lunedì 16 gennaio 2017

Il rumore della pioggia...

... di Gigi Paoli.



La scheda del libro sul sito della Giunti Editore

«Colonnello, i morti parlano.»
«Prego?» 
«Sì, i morti parlano. E a noi spiegano un sacco di cose.»
«Allora le spieghi anche a me, Argentesi.»
E il capitano gliele spiegò.

Carlo Alberto Marchi è un giornalista che si occupa di cronaca giudiziaria. Vive e lavora a Firenze con la figlia Donata, 10 anni ma già con un cervello da adolescente. Inciampa un po' per caso, un po' a causa della sua curiosità professionale nell'omicidio di un vecchio commesso, che lavorava in un negozio di antiquariato nello stesso palazzo dove ha sede l'Economato della Curia fiorentina. Inevitabilmente diverse piste si intrecciano e si sovrappongo in questo delitto: l'ombra della massoneria, rapporti inconfessabili, denaro, lussuria e anche una storia che torna dal passato a reclamare la sua conclusione. 
 
Il rumore della pioggia è un noir ambientato a Firenze sotto una pioggia incessante e fastidiosa. Il giornalista Carlo Marchi racconta parte delle indagine in prima persona, e intanto tenta di destreggiarsi fra il suo lavoro e il ruolo di padre single di una ragazzina di 10 anni, già adolescente nell'anima. Prima di passare all'esame della trama e del romanzo in sé, una cosa la devo assolutamente dire: non sono riuscita a provare simpatia per marchi. Anzi, i suoi tentativi di essere spiritosa e di giocare con ironia con il ruolo di padre single mi hanno irritato. Probabilmente un problema mio, ma tant'è.
In primo luogo ho faticato a seguire i problemi di una figlia che a 10 anni pensa e parla e si comporta come se ne avesse almeno 14. Figlia in costante crisi esistenziale, che però il protagonista liquida in maniera superficiale e irritante senza mai approfondire il disagio della bambina o il perché a dieci anni già parli e ragioni come un'adolescente annoiata. Marchi la liquida con frasi fatte e stereotipi irritanti.
Qui, per esempio, la figlia si lamenta del poco tempo che il padre le dedica, e lui la definisce "casalinga disperata".
Mentre mia figlia parlava, dando prova di avere già pronto un radioso futuro da casalinga disperata, ebbi l’incauto ardire di salutare un paio di avvocati che incrociai sulla strada.
E così scoprii che non contava l’età, ma il sesso: fa’ che una donna, anche se ha dieci anni, si accorga che non le dai attenzione mentre parla e soffrirai le pene dell’inferno.
 
Ancora:
«Non preoccuparti Carlo, tanto fra un po’ la vedrai uscire insieme alle sue amichette col piercing e in minigonna.»
Un’immagine che mi rese improvvisamente auspicabile l’applicazione istantanea in loco della legge islamica dell’Arabia Saudita.
La figlia sta crescendo e lui come liquida il problema? Agitando un burqa. Che ridere, eh.
 
Ma fino a che non la vidi entrare sana e salva nel grande portone della scuola, ebbi la conferma che una figlia femmina fosse la vendetta di Dio sull’uomo.
Qui l'autore tenta di caratterizzare il suo personaggio sottolineando la sua peculiarità in quanto padre di "figlia femmina"; ma onestamente questa sottolineatura ha avuto solo il potere di irritarmi (l'ho già detto che il personaggio mi irrita? No? va bene, ve lo dico ora), perché si tratta di una patina e niente di più.
Qualunque genitore è divorato dalle preoccupazioni quando i figli cominciano a manifestare i primi sintomi di indipendenza e autonomia... e il fatto che si tratti di una femmina niente toglie e niente aggiunge al grado di preoccupazione medio che un genitore solitamente raggiunge. Non è così che si da veramente vita a un personaggio, secondo me.
Il rapporto padre figlia non è niente più di questo, una patina, una caratterizzazione di superficie. Se l'essere padre single doveva dare una connotazione peculiare al personaggio, ebbene l'impresa non è riuscita. Se si toglie una tirata iniziale del giornalista su quanto, poverino, sia duro per lui essere un genitore single, la sua vita scorre tranquilla e la sua routine non viene assolutamente intaccata. Praticamente il padre si limita a preoccuparsi per questo o per quello in maniera superficiale, senza mai approfondire i problemi o intervenire. In tutto il romanzo mai una volta ha avuto una conversazione sulla scuola con la figlia, le ha controllato i compiti, o è corso ad una riunione scolastica (per fare un esempio sciocco).
 
Per (mia) fortuna il romanzo è raccontato da Marchi solo per metà. L'altra metà è narrata in terza persona e segue le indagini del colonnello dei Carabinieri Lion e del magistrato incaricato Mastrantonio. Qui il registro è completamente diverso e il romanzo diventa interessante. Le indagini sono ben descritte nella loro iniziale incertezza, nella molteplicità di piste che si aprono davanti agli investigatori e anche nelle difficoltà di scegliere una direzione invece che un'altra.
Ci sarebbe infatti una soluzione facile per chiudere il caso, quasi servita su un piatto d'argento da molteplici prove indiziare; e poi ci sarebbe un'altra soluzione che per quanto improbabile continua a ripresentarsi nelle deduzioni logiche del giudice Mastrantonio, il quale vorrebbe liquidarla ma non può. Alla fine sarà costretto a fare i conti con una verità assai scomoda.
A Marchi va dato il merito di aver riportato a galla, tramite un'investigazione giornalistica, una vecchia storia solo apparenza conclusa e solo all'apparenza non collegata al delitto.
L'emergere del passato con i suoi nodi ancora da sciogliere è il nocciolo del romanzo e la parte più bella (nonostante Marchi, sì) e rende la storia degna di essere letta.
 
Tutto sommato, un bel noir con una trama sfaccettata, logica e solida. Interessanti i personaggi appartenenti alla forze dell'ordine e alla magistratura. Meno riuscito il giornalista co-protagonista del romanzo.
Voto: 7

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