sabato 28 maggio 2016

La modista...

... di Andrea Vitali.



La scheda del libro

La trama (dal sito della Garzanti) : Nella notte hanno tentato un furto in Comune, ma la guardia Firmato Bicicli non ha visto nulla. Invece, quando al gruppetto dei curiosi accorsi davanti al municipio s'avvicina Anna Montani, il maresciallo Accadi la vede, eccome: un vestito di cotonina leggera e lì sotto pienezze e avvallamenti da far venire l'acquolina in bocca.
Da quel giorno Bicicli avrà un solo pensiero: acciuffare i ladri che l'hanno messo in ridicolo e che continuano a colpire indisturbati. Anche il maresciallo Accadi, da poco comandante della locale stazione dei carabinieri, da quel momento ha un'idea fissa. Ma intorno alla bella modista e al suo segreto ronzano altri mosconi: per primo Romeo Gargassa, che ha fatto i soldi con il mercato nero durante la guerra e ora continua i suoi loschi traffici; e anche il giovane Eugenio Pochezza, erede della benestante signora Eutrice nonché corrispondente locale della «Provincia».
Recensire un libro di Andrea Vitali, specie dopo averne letti molti, non è semplice.
Questo è il tipico romanzo di Andrea Vitali. Una moltitudine di personaggi, diverse storie di paese che continuano a intrecciarsi e sciogliersi, e la consueta, bonaria ironia, con cui l'autore descrive il tutto.
Si tratta di un romanzo divertente e godibilissimo, ma purtroppo, parte del divertimento viene portato via dalla sensazione di già visto, già sentito di cui non ci si riesce a liberare per tutta la durata del libro.
Siamo sempre a Bellano, sulle rive del lago di Como. Stavolta però la guerra è finita e il regime fascista ha lasciato il posto alla nascente democrazia.
Tutto ruota attorno al povero Bicicli, guardia comunale di ingegno non proprio pronto. A Bellano non accade mai nulla, ma, proprio nella sera in cui lui decide di ubriacarsi sul posto di lavoro, qualcuno decide invece di tentare un furto e fargli fare la figura del fesso.
Mentre il maresciallo Accadi si interessa di tutt'altro, l'appuntanto Marinara ha già capito tutto, ma la distrazione del suo superiore genererà molti equivoci e situazioni imbarazzanti.
La distrazione del maresciallo è causata dalla bella modista Anna Montani, che è segretamente alla ricerca di un buon partito con cui accasarsi.
Il personaggio delle modista suscita un po' tenerezza, un po' divertimento; tesse delle trame segrete e sottili, mettendo in campo le sue armi di seduzione, ma puntualmente ognuna di questa si rivela non essere poi così sottile, e le si ritorce contro. Insomma, la modista non è furba quanto crede.
Del resto, quasi nessuno dei personaggi di questa storia è furbo quanto crede, perciò ci troveremo coinvolti in molteplici equivoci, storie al limite del surreale, piccoli segreti e peccatucci di provincia che non rimarranno nascosti a lungo.
I singoli episodi sono anche divertenti, strappano qualche sorriso ma, anche conoscendo la tendenza a divagare di Vitali, qui si ha la sensazione che la storia giri un po' a vuoto, senza arrivare veramente da qualche parte.
Certo, è tipico dello scrittore scrivere di molteplici personaggi dai buffi nomi improbabili, e raccontarci le loro storie anche se non proprio pertinenti al filo conduttore del romanzo. Ma se penso a libri come Il meccanico Landru o La figlia del podestà, non posso che concludere che lì la tecnica funziona, qui soltanto in parte.
Anche la conclusione arriva un po' di fretta, spiazza il lettore più per la repentinità con cui l'autore mette fine alla storia, che per il suo contenuto.

Se siete fan di Vitali, adorerete comunque questo libro, anche se non è all'altezza di altre sue opere.
Se siete tiepidini nei suoi confronti, potete tranquillamente lasciarlo perdere, perchè non c'è nulla di nuovo sotto il sole di Bellano.
Voto: 6 e 1/2

venerdì 27 maggio 2016

Gli effetti speciali dell'amore...

...di Angela Iezzi.

 
 
 
Trama (dal sito Newton & Compton):
Ashley Morgan ha ventiquattro anni, una grande passione per i libri e una laurea in economia, che ha conseguito al solo scopo di compiacere il padre, proprietario di una famosa azienda dolciaria, di cui è certa di prendere il posto. E invece, del tutto inaspettatamente, il padre decide di affidare la guida della società a Jaime Standley, che lavora al suo fianco da molti anni e ne è diventato il braccio destro. Di fronte a quel gesto Ashley chiude i rapporti con lui. Passano gli anni, durante i quali padre e figlia perdono quasi ogni contatto, fino a quando il signor Morgan muore, lasciandole una cospicua eredità. Alla lettura del testamento un’altra sorpresa attende Ashley: a lei andranno il conto in banca, la casa di famiglia e una quota di minoranza della società, a Jaime la maggioranza delle azioni e il compito di gestire e amministrare la Morgan&Hall. Ma solo a una condizione: che per un anno i due beneficiari lavorino insieme e risiedano sotto lo stesso tetto. Ashley si sente ingannata e truffata: Jaime è un impostore e lei gliela farà pagare. Ma la convivenza forzata qualche volta può rivelarsi assolutamente imprevedibile…
 
Io non amo i romanzi d'amore, ma di solito questo non è un problema. Una bella storia è sempre una bella storia, ma con questo libro siamo partiti male.
Si comincia con Ashley che litiga col padre quando scopre che la direzione dell'azienda andrà al suo braccio destro e non a lei, fresca di laurea, senza alcuna esperienza e che praticamente non ha mai messo piede in azienda. Che strano, eh. Che colpo basso.
Certo, il padre avrebbe anche potuto comunicarglielo con più tatto, ma la reazione di Ashley di non parlargli fino alla morte mi è sembrata un tantinello radicale.
All'apertura del testamento, tre anni più tardi, Ashley dedica più pensieri al denaro, alla casa e al giardino da curare che al padre appena defunto.
Ora, magari l'autrice avrebbe voluto creare un personaggio odioso, cinico e schifosamente materialista; a me starebbe bene, ma la Iezzi non ha il coraggio (o forse la volontà) di portare la sua scelta riguardo la protagonista alle estreme conseguenze. Mi spiego: il romanzo è scritto in prima persona al tempo presente, perciò in teoria io lettore dovrei leggere i pensieri di Ashley appena concepiti, senza filtri. Allora, se la ragazza è interessata solo al denaro, benissimo; io dovrei leggere pensieri coerenti, del tipo... che so... finalmente posso mettere le mani sui soldi, oppure mio padre non capiva nulla, meno male che ora si è tolto di mezzo.
Invece mi tocca leggere più aggettivi affettuosi per la casa (amata, adorata) che per il padre; maggiore preoccupazione per il giardino che per il padre appena defunto, e ogni tanto, buttato lì un devo riprendermi dal colpo per la morte di mio padre. Come se l'autrice ogni tanto volesse rassicurarci: tranquilli lettori, sembra una stronza insensibile, ma non lo è. Soffre, soffre molto!
Ehm, no.
Quindi quello che non funziona è proprio il personaggio di Ashley, voce narrante, che dovrebbe essere pungente, forte impulsiva, ma risulta solo irritante, viziata e incoerente con se stessa.
 
Comincia la convivenza impossibile tra i due beneficiari del testamento. Ashley fa del suo meglio per rendersi odiosa; Jamie fa lo zerbino e si innamora di lei senza alcun spiegazione plausibile, semplicemente per decreto autoriale. Insomma, perché sì.
Del resto, probabilmente per par condicio, anche lei lo odia perché sì.
La spiegazione semi-scientifica di tanto furore che Ashley ci propina a fine romanzo ha un po' l'aspetto della classica "pezza a colore" per coprire la magagna.
 
Per tre quarti del romanzo non accade praticamente nulla di rilevante.
In un'ambientazione inconsistente, Ashley si limita a urlare, e fare su e giù tra casa e lavoro, tra personaggi secondari che anche se non ci fossero la trama non ne risentirebbe minimamente (vedi ad esempio Alex, l'amico di Ashley, e la mamma della ragazza, che compare per una telefonata di trenta secondi, inutile e banale, che forse serviva ad allungare il brodo).
Se Ashley  fosse una donna forte e impulsiva (dalle mie parti si direbbe "incazzosa"), dovrebbe essere capace di rimettere a posto lo chef che il suo capo ha ingaggiato per aprire un angolo bar nella libreria dove lavora. Ashley ha ricevuto l'incarico di stilare il menù insieme allo chef, e quando lui l'allontana in malo modo, ma lei non riesce a rispondergli per le rime, e ha bisogno di accettare, suo malgrado, i consigli di Jaime per non farsi mettere i piedi in testa.
 
La scrittura non riesce a tenere in piedi una trama sottile sottile, in cui non succede praticamente niente.
I dialoghi sono infantili senza riuscire ad essere brillanti o divertenti.
 
Io non volevo mandare a rotoli proprio niente! Sei tu che hai cominciato!», gli ricordo, perché, anche se fosse vera l’accusa che mi sta rivolgendo, di certo non sono stata io a iniziare con gli scherzetti da adolescenti.
   «Sei impossibile!», sentenzia frustrato.
   «Tu sei impossibile!».
 
E gnè gnè non ce lo vogliamo aggiungere? Ecco, questo è un esempio dei brillanti e ironici dialoghi di cui è pieno il libro.
Un capitolo a parte meriterebbe l'uso che la Iezzi fa del punto esclamativo. Ho fatto una rapida stima: due frasi su tre nel romanzo terminano col punto esclamativo, quando non con tre, e una volta addirittura con quattro.
Ora, l'uso di più di un punto esclamativo non è contemplato dalla grammatica italiana; e comunque dovrebbe essere vietato per legge ad ogni scrittore sopra i quindici anni.
Di ingenuità simili se ne riscontrano altre nel libro. Ad esempio, l'episodio in cui Ashley, totalmente estranea alla azienda del padre e non ricoprendo alcuna carica in seno ad essa, va a firmare dei non meglio specificati "documenti importantissimi" al posto di Jaime. 
Uno degli episodi che più mi ha lasciata sconcertata è stato quello in cui Ashley esce per un appuntamento con un uomo, e Jaime la segue, la  attende sveglio e le fa un cazziatone e un interrogatorio di terzo grado. (Vi ricordo che Ashley gli ha chiaramente detto più e più volte che lo detesta, e non vuole avere nulla a che fare con lui)
 
«Chi era quello?», mi chiede all’improvviso.
«Quello chi?»
   «Quello con cui sei uscita stasera? Il tizio castano!», insiste. Un momento… il tizio castano? Come fa Jaime a sapere che Martin è castano? Un sospetto si affaccia nella mia mente.
   «Mi hai seguito?!». La mia più che una domanda suona come un’affermazione esterrefatta. Non posso credere che mi abbia pedinato.
   Lui molla la padella nella lavastoviglie con fare stizzito e solleva il suo sguardo nero come la notte su di me. Fa quasi paura.
   «Certo che ti ho seguito!», sbotta furioso.
 
La reazione di Ashley? Eccola qui:
 
Non avrei mai creduto che Jaime potesse fare una pazzia simile per me e, anche se è l’ultima cosa che vorrei, mi sento stranamente lusingata. La sensazione di essere preziosa, che ho provato durante quel bacio e che ho tentato di dimenticare invano per l’intera serata, torna prepotente ed è così bello provarla che non riesco a pensare a nient’altro se non a godermela.
 
Al mio paese questo si chiama stalking, e, no, non è segno di vero amore. E' inquietante, tanto più che già Jamie aveva dato segnali non proprio rassicuranti spaventando un amico di Ashley che era venuto a prenderla per una rimpatriata, fino a costringerlo a scappare via.
Non capisco come possa passare, tra le pagine di un romanzo scritto da una trentenne, il messaggio che comportarsi da stalker sia una cosa lusinghiera. Io resto davvero basita.
(A proposito, una ventina di pagine dopo, Jamie decide che visto che Ashley è uscita con quel tizio castano deve uscire anche con lui, e al suo rifiuto risponde:
 
«Non hai diritto di voto! Vestiti, hai mezz’ora poi, pronta o no, ti porto fuori».
 
Semplicemente agghiacciante.)
 
Insomma, la convivenza impossibile si trascina per circa duecento pagine fino alle assolutamente imprevedibili conseguenze cui accennava la sinossi.
Assolutamente imprevedibili? E per chi? Non certo per il lettore. Sfido chiunque, dopo aver dato un'occhiata a copertina e titolo, a non intuire quali saranno queste mirabolanti e imprevedibili conseguenze.
 
Il libro è acerbo e ingenuo, sia nello stile che nella trama. I personaggi sviluppano sentimenti, odi e passioni, senza alcuna base logica, e mancano di coerenza. La trama è inconsistente.
Probabilmente avrebbe avuto bisogno di una ulteriore rielaborazione e riscrittura prima di diventare un romanzo.
Voto: 4 e 1/2.
 

giovedì 26 maggio 2016

L'amante giapponese...

...di Isabel Allende.

La scheda del libro

Irina, giovane immigrata moldava negli Stati Uniti, lavora in una casa di riposo. Qui conosce Alma Belasco, un'anziana signora che non sembra affatto il tipo da casa di risposo: energica, attiva e ricchissima. La donna prende a benvolerla, e piano piano Irina verrà a conoscenza della burrascosa vita di Alma e del suo rapporto con uomo giapponese, Ichimei Fukuda.
La vita di Alma, di origini ebraico-polacche e mandata dai genitori negli Stati Uniti durante l'infanzia per sfuggire alla persecuzione nazista, si intreccia con quella di Ichimei, figlio del giardiniere, in un rapporto che durerà decenni, e attraverserà la storia del paese.
 
Probabilmente, in un'altra vita, Isabel Allende era una sirena. Non trovo altra spiegazione a questo suo incredibile talento nel narrare in maniera così suadente le vicende dei suoi personaggi. E il lettore non è semplicemente interessato, è completamente preso, perso incantato.
Prendiamo l'incipit:

Irina Bazili iniziò a lavorare a Lark House, alla periferia di Berkley, nel 2010, a ventitré anni compiuti e con poche illusioni, perché passava da un impiego all'altro, cambiando di continuo città, da quando ne aveva quindici.

Con poche righe, già siamo dentro alla storia, al fianco di Irina, e già sappiamo, quasi senza accorgercene, un sacco di cose di lei. Che è giovane, che non ha avuto un'adolescenza serena, che qualcosa la costringe a spostarsi continuamente, come se fosse in fuga.
Proseguendo nella lettura, precipiteremo sempre di più dentro la storia.
Anzi, le storie. Ce ne sono, in questo romanzo, tre di storie che si intrecciano: quella di Alma, quella di Ichimei e quella di Irina.
Sono, ognuna a modo suo, tre storie di fuga, di violenza e di amore.
La Allende salta con disinvoltura dall'una all'altra, a volte raccontando spezzoni di vita vissuta senza un preciso ordine cronologico, ma la sua bravura è tale che mai il lettore si sente smarrito.

Così passiamo dall'infanzia di Alma negli anni trenta, piccola profuga solitaria in casa degli zii, separata da genitori e fratello, all'infanzia parallela di Ichimei, il figlio del giardiniere, compagno di giochi di Alma, che improvvisamente scompare, internato con gli altri americani di origine giapponese in un campo di concentramento (pagina infame della storia americana recente) dopo l'attacco a Pearl Harbour; dalla giovinezza sregolata della protagonista, alla faticosa esistenza di Ichmei e della sua famiglia per riprendersi dagli anni, terribili, della guerra; dal matrimonio di Alma con il cugino, a quello di Ichimei con una ragazza di origine giapponese come lui.
Le vite di Alma e Ichimei sembrano destinate a convergere, ma allo stesso tempo c'è sempre qualcosa che trama per tenerli lontani.
Questa relazione che dura da più di mezzo secolo attrae e incuriosisce Irina, che non ha molti punti fermi nella vita (diciamo pure nessuno); insieme a Seth, nipote di Alma, cerca di scoprire quanto più possibile sul passato di Alma, che rimane sempre molto misteriosa riguardo Ichimei. Qual è la verità sul loro rapporto? E cosa c'è dietro le misteriose fughe di Alma dalla casa di riposo? Chi lascia ogni giorno due gardenie davanti alla porta di Alma? Domande a cui Irina e Seth tentano di dare risposta.
Questa curiosità crescente avvicinerà Seth a Irina, che però sembra avere uno scheletro nell'armadio che la costringe ad allontanare chiunque le si affezioni.

L'amante giapponese è un romanzo che parla d'amore e ci mostra le diverse facce di questo sentimento con la delicatezza, la profondità e quel tocco di magia tipiche di Isabel Allende. Allo stesso tempo, l'autrice sa guardare in faccia alla realtà; bandisce la stucchevole e trita retorica de" l'amore vince ogni cosa". No, ci sono battaglie che l'amore non può vincere, ma non per questo muore, ma non per questo cessa di essere importante.

Abbiamo detto spesso che amarci è il nostro destino, ci siamo amati nelle vite precedenti e continueremo a incontrarci nelle vite future. O forse non c'è né passato né futuro e tutto accade simultaneamente nelle dimensioni infinite dell'universo. In questo cao, siamo insieme costantemente, per sempre.
E' meraviglioso essere vivi. Abbiamo ancora diciassette anni, Alma mia. 

Un conferma, caso mai ce ne fosse stato bisogno.
Voto: 8

martedì 24 maggio 2016

Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte...

...di Mark Haddon.

La scheda del libro

Christopher Boone ha 15 anni ed ha la sindrome di Asperger, una forma di autismo. Questo non influenza affatto la sua intelligenza, ma gli rende difficile capire le persone, persino le loro espressioni facciali, e capire il mondo. Christopher vive col padre, un uomo semplice e taciturno che lo ama profondamente, ma che non riesce a capirlo fino in fondo. La madre se n'è andata molto tempo prima, e questa ferita sembra segnare ancora il cuore di suo padre.
Un giorno Christopher trova il cane della sua vicina, Wellington, morto nel giardino. Qualcuno lo ha ucciso. Decide di percorrere le orme del suo eroe letterario preferito, Sherlock Holmes, e scoprire chi ha fatto questo, e perché, e scrivere un libro giallo sulla vicenda.
 
Vincitore di diversi premi letterari (qui ne trovate alcuni), Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte è un libro sorprendente. I capitoli non sono numeri in ordine crescente, ma ognuno reca un numero primo. Perché per Christopher i numeri primi sono importanti.
 
I numeri primi sono ciò che rimane una volta eliminati tutti gli schemi: penso che i numeri primi siano come la vita. Sono molto logici ma non si riesce mai a scoprirne le regole, anche se si passa tutto il tempo a pensarci su.
 
Inizialmente il romanzo si presenta come un giallo, un mistero da risolvere, ma in realtà non lo è. O meglio, il mistero da risolvere non è quello che ci aspetteremo di dover risolvere. Il vero enigma non è nemmeno Christopher, ma piuttosto il mondo che lo circonda, che per lui è un insieme di fatti, suoni, parole che non sempre hanno una logica, e che per questo lui non riesce ad afferrare, per quanto si sforzi.
La storia è strutturata come un'indagine gialla, e procede secondo canoni "classici" per circa tre quarti del libro. Poi la trama prende un'improvvisa svolta che metterà Christoopher di fronte a delle scoperte che lo riguardano molto da vicino, e a cui non è preparato.
Il protagonista, che ragiona in maniera così dissonante rispetto alla maggior parte dei lettori, intenerisce (a volte quasi commuove) e allo stesso tempo intriga.
 
La sua storia è scritta in prima persona, con uno stile semplice e lineare. 
E' straordinariamente sorprendente come Mark Haddon sia riuscito a calarsi nella mente di un ragazzino con la sindrome di Asperger, e come sia riuscito a rappresentarne con semplice lucidità i pensieri e i ragionamenti perfettamente logici, ma che non si adattano ad un modo che logico non è.
Per questo Christopher è così appassionato di matematica: la matematica è logica, e sai cosa ti riserva. Puoi capirla, se ci ragioni.
Perciò il ragazzo inventa le sue regole di logica da applicare alla vita, per mettere un po' d'ordine in quel caos per lui incomprensibile.
Per esempio, quando esce per andare a scuola con lo scuolabus, conta le auto che passano: se riesce a vederne tre o più rosse di fila, sarà una bella giornata, se invece ne vedrà 3 o più gialle, sarà una brutta giornata.
Questo sforzo disperato di capire, di non soccombere, di organizzarsi per resistere alla vita senza esserne travolti, fa di Christopher un eroe coraggioso. Un personaggio che non si dimentica facilmente. E il merito è ovviamente dello scrittore che ha saputo renderlo così vivo con naturalezza, senza pietismi, senza intenti didattici e senza giudizi.
Il libro, che non è lunghissimo, scorre via con facilità, ed ogni pagina è una nuova scoperta, sia per quel che riguarda lo strano caso su cui Christopher sta investigando, sia per quel che riguarda i suoi passi in avanti nella gestione degli eventi quotidiani, dei sentimenti e della vita.
A poco a poco quasi vi dimenticherete del mistero da risolvere, e tutto quello che vorrete sarà stare in compagnia di Christopher.
 
E so di potercela fare perché sono andato a Londra da solo e perché ho risolto il mistero di Chi ha ucciso Wellington? [...] e sono stato coraggioso e ho scritto un libro e questo significa che posso fare qualunque cosa.
Voto: 8 e 1/2

venerdì 20 maggio 2016

Anime di vetro. Falene per il commissario Ricciardi...

... di Maurizio De Giovanni.


Scheda del libro

Vatténn' 'a lloco.
Vatténne, pazzarella.
Va' palummella e torna,
e torna a st'aria
accussì fresca e bella.
'O bbì' ca i' pure
mm'abbaglio chianu chiano,
e che mm'abbrucio 'a mano
pe' te ne vulé caccià?*

(Palomma 'e notte, Di Giacomo, Buongiovanni - 1906)
     


Scommetto che cominciavate a preoccuparvi! Ben 96 ore senza pubblicare recensioni di libri di De Giovanni! Tranquilli, va tutto bene, solo che questo romanzo è l'ultimo in ordine cronologico e l'ultimo finora pubblicato delle avventure del commissario Ricciardi, e quindi il libro andava letto lentamente, e la recensione pensata con calma... in attesa che esca - prossimamente - Serenata senza nome. Notturno per il commissario Ricciardi (e io non vedo l'ora).
 
Allora, la trama:
 
Il commissario si trova ad indagare su un cold case, un caso di qualche mese prima; a chiederglielo è la bellissima ed algida contessa Bianca di Roccaspina, già incontrata nel racconto Febbre, appartenente all'antologia Giochi Criminali (la cui recensione è qui).
Oltre ad essere un caso non proprio attuale, questo sembra essere anche un caso chiuso. Il colpevole, il marito della contessa, uomo divorato dal demone del gioco, ha confessato l'omicidio di un noto avvocato, ma sua moglie è convinta che lui sia innocente, nonostante avesse modo e movente, e nonostante la sua confessione. Toccherà a Ricciardi, tra mille difficoltà, cercare di ripercorrere a ritroso le vicende che hanno portato all'assassinio dell'avvocato, per poter smentire la confessione di un uomo, il quale, tra l'altro, non vuole essere salvato.
 
Questa volta Ricciardi dovrà sbrigarsela senza l'ambiguo aiuto di quello che lui chiama il fatto: quando si reca sul luogo del delitto lo spirito del defunto è già sparito, e l'eco delle sue ultime parole si è già dissolto. Quindi l'indagine, che tra l'altro sarà un'indagine non ufficiale, presenta elementi di novità rispetto al passato.
Altro elemento di novità sono un apprendista musicista e il suo maestro, che in brevi capitoli alternati alla narrazione, fungono, inconsapevolmente da filo conduttore. Il maestro spiega al suo giovane allievo come è nata la famosa canzone napoletana Palomma 'e notte, del grande poeta napoletano Salvatore Di Giacomo. Se volete saperne di più sulla canzone, che ha una sua storia dietro, potete leggere qui .
In sintesi, la canzone parla di un uomo che cerca di allontanare una falena dalla fiamma che finirà per ucciderla. Allo stesso modo, a volte gli innamorati sono costretti ad allontanare chi amano per paura che si brucino... ma non sempre chi rischia di bruciarsi lo capisce, oppure accetta di essere allontanato.
Ecco, questa semplice verità è il filo conduttore di tutte le vicende del romanzo.
E' il filo conduttore dell'indagine, in cui appare subito evidente che il reo confesso si è avvicinato troppo alla fiamma, nonostante i segnali di pericolo; è il filo conduttore delle vicende del commissario, sempre diviso tra due donne diverse, e sempre deciso ad allontanarle da lui.
 
L'indagine si presenta come un classico, lungo e paziente lavoro di raccolta informazioni. Da questo punto di vista Anime di vetro è il più "moderno" dei romanzi del commissario Ricciardi.
La certosina raccolta di informazioni, i sopralluoghi, gli interrogatori fatti alle persone coinvolte blandendo e minacciando (questa indagine non ha il crisma dell'ufficialità, perciò Ricciardi e il fido Maione devono muoversi nell'ombra e arrangiarsi come meglio possono per vincere le reticenze) avvicinano il commissario alle tante figure di investigatore privato della letteratura di genere.
E questo Ricciardi che osa, che lascia il seminato seguendo un guizzo di passione, che non sa dir di no ai freddi ma bellissimi occhi della contessa, è un Ricciardi diverso, sempre chiuso in se stesso, ma diverso, e che mi piace moltissimo. Quando pensi di sapere tutto di lui, quando pensi di aver visto più o meno tutto, De Giovanni riesce a stupirti.
 
Una menzione speciale merita il personaggio di Bianca, che è la spinta propulsiva della trama, nonché il sigillo finale. Una donna interessante, che nella vita ha avuto sempre certezze. Amava il marito, ma da molto tempo non prova più nulla per lui; eppure deve capire cosa è davvero successo la notte dell'omicidio, prima di poter davvero archiviare l'intera faccenda.
Una donna sensibile e di cultura, ma fredda e distante, che con le sue certezze ha finito per allontanare un uomo che le voleva bene, ma che era troppo debole per essere alla sua altezza.
Alla fine ci viene spontaneo simpatizzare con lui, piuttosto che con Bianca, così altera e orgogliosa. Ma allo stesso tempo Bianca è un personaggio interessante, che il lettore inizialmente percepisce come positivo, come la vittima di una tragica situazione. Ma poi pian piano arriva a capire che dietro la sua perfezione ci sono molte crepe, e che la donna non aspetta altro che di potersi liberare di una corazza fatta di orgoglio e mantenimento degli status symbol per cominciare a vivere davvero.
 
Dato il dinamismo dell'indagine, il libro piacerà anche al lettore occasionale.
Il lettore affezionato a Ricciardi non potrà che amare ancora di più le vicende personali del commissario, che si intrecciano con la trama gialla. E proprio questo stesso intreccio porterà Enrica, l'amore platonico e idealizzato del commissario, sull'orlo di una scelta che potrebbe allontanarla per un futuro in terra straniera; Livia commette un'azione imperdonabile (non so se questo personaggio tornerà nei prossimi romanzi, ma voglio che sia messo a verbale che io non gliela perdonerò mai. Mai. ù_ù ).
 
Le anime sono di vetro, ci dice Ricciardi, sembrano dure ma sono fragili. Ma essendo di vetro, lasciano passare la luce che le illumina, scomponendola in colori diversi, che illuminano il mondo.
Voto: 8
 

*Traduzione dal napoletano:
Vattene da lì.
Vattene, pazza.
Vai farfallina e torna,
e torna a quest'aria
così fresca e bella.
Lo vedi che anche io
mi abbaglio piano piano
e che mi brucio la mano
per volerti mandar via?

giovedì 19 maggio 2016

L'ombra del silenzio...

...di Kate Morton.



Suffolk, estate 1961. Laurel ha sedici anni, e mentre cerca un po' di solitudine dalla numerosa e chiassosa famiglia nascondendosi nella casetta sull'albero, assiste a una scena che la segnerà per sempre. Laurel assiste ad un crimine che tocca da vicino la sua famiglia, e proprio per questo manterrà il segreto per anni.
Cinquanta anni dopo, quando si trova al capezzale della madre morente, inizierà a scavare nel passato della sua famiglia per cercare finalmente di capire a cosa ha davvero assistito nell'estate di tanti anni prima.

Il libro è diviso in tre parti, dedicate rispettivamente a Laurel, sua madre Dorothy, e Vivien, amica di gioventù di Dorothy. La storia raccontata comunque è unica, anche si svolge su diversi piani temporali, ovvero il presente (2011) e gli anni della seconda guerra mondiale.
All'epoca Dorothy viveva a Londra, una città martoriata dai continui bombardamenti.
L'inizio è lento, ma la storia si dipana in maniera fluida; probabilmente il salto fra i diversi piani temporali rallenta il fluire della trama ma al tempo stesso costituisce la forza del romanzo. Infatti il lettore segue Laurel nei suoi sforzi per ricostruire un passato misterioso e sfuggente, ma ha anche un punto di vista privilegiato sugli avvenimento degli anni '40, visto che l'autrice ci racconta cose che Laurel non sa ancora o che magari potrà soltanto intuire.

Tutto ruota intorno al crimine che la ragazza ha visto commettere tanti anni prima. Un omicidio senza senso, senza ragioni che lo spieghino, sia per il modo in cui è avvenuto, sia per la personalità del colpevole. Per capire cosa sia davvero successo, Laurel dovrà scavare con grande difficoltà nel passato della sua famiglia. Molti testimoni delle vicende di quegli anni sono morti, molti documenti sono andati distrutti nei bombardamenti, ma, complice una vecchia foto e la dedica su un libro, la donna trova una traccia da seguire.
Più di addentra nel passato, più Laurel si trova davanti ad incongruenze che non riesce a spiegarsi. C'è qualcosa, nel passato di sua madre, che è stato accuratamente nascosto. Ma cosa? E perché?

La Morton ci svela il suo racconto con pazienza, un pezzettino alla volta, facendo in modo che ogni dettaglio si incastri col precedente, e ci spinga verso quello successivo. L'autrice rifugge dal colpo di scena a tutti i costi e anche da tutti quegli espedienti letterari, a volte molto abusati, che permettono di tenere alta la suspence a tutti i costi, come ad esempio, quello di non mostrare al lettore quello che il personaggio ha appena letto/visto/sentito (l'espediente che odio di più in assoluto).
L'autrice non ne ha bisogno, perché ha dalla sua la forza di una trama intrigante ma scevra di complicazioni inverosimili.
Il lettore è sempre un passo avanti ai protagonisti, ma allo stesso tempo la vicenda è narrata con tanta maestri che anche sapendo dove, alla fine, si andrà a parare, la curiosità è sempre stimolata e non si affievolisce mai.
Soltanto alla fine sapremo perché, nell'estete del 1961, è accaduto quello che è accaduto. La risposta passerà attraverso una rivelazione abbastanza sconvolgente, e che getterà una luce nuova su tutto quello che avevamo scoperto fino a quel momento.
 
Decisamente un romanzo che merita di essere letto, con la sua trama solida, i personaggi approfonditi, l'ambientazione ben ricostruita.
A tale proposito, un plauso lo merita sicuramente l'affresco della Londra degli anni 40. Alla fine del libro la Morton cita tutti i saggi e i documenti consultati per ambientare il suo romanzo in quell'epoca, e sono tantissimi. Una tale cura per i dettagli storici è sicuramente un valore aggiunto.
L'unico neo, se proprio vogliamo trovare un difetto a questo romanzo, è l'inizio un po' lento, come accennavo sopra. Ma vale la pena di avere pazienza e superare le 100 pagine per ritrovarsi davanti ad una storia che non si dimentica.
Il libro ha vinto numerosi premi letterari:
Voto: 8-  
 

lunedì 16 maggio 2016

Il resto della settimana...

...di Maurizio De Giovanni.
 
Premessa: lo so, ultimamente sono un po' monotematica, ma libro dopo libro la scrittura di De Giovanni mi ha preso sempre di più.
Inoltre, bisogna festeggiare il ritorno del Napoli in Champions League e l'ingresso di Higuain nella storia del campionato di serie A... Quale migliore occasione per recensire un romanzo calcistico?
 
 
 
Ok, ora che mi sono sfogata, e che ho fatto scappare tutti i tifosi delle squadre avversarie, a cui comunque vanno i miei complimenti (specialmente alla Roma che ci ha fatto stare in ansia, parecchio in ansia!), possiamo passare a parlare di libri.
 
 
 
 
In un piccolo bar non lontano dal centro di Napoli, si incontrano diversi personaggi, ognuno con la sua filosofia di vita. Quando un cliente fisso, detto semplicemente O' Professore, decide di scrivere un saggio sull'influenza del tifo calcistico sulla vita delle persone, Peppe, il proprietario del bar, decide di dargli una mano presentandogli le persone giuste da intervistare, facendogli scoprire storie e persone, e anche sentimenti che O' Professore credeva di aver dimenticato.
 
Questo romanzo è in realtà una raccolta di racconti a tema calcistico, tenuti insieme dal filo conduttore del Professore che parla con chi queste storie le ha vissute. L'ambientazione è, ovviamente, come è tipico delle opere di De Giovanni, la città di Napoli, ma non c'è bisogno di essere tifosi del Napoli per apprezzare le storie narrate (vabbè, aiuta, ma non è indispensabile).
Nove racconti che guardano il tifo da punti di vista diversi, ma che hanno in comune la risposta alla domanda: che cosa fa un tifoso, uno di quelli davvero malati, per tutto il resto della settimana?
 
[...] quello da intercettare era proprio il tifoso non professionista. Quello che coltivava la propria passione nonostante. Nonostante la propria cultura. Nonostante la propria professione. Nonostante il proprio contesto sociale. Nonostante il rispetto delle apparenze. Gli interessava, insomma, il dottor Jekyll che nascondeva, acquattato nell’ombra della sua inconsapevolezza, un Hyde affamato di manifestazioni istintive. La domanda era: che cosa faceva quell’individuo inquadrato dalle telecamere dopo un gol, la bocca contorta in un urlo spaventosamente liberatorio, le mani adunche a mo’ di artiglio, il filo di bava sul mento, i capelli diritti in testa e gli occhi iniettati di sangue, nel resto della settimana? Chi era? Di cosa discuteva? Quanto di quella passione tratteneva in petto, e quali ricordi, ossessioni, rimpianti, gioie e rimorsi generava?

Il tifo calcistico di cui parla De Giovanni è quello pulito e passionale. Il tifo come dovrebbe essere. Quello fatto di amore e allegria, non di odio e guerriglia. Quello che ama un calcio sano, senza imbrogli e sospetti, senza schede telefoniche svizzere, senza agenti in tenuta antisommossa per una partita, senza accoltellamenti, senza individui di dubbia moralità seduti a cavallo dell'inferriata allo stadio. Un calcio così non esiste, almeno non completamente, ma esiste il tifo pulito e ingenuo.
Quello che questi racconti vogliono far conoscere.

I miei preferiti sono:

La presa di Torino, ovvero il tragicomico racconto di un viaggio, effettuato nel novembre del 1986, da quattro amici da Napoli a Torino per assistere alla partita Juventus - Napoli. Viaggio compiuto a bordo di una Fiat Regata presa in prestito e con il solo svago di una audiocassetta dei grandi successi dei Cugini di campagna.
Poco male, avevamo di che parlare. Dovevamo determinare la formazione e precostituire gli eventi. L’equivalente di una missione diplomatica mediorientale [...]
Schiere di pellegrini azzurri sciamavano sulla città dalla cupola a punta, improvvidamente vestiti come Totò e Peppino: Torino a novembre uguale freddo e pioggia, quindi cappottoni, cappelli, guanti e ombrelli. Le sciarpe a parte, naturalmente. Ma quelle fanno parte dell’uniforme, generale Wellington. E invece, il giorno della Storia c’era un pallido sole e faceva tutt’altro che freddo [...]

Mi piace questo modo di De Giovanni di non prendersi sul serio, e di prendere in giro anche le caratteristiche del tifoso medio. Insomma, la fede calcistica è una cosa importante, ma non una cosa seria.

Luiz torna a casa, il delicato racconto di un figlio che è scappato lontano dalla sua città e della sua famiglia, e ritorna malvolentieri per vedere un'ultima volta il padre morente. Grazie ad una partita di calcio, ritroverà la complicità perduta con la famiglia.
Detta così, potrebbe sembrare un racconto melenso e stucchevole. Ma vi assicuro che non lo è. I sentimenti dei personaggi sono ben approfonditi, per quanto è possibile nel breve spazio di poche pagine, e l'affettuosa ironia con cui De Giovanni li descrive e ci racconta le loro azioni evita che si cada nello sdolcinato. Anche il modo in cui verrà ritrovato il legame familiare non è banale.

Il miracolo di Margherita, il mio preferito in assoluto, forse perché di tutti è il racconto "più racconto", quello più narrato, una storia che non è esclusivamente cornice o pretesto per raccontare un evento calcistico. Bello il finale, con quel tocco di follia e di magia, e accattivante la scelta stilistica di narrare la trama dal punto di vista di due personaggi differenti e che non si incontreranno mai nella storia.

Una menzione speciale a Il colpo di fortuna, che col calcio c'entra solo di striscio, ma che è un racconto originale e divertente, come già si intuisce dall'incipit:

Io un colpo di fortuna solo ho avuto, nella vita. Le corna.
Cacchio, penserete voi: e se le corna sono un colpo di fortuna, figurati la sfiga! Lo so che sembra strano: ma io dico davvero, e se avete un poco di pazienza vi racconto tutto dal principio, e vedrete che concorderete con la mia analisi.

Insomma, alla fine del libro ci troviamo con un ritratto del tifo calcistico comico, ironico, ma a tratti anche triste e malinconico.
Si può leggere come una semplice antologia a tema calcistico, oppure lo si può leggere per cercare di capire alcune cose sul perché la passione per "il pallone" sia così travolgente.
Leggendo con la mente aperta si capirà [...] che proprio quando il destino e la storia si accaniscono contro un popolo, dotandolo di tutte le piaghe che la civiltà occidentale sa infliggere, un po’ di gioia e di effimera felicità diventano necessarie alla sopravvivenza. Che non è giusto per nessuno vivere costantemente immerso in un disagio che non si ha la forza o il modo di risolvere. Che c’è un bisogno fisico di urlare, cantare e ballare senza freni, almeno una volta ogni trent’anni. Che questo ballare, cantare e urlare è il sapore della gioventù, e che questa gioventù non si nega a nessuno.

Voto: 7 e 1/2

giovedì 12 maggio 2016

Giochi criminali...

...AA.VV.


Scheda del libro


Quattro lunghi racconti gialli di Giancarlo De Cataldo, Maurizio de Giovanni, Diego De Silva e Carlo Lucarelli, il cui filo conduttore è "il gioco".
 
Solitamente nelle raccolte di racconti si trovano storie che meritano da sole il prezzo del libro, e storie di cui avremmo fatto sinceramente a meno. In questa antologia, invece, il livello è molto alto, e ciascuno dei racconti presenti merita di essere letto.
Gli autori hanno saputo "azzeccare" (passatemi il termine) la lunghezza dei racconti; non sono così brevi da scivolare via senza lasciare traccia, né troppo lunghi da farti dire "vabbè, allora a questo punto leggevo un romanzo".
Non sono una grande appassionata di racconti gialli (il giallo mi piace, i racconti pure, ma l'accoppiata non mi entusiasma - i racconti horror, quelli sì che li adoro, ma sto divagando), perché spesso non c'è abbastanza "spazio" per costruire un'indagine approfondita, perché il mistero sia ben congegnato e la soluzione non risulti un'illuminazione tirato fuori dal cilindro dell'investigatore. In questa raccolta, invece, come accennavo prima, l'equilibrio è perfetto, ed ogni racconto ha una struttura solida e una storia intrigante.
 
Medusa, di Giancarlo di Cataldo.
 
Un'anziana professoressa indaga sulla morte del suo migliore amico, un barone sull'orlo della rovina a causa del vizio del gioco. Gli inquirenti vogliono etichettare la morte come omicidio a sfondo passionale, ma l'anziana donna dal carattere di ferro e lo sguardo che uccide (da qui il nomignolo di medusa) non è d'accordo.
 
Il personaggio della professoressa Blasi, creato appositamente per questa antologia, è una stronza (scusate la volgarità, ma è così) consapevole e soddisfatta di esserlo. La classica professoressa che sa farsi odiare profondamente dai suoi studenti, insomma. La cosa che mi è piaciuta di più, è che il personaggio è così, e l'autore non la trasforma nella classica bastarda fuori ma dal cuore d'oro, dura ma in fondo tenera. No, assolutamente. In poche pagine l'ha tratteggiata in maniera così completa e originale che mi ha davvero divertito, oltre che interessato.
L'indagine coinvolge una serie di personaggi secondari anch'essi ben tratteggiati con precisione e ironia. Un caso all'apparenza semplice, ma complicato da molti elementi: due biglietti aerei per la Spagna, un mazzo di carte truccato, una proprietà immobiliare che fa gola, l'ombra della malavita organizzata.
Divertente e ben costruito, voto: 7
 
Febbre, di Maurizio De Giovanni.
 
E' morto, ucciso nel suo appartamento, un assistito, ovvero un uomo che parlava con le anime del purgatorio e interpretava sogni e dava i numeri da giocare al lotto. L'uomo, cieco della nascita, era benvoluto da tutti: nonostante la sua povertà non voleva denaro in cambio delle sue "prestazioni". Tocca al Commissario Ricciardi scoprire chi lo voleva morto.
 
Per la prima volta, una storia con protagonista il commissario dagli occhi verdi e l'abilità di vedere le anime dei morti viene narrata in prima persona, in una sorta di dialogo alternato tra il commissario e l'assassino (che, ovviamente, parla senza rivelarci la sua identità).
Lo spirito della vittima sussurra al commissario tre numeri: 21, 9 e 19.
L'interpretazione di questi numeri fornirà a Ricciardi la chiave per scoprire l'identità dell'assassino.
In questo racconto facciamo la conoscenza di Bianca di Roccaspina, contessa in rovina a causa di un marito completamente posseduto da demone del gioco d'azzardo. Bianca tornerà in Anime di vetro con una parte ben più ampia nella storia.
Una storia gustosa, che per la prima volta ci svela i pensieri del commissario senza filtri; che parla non solo di un delitto, ma anche di sogni, speranze e illusioni. Soprattutto di illusione e speranze infrante.
Voto: 7 e 1/2
 
Patrocinio gratuito, di Diego De Silva
 
Una controindicazione tipica del mio, diciamo, lavoro, è che gli amici (ma soprattutto gli amici degli amici) si sentono autorizzati a pensare che a un avvocato non proprio di grido si possa liberamente sbolognare qualsiasi tipo di rogna che abbia una vaga attinenza con l’ambito giuridico. Un po’ come se uno andasse dal medico di base a raccontargli che non sente piú la fidanzata vicina come un tempo.
 Secondo questa fascia di utenti rigorosamente non pagante, l’avvocato non impegnatissimo sarebbe un professionista di consolidata versatilità, capace di spaziare (con disinvoltura, massima disponibilità e scarso scopo di lucro) dalla consulenza coniugale squisitamente psicologica al recupero crediti non superiori ai mille euro; [...]
Per tutte le altre questioni un po’ meno sfaccettate (che so, una bancarotta fraudolenta, un 416bis o un omicidio plurimo aggravato) si va dagli avvocati meno versatili, ovvio.
 
L'avvocato Vincenzo Malinconico è alla prese con caso anomalo di stalking telefonico. Sfruttando la sua "versatilità" riuscirà a scoprire lo stalker e aiutare la vittima.
Ho letto due romanzi di De Silva, Non avevo capito niente e Terapia di coppia per amanti (la recensione di quest'ultimo si trova qui) , e non li ho amati molto. Per carità, De Silva scrive benissimo, ma ha la tendenza a chiacchierare molto e narrare poco, secondo me.
In questo racconto lungo, secondo me, trova finalmente l'equilibrio giusto tra la sua vena ironica e dissacrante e le esigenze della trama.
De Silva è spassoso quando prende in giro l'ambiente dell'avvocatura e dei tribunali italiani; ho passato dieci anni in uno studio legale e forse per questo trovo tutto ancora più divertente.
Qui l'avvocato Malinconico si trova alle prese con una cliente, rigorosamente fuori di testa e rigorosamente non pagante, che potrebbe avere un problema serio.
Malinconico lo risolverà da par suo.
Un bel racconto divertente, forse il mio preferito di questa raccolta, i cui unici difetti sono la tenuità col tema dell'antologia e l'essere il racconto "meno giallo" tra i quattro.
Voto: 8
 
A girl like you, di Carlo Lucarelli
 
L'ispettrice Grazia Negro, incinta di due gemelli, aspetta solo che arrivino le cinque per poter iniziare il suo periodo di maternità e potersi dedicare ad una gravidanza difficile. Ma le parole di un aspirante pentito della malavita accendono i dubbi sul suicidio di un giovane boss, che a sua volta appare collegato al suicidio di un assessore e alla scomparsa di una ragazzo. Scavando nel mondo delle slot machine, un affare che fa gola alla criminalità, l'ispettrice scoprirà il nesso tra quelle morti e porterà a galla la verità.
 
Indubbiamente un racconto scritto bene, con una indagine ben costruita, dove ogni scoperta apre nuovi scenari e crea altre domande.
Eppure è il racconto che mi è piaciuto meno, quello che ho trovato meno coinvolgente. Probabilmente la causa è che non ho empatizzato molto con la protagonista, che mi è sembrata fredda e distante; l'indagine sembra più una fuga dalla sua realtà che un vero impegno.
In ogni caso, la trama è solida e apprezzabile, perciò il voto è 7.

mercoledì 11 maggio 2016

La saga di Agnes Browne. Parte IV: Agnes Browne, ragazza...

...di Brendan O'Carroll.


La scheda del libro sul sito della casa editrice Neri Pozza.

[...] questi sono i suoni del Jarro, una zona popolare a nord di Dublino piena zeppa di operai e disoccupati con le loro famiglie numerose. Gli edifici a quattro piani di mattoni rossi, un tempo regali e grandiosi, sono ormai vecchi e fatiscenti, umidi e tetri. Le strade sono sporche e buie, avvolte in un sudario di fumo per via delle migliaia di fuochi di torba o carbonella accesi nelle case. Eppure, il Jarro è ben più di un’accozzaglia di strade e case. Perché in mezzo al fumo ci sono canzoni e musica. In questi edifici c’è una comunità vera. Una comunità che condivide quasi tutto. Ogni giorno, in queste strade, ci sono ragazzi che sognano di diventare milionari e ragazze che sognano di sposare principi azzurri (non del Jarro). Fra i vicoli stretti, umidi e fumosi del Jarro abitano i sogni di cinquemila persone. E le risate. Alla minima provocazione, si ride. E la magia. Non sarà roba da polvere di stelle, da testa fra le nuvole, da fate in fondo al giardino, ma credetemi, nel Jarro ce n’è eccome, di magia.
 
Abbiamo conosciuto Agnes Browne che tenta di crescere da sola i suoi figli, l'abbiamo vista diventare nonna e abbiamo visto i suoi figli farsi strada nel mondo. Ma com'era la vita di Agnes prima di tutto questo? Com'erano i suoi genitori? Com'è nata la sua storica amicizia con Marion? Com'è arrivata a sposare un buono a nulla come Rosso Browne? In questo libro troveremo tutte le risposte.
 
Premessa sull'ordine di lettura:
Sono stata a lungo indecisa se cominciare la saga seguendo l'ordine cronologico interno della storia (e quindi leggere Agnes Browne ragazza, poi Agnes Browne mamma, I marmocchi di Agnes Browne, e infine Agnes Browne, nonna) oppure l'ordine di pubblicazione (che prevede si cominci da Mamma, proseguendo con I marmocchi, Nonna e infine Ragazza) e alla fine ho optato per l'ordine di pubblicazione. A dire il vero, credo che i criteri siano validi entrambi, ma se volete il mio consiglio, seguire l'ordine di pubblicazione credo sia l'opzione migliore, perché Agnes Browne, ragazza può essere apprezzato a pieno solo conoscendo a fondo Agnes e la sua famiglia.
 
Brendan O'Carroll comincia a narrarci la storia di Agnes prendendola molto alla larga, da quando suo padre, Bosco Reddin, era solo un ragazzo. Siamo nei primi anni del 1900. Erano anni turbolenti in Irlanda, ancora sotto il dominio inglese. Le lotte per l'indipendenza si sposavano con quelle per la rivendicazione di diritti e migliori condizioni di vita per gli operai. La repressione della polizia era decisa, a volte brutale. Dove non arrivavano le forze dell'ordine, arrivavano i delinquenti assoldati dagli imprenditori per stroncare scioperi e proteste.
E' in questo contesto, dipinto con poche ma efficaci pennellate, che la madre di Agnes, Connie, figlia di un industriale, conosce Bosco, operaio e sindacalista.
Come è nello stile di O'Carroll, la loro relazione sarà ovviamente anti-convenzionale, e la proposta di matrimonio...beh, sarà quanto di meno tradizionale ci si può aspettare.

Quello che mi ha colpito è la descrizione di un ambiente povero sì, ma culturalmente vivace. Non intendo "culturalmente" dal punto di vista, per così dire, intellettuale, ma dal punto di vista civile, civico e sociale.
Ad esempio, la parità tra i sessi era al di là da venire, naturalmente, ma le donne - la maggior parte-lavoravano e uscivano di casa per occuparsi delle più svariate incombenze. Certo, erano spinte dal bisogno, ma la storia ci insegna che l'emancipazione femminile è passata anche attraverso la conquista del lavoro in fabbrica (o altrove) delle donne.
In questo ambiente così vivo e vitale nasce e cresce Agnes; costretta ad occuparsi della famiglia ancora molto giovane, la ragazza fa del suo meglio, e l'autore ce ne da un ritratto tenero, ma intenso. Dove non arriva con il duro lavoro e il sacrificio, Agnes arriva con un pizzico di creatività, e finalmente si svela in tutto il suo "essere speciale"; se durante la lettura di Agnes Browne, mamma, mi chiedevo perché mai avrei dovuto amare questo personaggio, finalmente qui ho la mia risposta: Agnes è forte, ma senza essere dura; sogna, ma sa sacrificarsi senza rimpianti. E ama, in maniera ingenua, ma senza riserve. E crede in se stessa.
Ecco, l'autore descrive un personaggio letterario da amare.
Finalmente ho capito come e perché sia finita con uno come Rosso Browne - credo che Rosso batta un record: il personaggio letterario che riesce a farsi odiare senza mai apparire direttamente sulla scena (nei libri precedenti).
Questo capitolo finale della saga familiare dei Browne riesce a dare organicità a tutta la storia nella sua interezza.
E si tratta come sempre di un libro leggero, ma non superficiale, divertente  ma venato di tristezza.
E di magia.

No, non è roba da polvere di stelle, da testa fra le nuvole, da fate in fondo al giardino. Ma per Dio, sì! Nel Jarro ce n’è eccome, di magia.

Voto:8
 

martedì 10 maggio 2016

La saga di Agnes Browne. Parte III: Agnes Browne, nonna...

...di Brendan O'Carrol.


La scheda del libro sul sito della casa editrice Neri Pozza.

Agnes Browne può dirsi una donna fortunata. Rimasta vedova con sette figli piccoli, è riuscita a tirarli su, ed ora sono (quasi) tutti sistemati. Ha una grande dolore dovuto alla scomparsa di Frankie, uno dei suoi figli, ma è circondata dall'affetto di un nuovo compagno, dei figli ed ora anche di un nipotino.
Ma i "marmocchi" di Agnes, anche se oramai sono adulti, devono fare ancora tanta strada, scontrarsi con le difficoltà della vita e le sue tragedie. C'è ancora strada da fare, prima che Agnes possa smettere di preoccuparsi per loro, e riposare.

In questo nuovo romanzo sulla famiglia Browne (che avrà tanti difetti, ma è sicuramente composta da persone simpatiche e irresistibili) troviamo Agnes un po' più matura, ma non troppo, altrimenti non sarebbe più la Agnes Browne che conosciamo. Basta pensare al siparietto con le infermiere mentre la nuora sta per partorire il primo nipotino, oppure al panico scatenato dalla scelta del nome per il bimbo (e vabbè, lì Agnes mi è sembrata come al solito un po' troppo fuori dal mondo, ma oramai abbiamo capito che questa la sua "cifra stilistica").
Se i caratteri che hanno reso famosa la saga ci sono tutti (ironia e comicità, ma anche delicatezza e poesia), in questo romanzo continua la maturazione dello scrittore, che riesce a raccontare Agnes e la sua famiglia senza fare ricorso (o quasi) alla comicità macchiettistica, ma senza per questo perdere, a parer mio, nulla della carica e della forza tipiche della saga.

I riflettori sono puntati, oltre che su Agnes, in particolar modo su Dermont e Trevor.
Mentre Dermont era sempre stato uno dei più brillanti tra i figli di Agnes, Trevor passava per quello più lento, meno "sveglio".
Trevor cerca l'amore, e se lo fa sgusciare tra le dita quando basterebbe allungare una mano per coglierlo; Dermont invece, le mani le allunga anche troppo, pronto a cogliere tutto ciò che gli spetta, e anche quello che non gli spetta.
Trevor troverà in ogni caso la sua strada con le sue sole forze, e riuscirà, alla fine, ad essere un punto fermo per la sua famiglia.
Dermont invece dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni e prendersene la responsabilità. Cadrà, e saprà rialzarsi, ma ovviamente non sarà mai solo. Nessun membro della famiglia Browne è mai davvero solo.
Avevo già detto, nelle precedenti recensioni, che la famiglia Browne non è perfetta; e ne abbiamo la conferma anche questa volta. Sembra che ad Agnes la sorte della sua prole cominci a sfuggire dalle mani. C'è un grosso litigio, molti silenzi, incomprensioni, ma alla fine i legami di famiglia sono più forti di qualunque cosa, ed è grazie a questo che tutto torna al suo posto.
Il finale è bello. Non divertente, anzi; triste ma bello.
 
Si sente l'esigenza, da parte dell'autore, di dare una degna conclusione alle vicende e questo, a volte, porta a soluzioni un po' forzate. Senza spoilerare troppo: suvvia, chi affiderebbe così, su due piedi (credetemi, letteralmente su due piedi) un bambino di 10 anni al padre naturale che non l'ha mai riconosciuto, che non lo conosce, che è un ex galeotto e per di più senza lavoro e senza fissa dimora?
Mi è sembrata una situazione forzata e irreale.
Ma a parte questa e altre piccole sbavature, questo romanzo racconta una storia semplice senza essere banale, una storia molto, molto bella.
 
Più che un romanzo a se stante, Agnes Browne, nonna è un nuovo capitolo della saga familiare dei Browne. Non può essere letto senza aver letto i precedenti, e se li avete letti, non potrete fare a meno di questo romanzo.
 
Voto: 7 e 1/2.

lunedì 9 maggio 2016

In fondo al tuo cuore. Inferno per il Commissario Ricciardi...

... di Maurizio De Giovanni.


La scheda del libro sul sito Einaudi.
 
Napoli, luglio 1932. In città fervono i preparativi per l'attesissima festa del Carmine.
Il commissario Ricciardi e il fido brigadiere vengono chiamati ad indagare sul caso di un notissimo ginecologo e professore universitario precipitato dalla finestra del suo studio. Incidente, suicidio o omicidio?
L'anima del morto sussurra al commissario un nome, Sisinella, che non è il nome della moglie.
Il commissario comincerà a seguire questa esile traccia, e scoprirà che lo stimato professore aveva uno o due (e forse anche tre) scheletri nell'armadio. 
 
Ogni volta che scrivo di Ricciardi mi rendo conto che riassumere la trama è riduttivo.
Difficile sintetizzare sottotrame, sentimenti, passioni e azioni dei personaggi.
Come sempre  la morte violenta sarà solo l'evento conclusivo di tutta una serie di azioni, scelte ed eventi che si sono messi in moto già da tempo.
Una morte violenta non è mai una cosa che succede all'improvviso, che viene da lontano, e Ricciardi lo sa.
Per questo il suo modo di indagare è attento, oltre che ai fatti, alle persone e ai loro sentimenti. 
Qui abbiamo uno stimato professore di ginecologia che cade dalla finestra del suo studio al quarto piano. Il suo ultimo pensiero cosciente è un pensiero d'amore, ma più andiamo avanti nella lettura, e meno empatia proviamo per quest'uomo.
Il commissario scava a nel suo passato, che si rivela torbido, con molte ombre e poche, pochissime luci.
Il moltiplicarsi di queste ombre crea una trama interessante e non scontata. C'è molto da scoprire, e la direzione delle indagini cambia più volte.
La rivelazione del colpevole segna un punto interessante nella trama. A conti fatti, non sappiamo chi sia più colpevole, se la vittima o il carnefice. Come nella vita, le cose non sono tutte bianche o tutte nere. E la scoperta dell'autore del crimine non sarà semplice da accettare.
 
Continuano anche le vicissitudini sentimentali per il commissario. Enrica decide di allontanarsi da Napoli per provare a dare un taglio netto a questa non-relazione che la sta (giustamente) logorando. 
Livia, l'altra donna, bellissima, intelligente, elegante e (secondo me) insopportabile, è pronta a fare l'ennesimo tentativo per conquistare il commissario. 
Mentre sta vivendo un periodo molto duro dal punto di vista personale, Ricciardi arriverà finalmente a cercare una svolta nel suo platonico rapporto a distanza con Enrica, con esiti che non vi racconterò per non togliervi il gusto della lettura. Dico solo questo: quando mai una cosa è stata semplice per il commissario Ricciardi?
 
Quelli di De Giovanni sono gialli un po' atipici, lenti ma non noiosi, che badano a raccontarci, oltre alla soluzione del mistero, le motivazioni, le passioni e le ragioni che spingono il colpevole (e non solo lui) all'azione.
Questi elementi sono gli stessi che spingono Ricciardi all'azione. Non è la sete di giustizia, che spinge il commissario, e neanche la propria etica o la propria morale.
Semplicemente, lui deve chiarire cosa è successo, perché l'omicidio genera dolore, che si diffonde come i cerchi in uno stagno, dopo che si è gettata una pietra. E Ricciardi non può rimanere indifferente.
E' la maledizione del commissario.
Ricciardi si porta appresso la sua croce, la sua sconfitta. Perché lui sa che non può vincere. Che prenda il colpevole oppure no, ci sarà sempre e comunque molto dolore, molto più tangibile di quanto gli altri esseri umani possano immaginare.
Ricciardi è uno sconfitto, ma non un perdente. Non può vincere, ma gioca lo stesso.
In fondo, ognuno di noi gioca a un gioco che non può vincere. Forse per questo amo tanto il commissario e le sue storie.
 
Voto: 8.

martedì 3 maggio 2016

La saga di Agnes Browne, parte II. I marmocchi di Agnes Brown...

... di Brendan O'Carroll.



I marmocchi di Agnes Browne sul sito Neri Pozza

Se ti metti contro uno dei figli di Agnes Browne, ti metti contro tutti gli altri, ovunque essi siano.

Sono passati tre anni dalla morte di suo marito, e Agnes Browne, simpatica donna della Dublino proletaria degli anni '70, continua a lottare per tenere unita e in carreggiata la sua famiglia, composta da lei e dai suoi 7 figli. Agnes affronta la vita di petto, con una inconsapevole ironia che l'aiuterà ad andare avanti.
 
Rispetto al precedente volume, Agnes Browne mamma, che ho recensito qui, I marmocchi segna davvero un gran bel passo avanti.
E' un romanzo organico, con una trama divertente che riesce a raccontare le vicende di tutti i figli di Agnes senza perdere coesione. Stavolta si tratta di un vero romanzo. E di uno molto bello.
Le vicende dei piccoli Browne sono il perno del romanzo, e Agnes rimane un po' in disparte, quasi dietro le quinte.
Mark, il primogenito oramai maggiorenne, trova lavoro in una fabbrica di mobili. La sua schiettezza, onestà e intelligenza lo aiuteranno a fare carriera e a risolvere una grossa crisi che minaccia di travolgere la fabbrica, il cui proprietario, Mr. Wise è una gran brava persona, ma purtroppo è molto malato ed ha un figlio che è una vera carogna, che aspetta solo che il padre muoia per impadronirsi dell'eredità.
Mark avrà intorno tutta la famiglia; ogni membro darà il suo apporto, fosse anche solo morale, perché la crisi possa essere risolta per il meglio.
 E a proposito di carogne, scopriremo anche che i figli di Agnes non sono tutti angioletti come ci aspettavamo; anzi. Ma questo renderà sicuramente la famiglia più vera, più "di questo pianeta".
 
Però torno a ripetere che secondo me l'autore non rende un buon servizio ad Agnes quando scrive di lei. Se da un lato la descrive come un donna benvoluta e ammirata da tutti, adorata dai figli, pratica e coraggiosa, dall'altro lato la mette in situazioni in cui Agnes sembra essere appena caduta dalle nuvole.
Prendiamo il caso di Trevor, l'ultimogenito, considerato da tutti un po' lento. Passa il tempo a disegnare furiosamente su un blocco di carta; sembra essere in estasi quando lo fa.
Un giorno Agnes viene chiamata dalla scuola perché la preside vuole illustrarle la possibilità che Trevor frequenti una scuola d'arte con una borsa di studio. E Agnes è stupita, non capisce di cosa si stia parlando; insomma, non si era mai accorta del talento del figlio, il tutto per imbastire un siparietto comico, divertente per carità, ma un tantino forzato.
 
«Guardi la finestra, Mrs Browne,» esordì Miss Conway, indicando la finestra alle spalle di Agnes.
 Agnes si girò sulla sedia e guardò. Quella che una volta era stata la normale finestra di una scuola, larga due metri e alta uno, era stata dipinta come una vetrata istoriata, con la scena dell’Ultima Cena. I colori usati erano forti e brillanti, e il pasto che doveva essere alla base del rito cristiano sembrava una festa, non la solita veglia funebre. Quell’artista doveva avere una spiritualità diversa dalla maggior parte delle persone. La finestra era meravigliosa; nei giorni di sole ci si poteva immaginare l’ufficio pieno di colori. L’opera d’arte serviva anche per distrarre l’attenzione della gente dalla grande incrinatura, a forma di mezzaluna, nell’angolo superiore destro della finestra. Agnes si voltò di nuovo verso Mrs Conway.
«E allora?» chiese.
«L’ha fatta suo figlio!» dichiarò tutta fiera Miss Conway.
«Piccolo bastardo! Questa volta lo ammazzo di botte, per la miseria! Quanto mi costerà farla sostituire?»
Agnes non aveva visto l’opera d’arte, ma solo l’incrinatura. Succede di frequente con i genitori dei bambini dotati.
«Il dipinto, Mrs Browne. Suo figlio è l’autore del dipinto.»
 
Ma quando l'autore passa a intrecciare i fili delle vicende che riguardano i ragazzi Browne, da il meglio di sé.
Si ride, si piange, ci si arrabbia, si soffre. Ma ci sembra di non essere mai da soli. E' la forza dei Browne, questa, ma anche la forza di questo splendido romanzo corale. L'autore ha la capacità di creare diverse sottotrame, e di farle convergere con semplicità e naturalezza verso un'unica conclusione. Il finale è struggente: un bellissimo, triste sigillo a questa storia.
 
Insomma, un libro decisamente migliore di quello che l'ha preceduto. Un libro dove, nonostante le difficoltà, i buoni sentimenti prosperano, e le brave persone riescono a superare le avversità. Un libro che ha fiducia nel genere umano e nel potere dei legami familiari; a volte un po' ingenuo, ma intriso di dolcezza e poesia. Una storia che sembra narrata da una voce amica, con semplicità e partecipazione, davanti a una tazza di thè.
Consigliato.
Voto: 8 

lunedì 2 maggio 2016

La saga di Agnes Browne. Parte I: Agnes Browne, mamma...

di Brendan O'Carroll.



 
Agnes Browne, 34 anni, vive nel centro di Dublino nel popolare quartiere del Jarro. Ha sette figli e un marito che gioca, beve e la picchia. Quando l'uomo muore, Agnes dovrà provvedere a sé e ai suoi figli, ma finalmente prenderà in mano la sua vita, vivendo buffe avventure quotidiane, ed affrontando la vita sempre col sorriso.
 
Questo breve romanzo ci introduce nel mondo di Agnes Browne, una donna che fa parte del proletariato di Dublino, e che, sul finire degli anni 60, sbarca il lunario vendendo frutta e verdura al mercato, con l'amica Marion. La morte del marito è più una liberazione che un vero lutto; infatti, finalmente, Agnes può prendere la sua vita in mano.
Il personaggio di Agnes è buffo e piuttosto naive; è una donna molto pratica ma dimostra un'ignoranza abissale in alcune cose delle vita come il sesso, ad esempio. E dovrebbe suscitare tenerezza nel lettore.
Beh, a me non è capitato. Ho trovato la sua ignoranza davvero artificiosa, forzata. Ok, siamo negli anni '60; ok, Agnes proviene da una famiglia povera, ma alcune volte mi sembra proprio sia caduta dalla luna!
Dopo circa quattro - cinque ore dalla morte del marito è già presso gli uffici competenti a chiedere il sussidio, e questa è la conversazione che ne segue:
 
   «Allora, nome e cognome?»
   «Agnes Loretta Browne.»
   «Browne con la E ?»
   «Sì, e Agnes con la E, e anche Loretta con la E.»
   La ragazza la guardò, le era venuto il dubbio che la stessero prendendo per i fondelli.
   «Nome da ragazza?»
   «Ehm, Reddin.»
   «Bene. Nome di suo marito?»
   «Nicholas Browne e, prima che me lo chieda, il nome da ragazza di mio marito non lo conosco.»
   «Mi basta Nicholas Browne. Professione?»
   Agnes guardò prima Marion, poi l’impiegata, e alla fine disse con dolcezza, «Il morto.»
   «Ma no, da vivo, che lavoro faceva da vivo?»
   «Era un lavapiatti.»
   «E dove lavorava?»
   Agnes guardò di nuovo il viso inespressivo dell’amica. «In cucina?» azzardò, sperando che fosse la risposta giusta.
   «Certo che lavorava in cucina, ma dov’era questa cucina? In un albergo?»
   «È ancora un albergo, vero, Marion?» Lei annuì.
   «Insomma, in quale albergo?!!» La ragazza era esasperata, cominciava a digrignare i denti.
   «Al Gresham Hotel di O’Connell Street, cara,» rispose Agnes in tono confidenziale. Questa era facile. L’impiegata scribacchiò la risposta e proseguì con le domande.
   «Dunque, com’è morto suo marito?»
   «Un ranger,» rispose Agnes.
   «Gli ha sparato?» chiese l’altra, incredula. «È stato ammazzato?»
   «Da chi?» Agnes glielo domandò come se avesse scoperto qualcosa di cui lei stessa era all’oscuro.
   «Dal ranger, suo marito è stato ucciso da un ranger?»
   Agnes era perplessa. Rimuginò un istante, poi un’illuminazione le rischiarò il viso.
   «Ma no, tesoro! Da un Ford Ranger, è stato investito da un Ranger, il fuoristrada!»
 
Ok, dovrebbe essere una conversazione comica, e probabilmente sono io che non colgo l'umorismo ma... davvero, Agnes sembra un po' tonta qui. Come si fa a rispondere "Il morto" alla domanda "Lavoro"? E dai!
Credo che in questo caso, come in altri, l'autore non abbia reso un buon servizio al suo personaggio, dipingendolo come stralunato e fuori dal mondo.
 Allo stesso modo non sono riuscita a cogliere l'ironia della scena, descritta più avanti, in cui Agnes, all'inizio del suo matrimonio, viene picchiata dal marito perché non ha ancora imparato a riconoscere i sintomi della violenza in arrivo.
 
E vogliamo parlare dei suoi figli? Sono (quasi) tutti adorabili e talentuosi. Ma di preciso, come Agnes li abbia cresciuti così speciali, e cosa di preciso abbia fatto per loro, a me non è chiaro. Certo, ha lavorato duramente e questo non si può negare. Ma che altro? Ci sarà qualcosa, ma in realtà l'autore non approfondisce questo aspetto, e perciò, secondo me, ancora una volta non rende giustizia ad Agnes, che dovrebbe essere un'eroina proletaria.
Ecco, secondo me il personaggio di Agnes, che dovrebbe farci ridere e piangere, semplicemente non funziona.
L'unico sprazzo di carattere lo mostrerà quando difenderà la figlia minore, Cathy, dai maltrattamenti di una suora a scuola. E lì l'ho veramente amata.
Ma per il resto mi sembra che l'autore ci chieda di amare Agnes Browne sulla fiducia, fidandoci della sua parola, perché è una persona meravigliosa.
 
Inoltre il romanzo è una serie di aneddoti abbastanza slegati tra loro, con filo conduttore che non riesce a dare organicità alla storia, che è proprio leggera leggera.
 
E allora, penserete voi, è un libro che non merita di essere letto.
E invece no! Perché questo romanzo ci spalanca le porte sulla saga familiare dei Browne, che è una serie di quattro volumi, che, nonostante l'inizio incerto, merita davvero un posto nella libreria di ogni lettore.
Probabilmente, con qualche taglio e opportuno rimaneggiamento, Agnes Browne, mamma sarebbe stato un ottimo prologo per quella piccola perla che è il suo seguito: I marmocchi di Agnes Browne, di cui spero di scrivere a breve.
Perciò, leggetelo avendo I marmocchi già a portata di mano!
Voto: n. c.