla narrazione, che non risulta mai pesante; allo stesso tempo però manca un po' di coesione tra un capitolo e l'altro. Ciò comunque non guasta il piacere della lettura.
 
Consigliato a chi ama le storie vere e vuole saperne di più sulla Londra post bellica; una lettura scorrevole, mai banale e di sicuro interesse.
Voto: 7

sabato 2 aprile 2016

Adesso...

...di Chiara Gamberale.
 
Esiste un momento nella vita di ognuno di noi dopo il quale niente sarà più come prima: quel momento è adesso.
Arriva quando ci innamoriamo, come si innamorano Lidia e Pietro. Sempre in cerca di emozioni forti lei, introverso e prigioniero del passato lui: si incontrano. Rinunciando a ogni certezza, si fermano, anche se affidarsi alla vita ha già tradito entrambi, ma chissà, forse proprio per questo, finalmente, adesso… E allora Lidia che ne farà della sua ansia di fuga? E di Lorenzo, il suo “amoreterno”, a cui la lega ancora qualcosa di ostinato? Pietro come potrà accedere allo stupore, se non affronterà un trauma che, anno dopo anno, si è abituato a dimenticare?
 
Ho dovuto necessariamente copiare la trama (trama?) del libro dalla scheda sul sito della Feltrinelli perché altrimenti non avrei saputo come scrivere una sinossi. Perché una storia, in questo libro, non c'è. Ci sono dei personaggi, è vero. Lidia, che non riesce, dopo tre anni, a darsi pace per la sua separazione da quello che ritiene la sua anima gemella. Tanto gemella che dopo un mese che stavano insieme si è fatto beccare a letto con altra. Eh già. Se non è amore eterno questo.
C'è Lorenzo, l'ex di Lidia di cui sopra che... boh. Non fa niente per tutta la durata del romanzo. Niente a parte sputare perle di improbabile saggezza sui rapporti umani e mettere in scena degli imbarazzanti siparietti con Lidia - i due, in tribunale, si chiamano reciprocamente Lilo e Stitch. Sì, davanti al giudice. No, non hanno 5 anni a testa.
C'è Pietro, anche lui alle prese con una separazione e con l'affidamento della figlia, che ritiene di doversi concentrare su quello che resta della sua famiglia, e crede di non potersi concedere altro che avventure fugaci.
Poi ci sarebbe quella che il risvolto della copertina definisce  una giostra di personaggi tragicomici.
Ma quando mai? Ci sono dei personaggetti che compaiono per mezza paginetta e con le loro insensate avventure da ragazzini delle medie che si innamorano di quello/a carino/a dovrebbero svelarci delle grandi verità sull'amore.
E c'è poco altro.
C'è questa storiella scarna, senza nulla di speciale, senza colpi di scena, tra Lidia e Pietro. Si conoscono, vanno a letto insieme, lei lascia tutto per seguirlo a Milano, si mettono insieme e poi litigano quando Lidia - che c'ha l'ansia di fuga dalle relazioni ma rimane attaccata come una cozza al suo ex -  si chiede chi ha sofferto di più: lei col divorzio dei suoi, oppure Pietro con la morte di malattia della madre e il conseguente suicidio del padre? Mah, che domanda intelligente. Proprio.
 
Il vero difetto di questo libro, secondo me, è di prendersi troppo sul serio. Ogni frase è buttata là come se stesse per rivelarci la verità suprema sull'amore. Il tono è pedante e pesante, manca quella leggerezza che avrebbe potuto creare un'empatia tra personaggi e lettore. Invece i personaggi restano distanti, e ciò è dovuto anche alle scelte stilistiche dell'autrice, senza dubbio originali, ma non certo azzeccate, a parer mio. Capitoli di riflessioni sull'amore (tra l'altro di una banalità sconcertante) staccati dal contesto e che non si sa a chi attribuire tra i personaggi; il curriculum sentimentale dei due protagonisti piazzato a metà libro, avulso dalla narrazione, scritto per quale ragione e con quale scopo non si capisce bene (sì, sto parlando proprio della vita sentimentale, a partire dall'infanzia, di Lidia e Pietro, scritta sotto forma di curriculum vitae, dove i due vengono chiamati "il candidato" e "la candidata"); pagine con una sola parola stampata a caratteri cubitali (per la cronaca, la parola è PAURA), la ripetizione ossessiva, a inizio /fine capitolo, della medesima citazione tratta dal libro stesso (il che denota quanto l'autrice si prenda sul serio).
Discutibile la scelta di raccontare l’innamoramento dall’interno (cito sempre il risvolto della copertina) usando dei personaggi che dell'amore non hanno capito niente.
A un certo punto, riferendosi a Pietro, qualcuno dice che essendo un padre è normale che si annulli per la figlia. (No, il libro è troppo brutto perché lo riprenda in mano e cerchi la citazione per riportarla esattamente, Fidatevi, c'è scritto così).
Ecco le grandi verità sull'amore: annullarsi per l'altro - partner o figlio che sia. Perfetto, direi.
Oppure: dopo una separazione di senti vuoto, e soffri. Dai? Davvero? Questa devo segnarmela, eh.
 
Raramente mi è capitato di leggere qualcosa di così profondamente inutile e insulso. Se avessi passato il mio tempo a fissare un muro bianco anziché leggere questo libro, avrei svolto una attività sicuramente più costruttiva ed interessante. Mi consola solo il fatto di non aver speso 16 sudatissimi euro per questo libro. E' di proprietà della Biblioteca Comunale, e glielo riporterò con gioia.
Voto: 2 
 

venerdì 1 aprile 2016

La biblioteca dei libri proibiti...

...di John Harding
 
New England, 1891. È notte fonda ormai. Nell'antica dimora di Blithe House regnano il silenzio e l'oscurità. Per Florence, giovane orfana di dodici anni, è finalmente giunto il momento che ogni giorno aspetta con ansia. Attenta a non far rumore, sale le scale ed entra nella vecchia biblioteca. Nella grande stanza abitata dalla polvere e dall'abbandono ci sono gli unici amici che le tengano davvero compagnia, i libri. Libri proibiti per Florence. Non potrebbe nemmeno toccarli: da sempre le è vietato leggere. Così le ha imposto lo zio che l'ha allevata insieme al fratellino Giles. Un uomo misterioso, che l'ha condannata a vivere confinata in casa insieme alla servitù.
Ma Florence è furba e determinata e ha imparato a leggere da sola. Ha intuito che nei libri è racchiusa la strada per la libertà. Perché proprio in quella biblioteca, tra i vecchi volumi di Sir Walter Scott, Jane Austen, Charles Dickens, George Eliot e Shakespeare, si nasconde un segreto che affonda le radici in un passato legato a doppio filo alla morte dei suoi genitori.
Una terribile verità che, notte dopo notte, getta ombre sempre più inquietanti sulla vita di tutti. Strani episodi iniziano a sconvolgere la dimora. Prima la morte violenta e inspiegabile di una delle governanti, poi l'arrivo della nuova istitutrice del fratellino, una donna dura, che odia Florence con tutta sé stessa. Per la ragazza camminare per i corridoi della casa è sempre più pericoloso.
Deve essere astuta e stare attenta a tutto, al minimo scricchiolio del legno, a un soffio di vento, agli occhi che la fissano sinistri dai dipinti. La verità ora è una questione di vita o di morte. E per trovarla Florence avrà bisogno delle parole che si annidano nei libri e dell'anima oscura che si nasconde in lei. 
(La trama è tratta dalla scheda del libro sul sito della casa editrice Garzanti)
 
Avete letto la trama sopra riportata? L'avete letta bene bene?
Perfetto, ora dimenticatevela. Perché la suddetta trama non c'entra un piffero con il romanzo. Qualcuno, prima di scrivere la sinossi, avrà dato un'occhiata al libro, così, tanto per? Io non credo.
Non c'è alcun segreto legato a doppio filo alla morte dei genitori di Florence. Nella biblioteca non si nasconde nessunissimo segreto, anzi, la biblioteca, in realtà, ha un ruolo davvero marginale e puramente decorativo nella storia. La nuova istitutrice non odia affatto Florence (perlomeno, non subito, cioè, non arriva a Blithe House odiando Florence per qualche oscuro motivo). E i libri non serviranno a trovare alcunché. 
Il titolo originale dell'opera è Florence and Giles, decisamente più rispondente al contenuto del romanzo. Noi invece ci sorbiamo l'evocativo titolo La biblioteca dei libri proibiti che probabilmente sarà piaciuto a qualcuno (chi è che sceglie il titolo di un libro tradotto?) e ci aspettiamo, confortati dalla sinossi, di leggere cose che in realtà non leggeremo mai.
Tra tutte le nefandezze che una casa editrice può commettere, quella di prendere in giro il lettore è la peggiore. Indurmi a credere che la storia parli di A, e invece la storia non solo non parla di A, ma nemmeno di B, e neanche di C (forse se va bene qui stiamo parlando di M o N) è prendere i lettori per scemi.
 
Fin qui, le colpe dalla casa editrice. Adesso passiamo ad analizzare quelle dell'autore.
Ho apprezzato di questo romanzo le atmosfere gotiche e ottocentesche, seppure talvolta lo stile di John Harding si fa involuto e prolisso. Insopportabili, onestamente, i neologismi creati da Florence: appoltronato, attavolato, tragediare, buongiornare... e altri, molti altri.
Ho capito che la ragazzina ha imparato a leggere sui classici, ma appunto per quello dovrebbe parlare come Shakespeare, non come una bambina di cinque anni che inventa le parole. Parere mio, eh. I neologismi ripetuti in continuazione sono fastidiosi da morire. E pesanti.
Poi, la trama. John Harding ha costruito uno splendido scenario gotico fatto di ombre e di misteri, di oscuri segreti e paure che crescono quando cala la sera... e non ha saputo dotarlo di un contenuto adeguato.
 
ATTENZIONE: da  qui in poi la recensione conterrà pesanti spoiler sulla trama, impossibile analizzare questo libro senza rivelare parte della storia.
Ok, i finali dubbi e un poco oscuri mi vanno bene, ma qui si passa il segno. La trama è inconcludente. Gira a vuoto. Arrivati alla conclusione del romanzo non sapremo se abbiamo appena finito di leggere una storia soprannaturale o un thriller con una protagonista lucidamente folle. E non lo sapremo non perché l'intreccio è avvolto nel dubbio e nel mistero, ma perché i fatti puntano in entrambi le direzioni; se accettiamo la soluzione soprannaturale metà del romanzo non avrà senso, se accettiamo la soluzione "lucida follia", idem.
La morte della prima istitutrice rimane inspiegata. Inspiegata nel senso che, a causa di un salto temporale, il lettore non la vede nemmeno accadere. Viene nominata, con scarsi particolari, solo in seguito, mentre Florence e Giles attendono la nuova istitutrice.
Florence la vede compiere atti soprannaturali, come camminare sull'acqua o tenere d'occhio cose e persone attraverso gli specchi. Queste cose accadono davvero, o sono il segno della follia di Florence? Nella prima ipotesi, come può Florence liberarsi di quest'essere soprannaturale semplicemente dandogli una botta in testa e gettandolo in un pozzo? Nella seconda ipotesi, come si spiegano allora le false referenze della donna, i biglietti per un piroscafo in partenza per l'Europa, e le valigie pronte esclusivamente per lei e il piccolo Giles?
E perché l'istitutrice voleva rapire, appunto, il piccolo?
Anche l'aura di mistero della casa, dello zio che non vediamo mai e di cui non arriviamo nemmeno a conoscere il nome è priva di agganci con la trama, così come lo sono le foto della madre di Giles con la faccia tagliata via.
FINE DELLA PARTE SPOILEROSA
 
Ripeto: un conto è lasciare il lettore con qualche dubbio, un conto è gettare talmente tanta carne al fuoco da non sapere più dove andare a parare.
Peccato, perché con qualche accorgimento in più, il romanzo poteva essere un buon romanzo, forte di una bella e ben caratterizzata atmosfera gotica.
Voto: 4