venerdì 18 dicembre 2009

Eldest...

...di Christopher Paolini.

Sarò breve, anche perchè dilungandomi rischierei di ripetere quello già deltto nella recensione di Eragon.

In questo secondo volume del Ciclo dell'Eredità, troviamo Eragon alle prese con il suo addestramento presso gli Elfi; i suoi crescenti sentimenti per Arya, l'elfa da lui salvata dalle grinfie di Galbatorix, il malvagio imperatore; e troviamo anche Roran, cugino di Eragon, alle prese con i malvagi agenti dell'Impero, i Ra'zac, che voglio catturarlo per usarlo come esca per intrappolare il giovane Cavaliere dei Draghi.

Comincio col dire che ho trovato questo secondo volume migliore del primo. Nonostante avessi letto in rete commenti meno lusinghieri, questo romanzo ha una maggiore ragion d'essere.
Lo stile di Paolini resta prolisso e incline a dilungarsi a vuoto su dettagli insignificanti, ma credo che uno sforzo di dare una maggiore consistenza alla trama sia stato fatto. Purtroppo, premesse che paiono interessanti vengono, nel prosieguo della trama, private di forza e coerenza dalle scelte dell'autore, sciupando così gli spunti di un certo pregio.

Facciamo degli esempi.
Il periodo di soggiorno del protagonista tra gli elfi non manca di organicità e di qualche spunto interessante.
Le battute iniziali dell'addestramento di Eragon sono quelle che hanno destato maggiormente la mia curiosità: si vedeva che qui c'era qualcosa da raccontare, da narrare al lettore.
E' un vero peccato che l'autore le tiri troppo per le lunghe, mostrandoci i giorni di Eragon in tutta la loro sfolgorante, banale ripetitività.
Avevo trovato piuttosto interessante poi l'aver finalmente cercato di dare a Eragon un po' di spessore.
Infatti il ragazzo, alla fine della battaglia con cui si chiude Eragon, aveva riportato una gravissima ferita, la cui cicatrice gli solcava l'intera schiena, e che essendo di origine magica lo tormentava senza preavviso, fino a farlo svenire e a renderlo, sostanzialmente, un invalido.
Di recente ho letto un manuale di scrittura, a firma di Orson Scott Card, il quale sostiene che niente è meglio della sofferenza per rendere un personaggio interessante e incuriosire il lettore. Parole sacrosante.
L'affermazione trova conferma anche qui.
Basta riflettere un attimo:  Eragon è l'ultimo dei Cavalierei dei Draghi, è la speranza dei ribelli e ha una ferita invalidante. Come se la caverà? Riuscirà a portare a termine il suo compito, nonostante tutto? Riuscirà a venire a patti con questa nuova realtà?
Ok, l'idea della ferita soprannaturale che tormenta il protagonista  non è nuovissima (Frodo, ci sei?) ma in fin dei conti aveva un che di intrigante.
Dico aveva perchè, più o meno a metà del romanzo, Paolini ha la brillante idea di far discendere dal cielo, durante una celebrazione elfica, gli spiriti dei draghi ancestrali, i quali, decidono, così, tanto per non annoiarsi, di guarire Eragon dalla sua ferita, di tramutarlo praticamente in un elfo e di fargli quindi acquisire forza, resistenza, agilità e velocità elfiche.
Da questo momento in poi Eragon, che già non se la cavava male, sarà sempre e comunque superiore a qualunque essere umano sulla faccia della Terra.
Mi verrebbe da commentare: ti piace vincere facile, eh?
La cosa che ho trovato maggiormente fastidiosa in questa svolta che ha preso la trama, è che Eragon non ha dovuto far nulla per conquistarsi questa guarigione miracolosa, non l'ha nemmeno dovuta chiedere; è piombata dal cielo e basta. Perchè gli spiriti ancestrali dei draghi gli hanno concesso questa benedizione? Perchè sì. Punto e basta.

Altro spunto intrigante (il migliore del romanzo, a parer mio) è quello che riguarda una bambina dei Varden (i ribelli) benedetta da Eragon prima di partire verso le terre degli Elfi.
L'intenzione del ragazzo era quella di gettare un'incantesimo su di lei in modo che fosse sempre protetta dal male e dal dolore; invece Eragon sbaglia la dizione delle parole nell'Antica Lingua, e condanna la bambina ad essere una protezione dal male e dal dolore. In pratica la bambina senta il dolore e la sofferenza di tutti quelli che le stanno intorno, e prova un impulso irrefrenabile a impedire che le persone soffrano.
Una condanna atroce, che potrebbe avere chissà quali conseguenze sulla sanità mentale della piccola e anche sullo svolgimento della trama. Peccato però che Paolini, per prima cosa, si premuri di rassicurarci sul fatto che gli Elfi hanno un incantesimo per contrastare quello pronunciato da Eragon (e prontamente glielo insegnano, naturalmente), e in secondo luogo, l'autore usa la bambina come uno sfiga-detector per Nasuada, giovane donna a capo dei Varden, che in pratica sfugge ad ogni pericolo o attentato portandosi appresso la piccola. La tensione subisce, in questo modo, un crollo verticale.

Alcune situazioni, poi, sono gestite in maniera da risultare deboli e poco credibili.
Prendiamo ad esempio le vicende di Roran. I Ra'zac, finalmente!, si accorgono che potrebbe essere un ostaggio prezioso, ma quando cercano di catturarlo si ritrovano contro l'intero villaggio di Carvahall. Al che, invece di radere al suolo tutto, oppure di catturare gli abitanti del villaggio e giustiziarne uno ogni ora finchè Roran non si fosse consegnato, pensano bene di accamparsi, insieme ad un manipolo di soldati, fuori dal villaggio e aspettare cortesemente che Roran si faccia vivo.
Anche quando i contadini si ribellano attaccando le guardie, a nessuno viene in mente di sterminarli e farla finita. No, i Ra'zac (che, ricordiamolo, possono uccidere con il solo alito) aspettano rinforzi. Sì, rinforzi per radere al suolo un villaggio di contandini male armati e non addestrati.
Alla fine, gli abitanti di Carvahall sterminano i soldati e fuggono, sperando di raggiungere i ribelli nei territori del Sud, e i Ra'zac portano via Katrina, l'amata di Roran, perchè sanno che lui, prima o poi, andrà a cercare di liberarla.
(Farlo subito pareva brutto, eh? Ma ve l'avevo detto che i Ra'zac hanno molti doni, ma non quello dell'intelligenza)

Se aggiungiamo a tutto ciò una rivelazione finale in stile Luke, io sono tua padre, possiamo avere un quadro completo della situazione.

Per quanto si notino dei piccoli passi avanti, continuo a credere che la storia complessiva del ciclo ne avrebbe guadagnato se fosse stata opportunamente tagliata e sintetizzata, e quindi il giudizio resta negativo.


venerdì 11 dicembre 2009

Eragon...

...di Christopher Paolini.

Eragon è il primo di quattro libri che compongono il Ciclo dell'Eredità, di genere fantasy classico (ma molto, molto classico) ed è stato scritto dall'autore quando aveva 15 anni, e successivamente sottoposto ad un lungo e intenso editing.
Cosa che appare evidente, perchè il libro è scritto in uno stile decente e corretto (anche se sospetto che qui e lì la traduzione abbia disseminato qualche errore, come quello riguardante la descrizione della città di Teirm, in cui, al calar della sera, non chiudono le porte o i cancelli di accesso alla città stessa, ma abbassano le saracinesche...come dal fruttivendolo, insomma).

Quello che invece non va nel libro è... tutto il resto.
Lo so, magari state pensando quello che mio marito mi ripete ogni giorno (no,sbagliato, non è "eddai svegliati che è ora...") .  Lui sostiene che io sia diventata troppo pignola e puntigliosa coi libri, che sembra che li leggo solo per criticare e altre amenità del genere.
Può darsi che abbia ragione lui, chissà, ma da appassionata di fantasy, in tutta onestà non posso affermare che Eragon mi abbia emozionata o che mi abbia lasciato qualcosa, una volta terminata la lettura.
La trama già comincia a svanire dalla mia mente (infatti sto pigiando sui tasti molto, molto velocemente) e cercherò di riassumerla prima che sia andata completamente.

Eragon è un giovane contandino che abita nel piccolo villaggio di Carvahall, nella valle di Palancar. Sua madre lo ha abbandonato in fasce a casa di suo fratello, e da allora Eragon non ne ha più saputo nulla.
Un giorno, andando a caccia, il ragazzo trova una pietra blu, liscia e dura, e ben presto scopre che la pietra in realtà è un uovo di drago. Alla nascita, la creatura sceglie Eragon come suo Cavaliere, e questo metterà il ragazzo in pericolo, perchè il malvagio imperatore Galbatorix, Cavaliere dei Draghi rinnegato, che ha sterminati tutti gli altri draghi e cavalieri, vuole Eragon o al suo fianco, oppure morto.
Con l'aiuto di Brom, un cantastorie dall'oscuro passato, Eragon fugge da Carvahall per andare incontro al suo destino.

Le prime cento pagine sono tutto sommato interessanti, con un buon numero di eventi che tengono viva l'attenzione del lettore: il ritrovamento dell'uovo, la nascita del drago e i primi passi di Eragon nel conoscere la creatura, l'attacco degli scagnozzi dell'impero, la fuga e la scoperta della magia.
Dopo la fuga, il ritmo rallenta fino ad assestarsi ad un livello quasi soporifero.
Eragon e Brom fuggono da Carvahall per evitare i misteriosi agenti dell'Imperatore dai poteri soprannaturali, chiamati Ra'zac, che hanno distrutto la fattoria dove il ragazzo viveva e ucciso lo zio che l'aveva cresciuto come un figlio.
Paolini descrive questi Ra'zac come creature praticamente invincibili, dei sicari infallibili, tremendi, implacabili, con poteri sovrannaturali.
Questi Ra'zac avranno pure incredibili poteri magici, ma sicuramente non devono brillare per intelligenza, visto che non riescono ad acchiappare un contadinello ignorante e soprattutto ignaro dei motivi che lo hanno fatto diventare il nemico pubblico numero uno dell'Impero!
Infatti, invece che entrare zitti zitti nella fattoria dello zio, prenderlo in ostaggio e aspettare Eragon nascosti dietro la porta con un grosso randello in mano, uccidono l'uomo (vabbè, per essere precisi lo abbandonano morente), distruggono la fattoria in maniera plateale cosicchè Eragon sia ben conscio che è in pericolo e poi...lasciano Carvahall, senza sapere se effettivamente Eragon sia in in zona, oppure no. Decisamente sensato, vero?
Eragon, in seguito a questi eventi, vuole vendetta e perciò la sua fuga si trasforma nella rabbiosa ricerca dei Ra'zac.
Quindi ci troviamo nella curiosa situazione di Eragon (la preda, per così dire) che insegue i suoi cacciatori.
Ecco, non mi sono ancora spiegata perchè i Ra'zac non si siano semplicemente fermati ad aspettare Eragon, invece di rifugiarsi nella loro impenetrabile cittadella sul cucuzzolo di un'impervia montagna... ma il loro scopo non era prendere Eragon? Allora perchè fuggono? Perchè non catturano Roran, il cugino che Eragon ama come un fratello, per costringerlo ad arrendersi? (L'ultima la so! L'ultima la so! Non lo catturano perchè altrimenti Paolini non avrebbe potuto, in Eldest, il seguito di questo romanzo, annoiarci raccontarci delle vicende di Roran quando i Ra'zac si accorgono di lui...)

Lungo il cammino, Eragon impara qualcosa di più sui draghi. Grazie al forte legame con il suo drago, Saphira, Eragon acquisisce il potere di governare le energie del mondo e quindi pronunciare incantesimi.
Per fare ciò, deve imparare l'antica lingua, ovvero il linguaggio della razza che ha dato il nome a tutte le cose. Attraverso la conoscenza del vero nome di ogni oggetto o creatura, essi possono essere manipolati, cambiati e usati.
Ad esempio, conoscendo il vero nome del fuoco - brisingr - si può usare una fiamma per colpire i nemici, o semplicemente per accendere un falò.
Il viaggio di Eragon e Brom è di una noia mortale; qualche scaramuccia, un po' di informazioni su cosa attende Eragon ora che è Cavaliere e tanti, tanti, inutili minuziosi particolari.
Ci sono degli spunti interessanti, come ad esempio quando Brom rivela qualcosa di più a Eragon sulla storia del mondo di Alagaesia, oppure quando Brom risponde con mezze frasi alle incalzanti domande di Eragon sul passato di Brom stesso (anche se devo sottolineare che è facilmente intuibile chi sia Brom in realtà; l'unico che non ci arriva è Eragon, ma vabbè, forse sono io che ho letto troppi libri). Questi spunti andavano, a mio parere, approfonditi, perchè avrebbero arricchito il racconto del viaggio, invece si perdono in un mare di dettagli inutili e pesanti.
Spesso leggendo mi chiedevo: va be', ma a me cosa me ne importa?
La cosa buffa poi è questi dettagli sovrabbondanti tendono a dileguarsi non appena c'è una qualsivoglia scena d'azione, che viene solitamente liquidata in due righe.

Interessante poi la tendenza di Eragon a svenire ogni qualvolta il gioco si fa duro e quindi a perdersi (e farci perdere, che è peggio!) tutto il bello degli scontri e delle scene d'azione.
La prima volta, lo svenimento è a causa di un incantesimo scagliato con troppa foga che prosciuga le sue energie (e ci può anche stare); la seconda volta, è a causa di una ferita (e così veniamo privati del piacere di sapere come si conclude lo scontro); la terza volta (dopo appena 30 pagine dalla precedente) è perchè Eragon possa farsi convenientemente catturare senza dare noia all'autore, che altrimenti dovrebbe raccontarci come viene ridotto all'impotenza e imprigionato.
L'uso ripetitivo del medesimo espediente narrativo per più volte, per di più a a distanza di poche pagine, è indice, a parer mio, di poca fantasia e originalità, di sciatteria e di pigrizia narrativa.

E visto che si parla di originalità... questo mi porta a sottolineare un altro aspetto non proprio pregevole del romanzo: in Eragon c'è ben poco di originale.
La figura del povero orfano, che non sa chi siano i propri genitori, allevato come un contandino e che poi scopre di essere destinato a diventare un cavaliere jedi dei draghi, vi ricorda qualcosa? Qualcosa avvenuto tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana?
E l'imperatore cattivo, che ha sterminato tutti i Cavalieri e che ora cerca l'ultimo di loro?
E i ribelli nascosti sotto una montagna?

Gli Urgali e la loro versione migliorata, i Kull, (creature mostruose al servizio dell'Impero) sono uguali indentici agli orchi e gli Uruk di tolkeniana memoria.

I nani e la loro città di pietra sono la fotocopia di quelli del Signore degli Anelli.

Nemmeno la concezione della magia, per quanto suggestiva, è originale, ma presa a prestito dalla saga di Earthsea di Ursula K. LeGuinn.

Insomma, diciamo che Paolini deve molto, oltre che alle storie fantasy classiche (alla Terry Brooks, per intenderci, mi rifiuto di scomodare Tolkien per fare paragoni), anche alla saga di Guerre Stellari, ma non ha avuto il merito di saperle rielaborare o quanto meno fonderle in qualcosa di interessante.

Il protagonista, poi, non è minimamente approfondito. E' piatto, accetta qualunque cambiamento senza troppi perchè, scegliendo sempre la soluzione più politically correct che trova a portata di mano.
In più, qualunque cosa faccia, Eragon riesce a farla meglio di qualsiasi altro essere umano.
Ha un insospettato talento per la magia; diventa nel giro di due mesi uno schermidore provetto, e nello stesso lasso di tempo si trasforma da contandino analfabeta in letterato e conoscitore dell'antica lingua. Alla lunga la cosa diventa un tantino fastidosa; ancor peggio se si tiene presente che nonostante tutte le sue abilità, Eragon non si rivela mai decisivo.
La cosa potrebbe essere interessante, se Paolini avesse voluto mostrare l'immaturità del giovane Cavaliere, il suo bisogno di imparare, di crescere, addestrarsi, etc.. etc.
Ma in realtà il problema di Eragon non è l'inesperienza: il suo problema è che non sia ha mai l'impressione che Eragon possa influenzare e plasmare la storia con le sue scelte, le sue azioni e le sue decisioni.
Nel romanzo, in pratica Eragon cammina e ogni tanto inciampa in qualcosa: un uovo di drago, una pattuglia di Urgali, un'elfa prigioniera, un rifugio dei ribelli...
Le cose succedono perchè devono succedere, e basta. Come se Eragon camminasse e dietro di lui socrresse un fondale già dipinto.
Esempio: c'è bisogno che gli elfi incrocino la strada di Eragon? Perfetto, Eragon va a letto e casualmente sogna una giovane elfa in pericolo, Arya, e in seguito verrà catturato e rinchiuso nella stessa prigione dove è tenuta lei.
Quando viene catturato, Eragon è insieme a Murtagh, un misterioso spadaccino, e naturalmente, nonostante fossero circondati ed in evidente inferiorità numerica, Murtagh riesce a fuggire (ma siccome Eragon sviene non sapremo mai come), cosicchè Murtagh possa, in seguito, comodamente giungere a salvare Eragon. Una soluzione che mi ha fatto storcere il naso, anche perchè la fuga dalla prigine e lo scontro conseguente sono tra i pochi eventi degni di questo nome che accadono nel libro. Vederli risolti in maniera così scontata è stato deludente.
Non c'è mai pathos, non c'è tensione, non ci si domanda mai: è cosa accadrà adesso? Tanto, in un modo o nell'altro, la la soluzione pioverà dal cielo! Possibile che Eragon non riesca mai a cavarsela da solo?

Il finale non smentisce quanto detto fin qui.
Eragon ha raggiunto finalmente il rifugio dei ribelli, quando questi vengono attaccati dalle tuppe imperiali.
Accenno ssolo rapidamente al fatto che questi ribelli hanno il loro rifugio in una città dei nani scavata dentro una montagna (qualcuno ha detto Moria, per caso?) ma evidentemente i loro strateghi devono essere parenti dei Ra'zac, perchè questo segretissimo rifugio nascosto tra le montagne ha delle belle gallerie, comodamente percorribili da un intero esercito, che sbucano all'esterno e non sono in alcun modo sorvegliate, protette o bloccate.

Nel bel mezzo della battaglia, Eragon sta combattendo contro un avversario notevolmente più forte di lui, quando irrompono a salvarlo Saphira e Arya. Convenientemente, Saphira ricorda soltanto nelle ultime 20 pagine del romanzo di essere capace di sputare fuoco; così distrae l'avversario di Eragon e il ragazzo, che stava soccombendo, trova casualmente un'insospettabile riserva di energia dentro di lui e lancia un ultimo incantesimo, riesciendo così a  sconfiggere il nemico (e poi, detto tra noi, sviene!).

Sebbene ci sia ben poco che salverei in Eragon, sotto sotto ho la sensazione che questo sarebbe potuto essere un libro migliore, se solo Paolini si fosse accontentato si scrivere un solo romanzo, e non una trilogia (che poi è diventata una quadrilogia strada facendo). La sensazione è rafforzata anche dalla lettura di Eldest (il secondo libro del Ciclo dell'Eredità), che ho quasi finito.
Sarò comunque più precisa nella recensione di Eldest, che spero di postare a breve.

Spendiamo infine due parole anche sulla versione cinematografica di Eragon.
Sono quasi certa del fatto che i produttori e gli sceneggiatori la pensano esattamente come me: Eragon è una noia mortale.
Infatti, nel film hanno cambiato completamente lo svolgimento della trama, salvando solo le premesse e nulla di più. Così facendo, però, hanno tagliato via anche quel poco di interessante che, in sintesi, si poteva trovare in Eragon, riuscendo nel non facilissimo conmpito di rendere il film ancora più brutto del libro.
Il film è frammentario; alcune cose sono palesemente forzate (vedi Eragon che impara la magia origliando le parole che pronuncia Brom...almeno nel libro un pochetto - non troppo, ma almeno un po' - si era dovuto applicare...), altre completamente assurde (mi riferisco al fatto che Eragon, a un certo punto, lascia Brom indietro e a volo di drago corre a salvare un'elfa imprigionata; sul più bello, nel momento in cui Eragon è in pericolo appare dal nulla Brom a salvarlo - senza che ci sia dato di capire come possa essere arrivato in quel luogo più o meno insieme ad Eragon, che aveva volato fin lì, mentre lui aveva cavalcato).
Un capitolo a parte meriterebbe il doppiaggio. La voce di Saphira è di Ilaria D'Amico, presentatrice che tutto sommato stimo e mi è anche simpatica, ma la cui voce è completamente inadatta al compito, perchè piatta e monocorde (forse l'unica cosa in tema con il libro!).
Da evitare, come il romanzo.


venerdì 4 dicembre 2009

Il mondo di Rhett...

...di Daniel Mc Caig.

Sono stata indecisa fino all'ultimo se scrivere una recensione oppure aprire un dibattito sul tema: perchè insisto nel farmi del male in questa maniera?
Vabbè, vada per la recensione, e per mostrare che sono senza pregiudizio alcuno sul libro in questione, aprirò con qualcosa di positivo.
Infatti, la buona notizia è che Il mondo di Rhett non sfiora nemmeno da lontano le inarrivabili vette di approssimazione, superficialità, banalità e incoerenza di Rossella della Ripley (la cui recensione potete trovare qui )
Non solo, ma a giudicare da come vanno le cose nel romanzo, McCaig fa addirittura finta che Rossella non sia mai esisto (che è precisamente la stessa cosa che faccio io, quindi non posso che essergliene grata).
La cattiva notizia è che molto probabilmente Daniel McCaig non ha mai letto Via col Vento in vita sua.
Capisco e comprendo che l'autore abbia diritto a un minimo di discrezionalità, anche quando scrive il seguito di un libro così famoso, ma qui le licenze che McCaig si è preso sono tali e di tale entità da far pensare che Il mondo di Rhett abbia, di Via col Vento, solo i nomi e le ambientazioni, e niente altro.

Volete degli esempi?
Tanto per iniziare, vi ricordate la ragazza del calessino, quella che Rhett rifiutò di sposare?
L'episodio fece nascere in Rossella il primo sentimento di ammirazione nei confronti di Rhett, perchè, Rossella, "in cuor suo, provava un senso di istintivo rispetto per quell'uomo che aveva rifiutato di sposare una sciocchina". Qui l'episodio è stravolto.
Rhett è sì accusato a causa di una ragazza, ma la giovane è incinta ed è la figlia del sorvegliante della sua famiglia. E indovinate di chi si tratta?
Di Bella Watling, la quale non ha ancora intrapreso la carriera per cui l'abbiamo conosciuta in Via col Vento.
Quel che rende ancora più fastidioso l'episodio poi, è una sottile incoerenza che lo permea: Rhett protesta la sua innocenza, e, benchè non abbia mai frequentato Bella, non viene creduto. Eppure egli è circondato almeno da un altro paio di amici non proprio con la testa sulle spalle, ma a nessuno viene in mente si sospettare di loro.
Perchè?
Perchè sì.

In VcV, quando Rhett viene invitato da Frank Kennedy ad accompagnarlo alla merenda alle Dodici Quercie, Kennedy lo fa con riluttanza, sapendo che sarebbe troppo scortese non estendere l'invito a Rhett, uomo che disprezza profondamente; eppure qui troviamo Kennedy che premurosamente chiede a Rhett di andare con lui, temendo che possa rifiutarsi perchè un frivolo divertimento di campagna non è adatto ad un uomo di mondo come lui, ed esultante quando lui accetta.
La scena in questione viene resa ancora più indigesta da un continuo cambio di punto di vista, che saltella dalla testa di Rhett a quella di Kennedy senza una ragione apparente.

E Rhett, il cinico, befferdo Rhett, di fronte allo spettacolo della gioventù sudista che si prepara alla guerra durante la festa è così profondamente disperato che "si sarebbe messo a piangere".

Ancora, Melania viene sepolta alle Dodici Querce. Ashley, dopo la sua morte, va a vivere lì per starle vicino. Peccato che la tenuta è stata sequestrata in Via col Vento dal governo yankee, come tutte le tenute che non potevano pagare le tasse.

Ad un certo punto, l'autore riesce perfino a sbagliare il nome di uno dei fratelli Tarleton, chiamandolo Tom anzichè Tony.

Il vero problema è, però, che anche a voler dimenticare per un istante il paragone fra il capolavoro originale e Il mondo di Rhett, non si può comunque giudicare il secondo un buon romanzo.
Infatti, se da un lato mi hanno infastidito le continue incongruenze tra la trama di Il mondo di Rhett e quella di Via col Vento, dall'altro non ho potuto fare a meno di notare che la trama è spezzettata, manca di organicità,  ed è a tratti molto noiosa. Si salta di continuo alle vicende ora di uno, ora di un altro parente/amico/conoscente di Rhett; la psicologia dei personaggi è approssimativa, l'ambientazione storica non sempre coerente e il finale è un capolavoro di  frettolosa approssimazione.

I personaggi principali ne escono quasi massacrati e stravolti nella loro impostazione psicologica.
E anche quelli secondari, se è per questo; vedere l'amorevole madre di Rhett parlare tranquillamente della bellezza del prato dove si svolge un duello in cui suo figlio rischia la vita è stato sinceramente scioccante, così come vedere due distinte signore del Sud parlare di gravidanze indesiderate e di figli illegittimi tra di loro con estrema naturalezza...e per di più davanti a due bambine di 7 anni.
E per carità di patria taccio su Belle - una prostituta - invitata ai festeggiamenti natalizi della famiglia Butler.
A parer mio, non ha alcun senso prendere dei personaggi creati da alcun altro e distorcere loro e le loro vicende per piegarli alle proprie esigenze narrative, a maggior ragione se queste distorsioni li snaturano e li fanno uscire dal proprio contesto storico e sociale; ma è proprio quello che fa McCaig.

Innanzitutto prendiamo Rhett.
Sarebbe stato interessante leggere di come è diventato come lo conosciamo. Ma in realtà ci troviamo già di fronte al fatto compiuto.
In una conversazione tra padre e figlio, che si svolge durante un flashback che racconta di Rhett bambino, il padre lo definisce un rinnegato. Ma perchè? Perchè il ragazzino è così?
Perchè sì. O meglio, per citare le parole di Rhett, "perchè sono un ribelle".
Ah, ecco. Rhett è un ribelle perchè è un ribelle. Adesso sì che ne sappiamo molto di più su di lui!
Ci sono accenni alla rigidità del padre, che Rhett mal sopporta, ma il tutto è molto vago, e più raccontato a parole che mostrato con le azioni del personaggio.
Nel prosieguo poi è anche peggio.
Vediamo Rhett che quasi non riesce a trattenere le lacrime di fronte ai giovani che alle Dodici Quercie inneggiano alla guerra. E questa storia delle lacrime trattenute a stento si ripete nel corso del romanzo. Insomma, voi ce lo vedete Rhett sempre sul punto di piangere? Io proprio no.
Il romanzo sarebbe stato una buona occasione anche per svelarci cosa accadde davvero a Charleston nell'infanzia e nella giovinezza di Rhett, perchè fu espulso da West Point e come sopravisse dopo la messa al bando della famiglia e della buona società; invece quando Rhett lascia Charleston, dobbiamo accontentarci di accenni vaghi e indistinti alle vicende che lo riguardano. Eppure sarebbero stato interessante leggere delle avventure di Rhett giocatore, contrabbandiere e fuorilegge. Soprattutto sarebbe stato un terreno meno pericoloso su cui avventurarsi, ma McCaig sceglie deliberatamente di ignorarlo.
La storia infatti non "segue" mai Rhett nelle avventure da lui vissute, e quello che ci viene raccontato mentre è via sono vicende tutt'altro che entusiasmanti o appassionanti, che riguardano personaggi tutto sommato secondari, di cui a me importava poco o niente, a parte forse la sorella di Rhett, Rosemary, la cui storia però mal si raccorda -tanto per cambiare - con quel poco che di lei sappiamo da VcV.

Quando Rhett non è in scena, ampi capitoli vengono dedicati a  Belle Watling, la quale, caduta in digrazia per essere rimasta incinta, vive di elemosina a New Orleans.
Lì Rhett la incontra dopo anni e decide di aiutarla...e come? Ma naturalmente avviandola sulla strada della prostituzione. Quando si dice avere un amico...
Bella è un personaggio insulso in questo romanzo: fa la maglia mentre aspetta il ritorno di Rhett, si mette in testa di diventare rispettabile e si fa aiutare da Melania che la porta in giro tra sarti e parrucchieri per migliorare la sua immagine.
Ora, tralasciando per un momento il fatto che in VcV non si accenna mai al desiderio di Belle di smettere con la sua attività, non ci sarebbe nulla di male nell'idea che Belle, innamorata di Rhett, tenti di cambiare vita; ma è logicamente possibile che la prostituta più famosa di Atlanta possa farlo semplicemente cambiando vestito e pettinatura? Restando nella medesima città dove la conoscono tutti (anche le signore, che morirebbero piuttosto che ammettere di sapere chi è lei, ma la conoscono benissimo)?

La furia revisionista di McCaig non risparmia neanche Melania, la quale, in una lettera a Rosemary, non solo parla tranquillamente di sesso, ma confessa di sapere che Ashely ama, ricambiato, Rossella, e che soltanto la sua vigilanza costante ha evitato il consumarsi del tradimento.
Il che distrugge completamente Melania come la Mitchell l'ha creata. Non stupida - come cinicamente afferma Rossella ad un certo punto - ma buona - come le fa notare Rhett - perchè incapace di concepire il male in coloro che ama.
Povera Melania. Almeno muore prima di vedere Ashely che si trasforma in un giardiniere, (sì, dopo la morte di Melania Ashely va a curare le rose alle Dodici Quercie...) e che parcheggia il figlio a Tara, disinteressandosi di lui.

Ma la cosa peggiore, il "peccato" che non potrò mai perdonare a McCaig, è il finale.
Innanzitutto, è un finale sciocco. SPOILER! Selezionare col mouse per leggere.
Il padre di Belle Watling vuole vendicarsi di Rhett, che continua a ritenere responsabile della gravidanza della figlia (nonostante, prima di morire, il vero padre del figlio di Belle lo abbia riconosciuto). Una volta morta la madre di Rhett, che Watling stimava, l'uomo sente di aver campo libero contro Rhett; ma anzichè agire subito, decide di aspettare che Rhett lasci il paese in seguito alla rottura definitiva con Rossella. Allora imbastisce, con l'aiuto di Archie, l'ex galeotto che Melania ospitava, un complicato e lungo piano di attentati - furti, incendi, intimidazioni - a Tara sperando che Rossella richiami Rhett in patria.  Cosa che puntualmente avviene.
E allora, invece che piantare una pallottola in testa a Rhett,Watling incendia Tara e poi tenta di piantare una pallottola in testa a Rhett. Ma nella concitazione del momento, uccide Belle, che era ospite a Tara - vi prego, non fate domande - e nel frattempo nessuno pensa di spegnere l'incendio. Tara viene distrutta e Rossella liquida la cosa con un'alzata di spalle (forse, dice,  ricostruirò Tara, forse no, ecco il peccato che non potrò mai perdonare) perchè Rhett la ama.
A proposito, ma perchè Rhett ha cambiato idea e ha scoperto, a distanza di pochi mesi dalla traumatica separazione, di amare ancora Rossella?
Perchè sì. E non fate domande.
FINE SPOILER.
Ed oltretutto, è un finale incoerente e frettoloso, un infantile contentino e non la chiusura di un solido arco narrativo, che risponde alla domanda che a tutti noi preme (ovvero: Rhett e Rossella torneranno insieme?), ma senza una adeguata e solida motivazione, e pertanto, non può che lasciare con l'amaro in bocca.

sabato 28 novembre 2009

Il simbolo perduto...

...di Dan Brown.

Sono una lettrice che può vantarsi di aver letto tutti i romanzi di Dan Brown, e di averli trovati anche piacevoli (Angeli e Demoni più del Codice da Vinci).
(non so se vantarsi sia la parola giusta, ma vabbè! XD)
Ho anche massacr...ehm, recensito Crypto in questo post, ma non sono stata troppo cattiva.
Con Il simbolo perduto dovrò necessariamente essere un po' più dura.

Il protagonista di Il simbolo perduto è Robert Langdon, il professore di simbologia e un'altra decina di materie occulte, misteriose e complicate, il quale, una domenica mattina, viene attirato a Washington con l'inganno: uno psicopatico, spacciandosi per assistente di Peter Solomon, massone di rango elevato nonchè suo amico e mentore, lo invita a prendere parte ad una conferenza in Campidoglio.
Una volta giunto sul posto, Langdon si ritrova davanti la mano mozzata di Peter.
Sui polpastrelli sono tatuati simboli che richiamano i misteri massonici, e lo psicopatico chiede a Langdon di svelargli il segreto che lo condurrà a trovare il mistico tesoro di conoscenza che la massoneria tiene celato. Sotto tortura, Solomon ha rivelato che solo Langdon può condurlo a ritrovare quella conoscenza perduta.
Scatta così la solita corsa contro il tempo per Langdon, già vista nei due precedenti romanzi che lo vedono protagonista.
Il lettore sorvola sul senso di dejavu perchè pregusta un romanzo dal ritmo incalzante, che faccia restare col fiato sospeso.
Purtroppo è proprio qui che il romanzo delude maggiormente.

Tanto per cominciare, non c'è capitolo che non inizi con la sua brava descrizione turistica di Washington, che sembra tratta pari pari da un guida oppure da Wikipedia. Queste descrizioni sono inutili nel 90% dei casi, e anche laddove potrebbero risultare utili alla miglior comprensione della trama, sono comunque avulse dal contesto, non amalgamate con il resto, spezzano il ritmo tanto da risultare moleste.
Questo dovrebbe essere un romanzo da tenerti col fiato sospeso ma non è che uno si mangia le unghie dalla paura mentre legge Il Campidoglio fu costruito nel...su un progetto di... ed è alto... 
A me è capitato di saltarle a piè pari per andare a leggere cosa stava capitando ai protagonisti.

Come se ciò non bastasse, la trama viene continuamente interrotta nel suo svolgimento da flashback incredibilemte prolissi, la maggior parte dei quali completamente inutili.
Risultato: suspence ridotta a zero.
Addiruittura ad un certo punto si sfiora l'assurdo, con un flashback di un Natale di dieci anni prima, al cui interno si trova un altro flashback! Roba che nemmeno Lost aveva mai osato!
Si ha sempre la sensazione che l'autore si sia dimenticato di dirci qualcosa di vitale importanza, e rimedi come può.

Ad un tratto, comunque, anche Dan Brown deve essersi accorto che la suspence era in coma, perciò ricorre ad un massiccio uso di trucchetti da quattro soldi per accrescere il Senso di Mistero. Anzi, il trucchetto è sempre lo stesso, ovvero far leggere/vedere/intuire qualcosa ad un personaggio senza dirci cosa il personaggio effettivamente legge/vede/intuisce, e rimandare la rivelazione a decine e decine di pagine dopo.
Una volta passi. Due vabbè. Tre diventa irritante. Quattro, viene voglia di tirare il libro contro il muro.
Questo non è creare suspence, è creare frustrazione nel lettore!
Anche perchè quel che è peggio è che questo trucco viene usato anche con particolari che non c'è alcun bisogno di tenere poi così segreti.
Ad esempio, Katherine, la sorella di Peter, ha un laboratorio sotterraneo segreto nell'edificio che ospita lo Smithsonian Museum, in cui conduce esperimenti importantissimi e segretissimi, a cui si accede attraverso uno spazio (sotterraneo anch'esso) di 3.000 metri quadri completamente immerso nel buio. C'è un solo modo per non perdersi in quell'oscurità sterminata, ma naturalmente dobbiamo penare un centinaio di pagine prima di apprenderlo. Detto tra noi, il sistema infallibile è un sentiero di moquette che conduce al laboratorio, mentre il resto del pavimento è in cemento.
Se per caso state pensando che un immensa stanza buia, senza alcun sistema di illuminazione di emergenza non si rivelerà un buon affare quando l'emergenza si verificherà (e state certi che si verificherà!), beh, complimenti: siete delle persone dotate di normale buon senso.
Se poi a questo aggiungete che il laboratorio segretissimo e misteriosissimo immerso nell'oscurità ha, all'ingresso principale, sistemi di sicurezza e sorveglianza altamente tecnologici, e sul retro invece una saracinesca per il carico e scarico merci che chiunque può aprire...beh, avete un quadro completo della situazione, e di quanto il buon senso sia merce rara, oggi giorno.

Altro esempio, Langdon, nel partire per Washington, ha portato con sè un oggetto che Peter gli ha chiesto di custodire, e tanto fa su richiesta telefonica dello psicopatico/finto assitente del suo mentore.
Naturalmente sarebbe stato troppo sperare che questo piccolo dettaglio ci venisse svelato al momento della partenza di Langdon; invece ci viene rivelato soltanto un centinaio di pagine dopo, quando la mano mozzata è stata ritrovata, lo psicopatico minaccia Langdon per telefono e la CIA è giunta sul posto per occuparsi del caso; solo allora, casualmente, al professore viene in mente che il finto assistente di Solomon gli aveva chiesto di portare quel particolare oggetto con sè; e solo allora la sua mente viene sfiorata dal dubbio che forse quell'oggetto c'entri qualcosa con questa vicenda. Come possa aver dimenticato che lo psicopatico gli abbia chiesto quell'oggetto, e come possa non aver intuito immediatamente che deve essere collegato al rapimento, rimane un mistero.

In effetti, l'enigma più grande del romanzo è: cosa è successo a Roberto Langdon?
Perchè il nostro professore, per buona parte del romanzo, non fa che comportarsi come uno sciocco.
Liquida le richieste dello psicopatico come sciocche superstizioni, rifiuta di cercare nessi tra i simboli sulla mano e le leggende massoniche...perchè tanto sono leggende; si rifiuta di decifrare i simboli sull'oggetto che custodisce perchè teme di violare la privacy di Peter.  -.-'
Intendiamoci, Langdon è liberissimo di essere scettico (anche se questo scetticismo, per uno che è stato fidanzato con la pronipote di Gesù è quanto meno fuori luogo), e al limite potrebbe anche rifiutarsi di collaborare con uno psicopatico. La cosa che risulta molesta è che lui vuole aiutare Peter, vuole collaborare con il pazzo, ma invece di cercare di capire come assecondarlo, chiude il cervello, manda le sinapsi in ferie e si rifiuta di usare tutta una serie di conoscenze perchè tanto sono solo leggende! Ma se lo psicopatico crede in quelle leggende, e lui vuole assecondarlo per salvare Peter, perchè mai continua a ripetere che sono solo leggende?
Stupendo il punto, verso pag. 162, quando Langdon bolla come mito l'ipotesi che ci sia una piramide sotterranea nascosta da qualche parte a Washington perchè "non è facile nascondere una piramide"! Detto da uno che ne ha trovata una sotto il Louvre fa un po' ridere!

Comunque, a dare manforte a Langdon, arriva ben presto addirittura la CIA, nella persona del Direttore della Sicurezza Inuoe Sato, la quale informa Langdon che deve assolutamente collaborare con il pazzo perchè in ballo c'è molto di più della vita di Solomon: in pericolo c'è addirittura la sicurezza nazionale.
Inuoe Sato è uno dei co-protagonisti più furbi che io abbia mai avuto occasione di leggere.
La CIA teneva sotto controllo il telefonino di Solomon, che è utilizzato dallo psicopatico, fin dal momento del rapimento e nonostante ciò, la CIA (dico la CIA, non l'associazione bocciofila di Rocca di Sotto) non riesce MAI a individuare la fonte del segnale. Sato si giustifica dicendo che il segnale è sparito prima che lo potessero intercettare. Peccato che lo psicopatico abbia fatto telefonate senza sosta per tutta la giornata! Credo ne abbia approfittato anche per fare gli auguri di Natale ad amici e parenti...

Non stupisce più di tanto quindi che Sato sia subito insospettita dalla competenza di Langdon nel decifrare i simboli sui polpastrelli della mano mozzata (e certo: è davvero un mistero come mai un professore di simbologia si intenda di simboli...) e in un crescendo di sospetti e mezze verità, tenterà anche di arrestare Langdon, che riceverà un aiuto provvidenziale e riuscirà a fuggire.
Raggiunto da Katherine, che lo psicopatico vuole far fuori a causa delle sue ricerche segretissime, i due cercano di risolvere gli enigmi che via via gli si propongono per indicare al rapitore dove si trova la mistica conoscenza che cerca, e salvare così Peter.
Anche qui il romanzo non ci offre niente di nuovo; addirittura alcuni enigmi ricalcano schemi già usati in Angeli e Demoni, come ad esempio la scritta misteriosa che non significa nulla fino a che non la giri sottosopra - peccato che tre secondi dopo aver visto la scritta io avevo capito che andava capovolta, mentre l'esimio professor Robert Langdon no.
Ma in ogni caso, specie quando tirano in ballo opere d'arte realmente esistenti, queste scene sono le più avvincenti del romanzo. E questo la dice lunga sulla godibilità del resto del romanzo.
Il libro si dipana quindi come una lunga caccia al tesoro per le vie di Washington, non diversamente da quanto già visto in Il codice da Vinci e Angeli e Demoni.
Quello che manca qui è purtroppo il ritmo incalzante che aveva caratterizzato i due romanzi citati.
Si arriva così di tappa in tappa verso il finale.
Il colpo di scena conclusivo riguarda l'identità del cattivo, ed io l'ho trovato assurdamente ridicolo, degno di una scadente soap opera.
SPOILER Il cattivo, che viene visto bene in faccia da Peter e poi anche da sua sorella Katherine, è in realtà il figlio di Peter morto in una prigione turca 16 anni prima, all'età di 21 anni...cioè, è il figlio di Peter fintosi morto. Inutile precisare che nessuno lo riconosce, anche se si è limitato a rasarsi la testa e le sopracciglia, tatuarsi una fenice sul petto e ad andare in palestra per pompare i muscoli. Fine SPOILER
Questa è la trovata più assurda del romanzo, ma sparse qua e la per la trama ci sono soluzioni e spiegazioni poco credibili o addirittura inverosimili.
Ho già citato la CIA che non riesce a intercettare un telefonino usato continuamente durante la giornata (in un momento di lucidità Langdon a distrugge il suo di telefonino per non farsi rintracciare); a ciò posso aggiungere le guardie della sicurezza allo Smithsonian Museum che si fanno passare sotto il naso lo psicopatico perchè occupate a parlare a telefono; o lo psicoaptico stesso che depone la mano mozzato al centro del Campidoglio ed è giustamente ripreso dalla telecamere mentre lo fa; mentre non è ripreso dal sistema di videosorveglianza quando si cambia d'abito, si infila una parrucca e se ne va indisturbato (a proposito, al Campidoglio le telecamere di sicurezza hanno l'audio...mai sentita una cosa simile ma potrei essere ignorante in materia...).
Il finale ve l'ho già descritto. Anche la storia alla base della rivelazione finale non sta in piedi, non è verosimile ed è appiccicata al personaggio con lo scotch. Infatti SPOILER il figlio creduto morto di Solomon dice di essere riuscito a fuggire da una prigione turca corrompendo il direttore, e chiedendogli di restituire alla famiglia un cadavere irriconoscibile. Nel caso ve lo steste chiedendo, no, a nessuno è venuto in mente di fare un'impronta dentaria per sicurezza. Infine, ci viene narrata una complicatissima storia di conti cifrati, di trasferimento di milioni di dollari, dell'omicidio del direttore del carcere e della fuga, il tutto organizzato dal figlio di Solomon, mentre è ancora detenuto e senza alcun sostegno esterno. Vabbè. FINE SPOILER
 A dire il vero, l'avevo capito da tempo che il finale non è il pezzo forte di Dan Brown. Qui però l'autore è riuscito a scendere un altro gradino: non solo, come detto, il sorpresone finale non sta in piedi, ma dopo la conclusione delle vicende, il romanzo continua per un altro centinaio di pagine, sproloquiando di misticismo, di veri segreti nascosti a Washington, di religione, filosofia, eccetera, senza far capire esattamente al lettore dove vuole andare a parare.
Sarebbe stato molto, molto meglio chiudere il romanzo a pag. 500 o giù di lì.
Effettivamente, qualche taglio avrebbe giovato al romanzo nel suo complesso, che è davvero prolisso, ricco di particolari di cui ci interessa poco o nulla, mentre altre cose che andavano chiarite restano nell'ombra.
Per esempio, perchè lo psicopatico vuole distruggere il laboratorio di Katherine e i risultati delle sue ricerche? Un paio di volte si accenna a conoscenze pericolose o indegne di finire nella mani del volgo, ma non mi risulta ci sia un nesso tra quello che lo psicopatico cerca e le ricerche di Katherine.
La sorella di Peter studia le scienze noetiche, definite come una sorta di anello di congiunzione fra la scienza moderna e il misticismo degli antichi.
Detto così, sembra che almeno in teoria il nesso esiste; ma in pratica...in pratica no. Katherine è una che si occupa di far gelare l'acqua inviando pensieri amorevoli al liquido perchè geli meglio...davvero, non scherzo.
Cosa voglia da lei di preciso lo psicopatico, di cosa avesse tanta paura per rischiare la vita e la sua copertura facendo saltare in aria il laboratorio, non lo sappiamo.
A volte sembra che l'uomo voglia preservare alcune conoscenze pericolose se divulgate, e che quindi sia, a modo suo, preoccupato per il futuro del mondo; altre volte - specie nel finale - invece l'uomo non fa altro che cercare di accrescere il proprio potere personale. Ho chiuso il libro con la sensazione che nemmeno lui sapesse bene cosa stava cercando di fare.
A dire il vero non sappiamo nemmeno di preciso cosa volesse ottenere con quell'enorme messa in scena della mano e del rapimento...visto che sembra avere accesso a risorse illimitate, e visto che sembra essere più furbo di qualunque persona lo circondi (non che ci voglia molto, eh), perchè dopo aver ottenuto da Peter il nome di Roberto Langdon, non lo ha semplicemente rapito e costretto a collaborare, invece di lasciarlo libero di scorrazzare per tutta Washington?
Perchè ha effettuato una minaccia alla sicurezza nazionale non strettamente necessaria alla realizzazione del suo piano, attirandosi così le attenzione della CIA?

Per concludere, la storia avrebbe anche potuto essere intrigante, se soltanto fosse stata curata di più nei dettagli; se l'autore non avesse cercato, barando, di soprendere il lettore a tutti i costi; se le fosse stato impresso un ritmo più incalzante.
Avrebbe giovato al romanzo un uso più parsimonioso dei flashback e anche qualche taglio in più, soprattutto nella parte iniziale e in quella finale.

Consigliato esclusivamente a coloro che non possono vivere senza Dan Brown e che leggerebbero anche la sua lista della spesa.
Gli altri farebbero bene ad evitarlo.

martedì 24 novembre 2009

31 Ottobre...

...di Glauco Silvestri.

Oggi ho deciso di scrivere una recensione un po' diversa, o meglio, su qualcosa di diverso.
Infatti il titolo di cui intendo parlare è un e-book di un autore emergente, Glauco Silvestri, che si può leggere gratuitamente sul suo sito insieme ad altri libri.
Potete trovare 31 Ottobre e altri ebook gratuiti qui .
Magari potete leggerlo e poi tornare a dare un'occhiata alla recensione.

Si fa un gran parlare del fatto che i libri costano troppo; eppure negli ultimi mesi, girovagando sul web, e appassionandomi sempre di più ai temi della narrativa italiana, degli scrittori emergenti e di come migliorare la propria abilità di scrittori mi sono spessa imbattuta in giovani autori che mettono a disposizione i loro lavori gratuitamente. Mi sembra quindi giusto e doveroso non solo leggere queste opere, ma anche dar loro, nel mio piccolo, un po' di visibilità.

Fatta questa premessa, iniziamo a parlare di 31 ottobre.
Si tratta di un racconto lungo, che, come si può facilmente intuire dal titolo, si svolge durante la giornata di Halloween. Protagonisti sono Alessandro Volpi, tenente dei Carabinieri di stanza a Bologna, e Marcella Putìn, della Scientifica. La mattina del 31 ottobre sono chiamati ad indagare su un efferato omicidio. Una ragazza è stata uccisa da qualcuno che le ha aperto il corpo con una lama affilata, dal seno all'inguine. Sulla scena del delitto si trova un misterioso gatto nero che rifiuta di allontanarsi.
Quando gli omicidi cominciano a moltiplicarsi nello spazio di poche ore, i due capiscono che hanno a che fare con uno psicopatico e cominciano una corsa contro il tempo. Ma qualcosa di misterioso e soprannaturale aleggia nell'aria...

Scrivere un racconto che abbia come tema Halloween può non essere facile. Si rischia di non far altro che richiamare tutta una serie di figure stereotipate e di cadere nel "già visto".
Diciamo subito che Glauco Silvestri evita questo pericolo. Sebbene richiami nel suo racconto gli elementi horror tipici di Halloween, non diventa mai banale, questo anche grazie alla scelta di giocare, fino alla fine, con il lettore, facendo in modo che si chieda in continuazione: siamo di fronte a un serial killer, oppure a delitti di origine soprannaturale?
Interessante poi la decisione di ancorare gli spunti soprannaturali alla concretezza di una città, Bologna, descritta nella sua quotidianità.

Passiamo ad esaminare i personaggi.
Il tenente Volpi è un bel personaggio. Solido, credibile e con delle potenzialità, secondo me.
Ho trovato un po' forzato invece il personaggio di Marcella, descritta da un lato come una scienziata, che però dall'altro non esita a sposare la tesi degli omicidi soprannaturali con molta disinvoltura, snocciolando una serie di conoscenze approfondite sui miti celtici che sarebbe difficile procurarsi nello spazio di poche ore.
Mi è sembrato forzato anche il legame che immediatamente sembra istaurarsi tra i due.
I personaggi secondari, trattandosi di un racconto e non di un romanzo, naturalmente non possono essere approfonditi più di tanto, però in una occasione ho trovato esagerata la reazione di due "comparse".
Si tratta di due ragazze a cui viene detto che la loro coinquilina è stata brutalmente uccisa. Raccontano della festa dove l'hanno vista l'ultima volta:

«[...] Era una vera palla. A mezzanotte siamo uscite e siamo tornate a casa. Lei è rimasta. C’era uno che l’aveva inchiodata e non la mollava più».
«Com’era?».
«In che senso?».
«Alto. Capelli neri. Non l’avevo mai visto in facoltà. Aveva un bel sorriso».
«Aveva un bel culo, altro che sorriso. Due belle chiappette sode. Doveva vederlo. Un vero fico. Se avesse inchiodato me sarei rimasta lì tutta la notte».
«Te lo saresti pure fatto. Lo so».
«Cosa sei, gelosa?».

Ragazze, un po' contegno! La vostra coinquilina (per quanto non vi fosse simpatica) è appena stata squartata da un maniaco!

Ecco, se da un lato alcune reazioni sono forzate o superficiali, in altre situazioni l'approfondimento a tutti i costi nuoce al ritmo della storia.
Siamo di fornte a un racconto lungo, non un romanzo; mi aspetto che la vicenda prosegua in maniera rapida. Perciò ho trovato fastidiose le inserzioni dei pensieri vaganti delle vittime prima che incontrassero il loro destino. Non sto parlando di quello che pensavano mentre morivano, o della paura che provavano nel vedere il loro assassino, ma sto parlando proprio di pensieri sparsi, banali, quotidiani che avrebbero lo scopo di farci "familiarizzare" con la vittima ma che a me sono risultate moleste in quanto rallentavano senza motivo l'azione.
Faccio un esempio (o magari due).

Una giovane donna va a buttare l'immondizia. Vicino ai bidoni incontra il suo assassino:

Aveva un coltello, un grosso coltello, molto simile a quello che suo padre usava quando andava a caccia. Li aveva visti, lei, in quel negozio vicino al Palazzo dello Sport. Quello dove vendevano anche le balestre e gli archi. Lo sapeva perché Massimo, un ragazzo che aveva visto un paio di volte, l’aveva portata lì quando aveva deciso di comprarsi un nuovo arco da caccia.

Insomma, la ragazza ha davanti un tizio con un coltello, non mi interessa dove ha già visto quel tipo di arma, se in quel negozio posso trovare ottimi archi e balestre e che questo Massimo va a caccia con l'arco! Voglio sapere che cosa le accadrà!

Ancora, Volpi interroga una ragazza che è sopravvissuta ad un'aggressioni che aveva le stesse caratteristiche degli omicidi. Racconta la sua storia in questi termini:

L’anno scorso. Era stata aggredita da un clochard. L’aveva chiamato così, in francese. Un senza-tetto. Era stato a Halloween, se lo ricordava bene. Era uscita dal lavoro presto. All’epoca faceva la cameriera al Victoria Station per coprire le spese dell’università. Ricordava quello che era successo come se fosse stato ieri. Aveva salutato tutti, al pub, prima di uscire. Non faceva freddo, si era messo il giubbotto di jeans e se l’era filata prima che qualcuno le chiedesse di servire un ultimo tavolo. Il giorno dopo avrebbe dovuto dare l’ultimo esame. Era arrivata in fondo, sempre con voti alti, ci aveva messo l’anima per finire entro dicembre. Poi avrebbe potuto dedicarsi completamente alla tesi. Un lavoro complesso. L’impronta architettonica negli ambienti futuristici disegnati nei fumetti di fantascienza. Per quella tesi aveva dovuto distruggere la collezione di Nathan Never del suo ragazzo. Portare su computer le strisce di quel fumetto, senza danneggiare gli albi, non era praticamente possibile. Eppure, non poteva evitarlo. Nathan Never era uno dei massimi rappresentanti della fantascienza italiana a fumetti e le sue ambientazioni avevano qualcosa di realistico, per quanto fossero state pensate da disegnatori che, di architettura, potevano conoscere veramente poco. Di Nathan lei amava la struttura verticale delle città. Diversi livelli, costruiti l’uno sopra all’altro, come nelle città alveari della saga dei Robot di Asimov. Ogni livello era caratterizzato dal ceto sociale che ci viveva. Ovviamente i piani alti, quelli che potevano respirare l’aria pulita e vedere il cielo, appartenevano all’alta borghesia, mentre quelli più bassi appartenevano ai ceti meno abbienti. Una struttura verticale che ricordava anche la piramide di potere che funzionava nel Medioevo. Vassalli, valvassori, valvassini e così via, fino a scendere ai servi della gleba. Con l’unica differenza che, nel futuro, il lavoro svolto dai servi della glebaPer cui, in quel mondo immaginario, i ceti meno abbienti erano in pratica una sorta di peso per la società, un cumulo di bocche da sfamare incapaci di produrre un qualcosa di utile per il resto del mondo. Fin lì era arrivata con la sua analisi del futuro o, almeno, di quello che le menti proiettate verso il futuro vedevano come possibile svolta della nostra società. Aveva ancora molto da fare, lei. C’erano ancora molte cose da dire e, in più, doveva ancora fare un’analisi dettagliata delle tecniche architettoniche utilizzate per rappresentare queste città futuristiche.

La parte che ho evidenziato in rosso mi pare francamente di troppo! Qual è la sua funzione? Non credo ci sia bisogno di giustificare il fatto che la ragazza ricordi perfettamente il giorno dell'aggressione!
Potrei citare almeno un altro paio di casi, come ad esempio la presentazione al lettore di quelle che diverranno le ultime due vittime, che a parer mio è tirata troppo per le lunghe.

Ho notato anche una certa tendenza ad inserire informazioni necessarie al lettore in maniera un po' prolissa e con uno stacco a volte brusco dalla narrazione.
Esempio: Marcella e Alessandro parlano della possibilità che il serial killer stia seguendo un rituale celtico.
E qui parte una lunga spiegazione, che parte dai Celti fino ad arrivare a Napoleone. Un po' più di sintesi non avrebbe guastato, secondo me.

Nel suo complesso comunque il ritmo rimane buono e la vicenda interessante.
La soluzione finale mi ha lasciato un po' perplessa. Come detto, l'autore gioca con dubbio, lasciando aperte fino alla fine le due possibilità (serial killer o delitti soprannaturali). Quando la soluzione viene svelata però non riesce a chiarire ogni dubbio e spiegare ogni particolare relativo agli omicidi (specialmente il secondo, quello avvenuto sull'autubus). Ambiguità voluta? Sinceramente a me non è sembrato.

Il racconto resta comunque una lettura piacevole, scritta con uno stile discorsivo, scorrevole e coinvolgente.

venerdì 20 novembre 2009

La chiave dell'alchimista...

... di Cristina Brambilla.

Ultimamente ho parlato quasi sempre di libri che non mi erano piaciuti.
Oggi, per una volta, vorrei recensire un libro che merita la sufficienza.

La chiave dell'Alchimista è un romanzo breve (circa 200 pagine scritte in caratteri molto grandi) di genere fantastico, il cui target sono i bambini/ragazzi (diciamo 10-14 anni, secondo me). Questo non vuol dire che un adulto non possa apprezzarlo.
Si è rivelato, infatti, una lettura piacevole e scorrevole anche per me.

Protagonista è Lucilla, una ragazzina di 13 anni, il cui padre decide improvvisamente di trasferirsi a Venezia.
Qui, l'uomo scomparirà misteriosamente, e Lucilla conoscerà una creatura fantastica, una gargoyle che le svelerà molti segreti riguardanti suo padre, che non è esattamente quello che sembra. Lucilla scoprirà che la magia e l'alchimia sono vere e reali, e giocheranno un ruolo determinante nella vicenda in cui si trova, suo malgrado, coinvolta.

La narrazione è svolta in parte in terza persona, dal punto di vista di Lucilla, in parte in prima persona, dal punto di vista della gargoyle (e sono le parti più godibili, secondo me). Scelta interessante, ma il cambio di punto di vista tra la ragazzina e la creatura a volte è così brusco da risultare fastidioso per il lettore.

Lo stile della Brambilla è semplice, ma non sciatto (anche se incredibilmente per ben due volte nel libro viene affermato che Nabucodonosor  deportò gli Ebrei a Babele, anzichè a Babilonia, e per bocca di personaggi che, vista la loro cultura, dovrebbero sapere queste cose - vedi nota 1).

La trama è semplice e lineare e non ha grossi scossoni: Lucilla deve infatti dipanare i fili di una matassa che non è esattamente ingarbugliatissima. Alcuni accadimenti possono essere indovinati facilmente, (ad esempio io avevo indovinato a pag. 10 il mistero misterioso che riguarda i vicini ebrei di Lucilla), ma il succedersi degli eventi ha comunque un suo ritmo e un suo perchè. La storia ha logica e coerenza (pur non essendo esente da un paio di ingenuità di cui dirò in seguito), ed anche qualche spunto interessante (ad esempio, l'apparizione nella soffitta della casa di Lucilla, la cui identità verrà svelata nel finale, che ci regala anche una piccola sorpresa).

Compare nel libro anche qualche nozione di alchimia spicciola, per così dire. Mi rendo conto che questo argomento non viene assolutamente approfondito o trattato in maniera esaustiva come potrebbero fare altri libri fantasy diretti ad un pubblico più maturo, e ciò potrebbe deludere il lettore adulto, ma aggiungo comunque questi elementi danno un po' di "pepe" al racconto.

Il finale non è niente male, anzi, mi ha piacevolmente colpito. C'è qualche concessione all'horror, che sebbene non mi abbia spaventato, di sicuro può dare qualche brivido ai più giovani. E soprattutto, il finale di questo romanzo ha il coraggio non essere buonista a tutti i costi e di non essere per forza lieto.

I personaggi sono credibili, anche se non tratteggiati molto profondamente. Il padre di Lucilla è poco più di una comparsa nel romanzo, ma è circondato da un alone di ambiguità (non so se voluto o meno, a dire il vero) che aggiunge un che di originale al romanzo. Insomma, non è proprio il classico padre amorevole, e questa scelta non lo appiattisce, anzi.
Lucilla è una ragazzina sveglia, tormentata dal ricordo della madre che giace in coma in un letto d'ospedale; è sola, introversa e un tantino cinica.
La gargoyle, scontrosa, egoista ma capace di evolversi nel corso della storia, è diventata il mio mito dopo aver soprannominato Lucilla Astutilla; aggiunge un tocco di ironia alla storia che non guasta.

Dicevo più su che ci sono alcune ingenuità nella trama.
Ad esempio, ad un certo punto Lucilla ha bisogno di qualcuno che si introduca in un appartamento per rubare una certa cosa di cui ha bisogno per svelare il mistero. La scelta cade su Dimitri, un ragazzino che borseggia i turisti e che Lucilla ha notato il giorno del suo arrivo a Venezia.
La ragazza lo contatta e mentre discutono di quel che andrebbe fatto, Lucilla - la ragazzina scontrosa, tormentata, cinica, etc. - improvvisamente cambia davanti agli occhi del lettore; pensa a quel cassetto strapieno di bigliettini di San Valentino che i ragazzi le mandano sempre perchè stravedono per lei (cosa mai citata prima nel romanzo, anzi, dalle descrizioni, sembra che Lucilla sia una ragazzina molto sola); comincia non a parlare, ma proprio a pensare usando il gergo dei suoi coetanei (anche qui, cosa che non ha mai fatto prima) e quasi quasi fa la svenevole con Dimitri.
Ecco, ci può anche stare che Lucilla si comporti diversamente davanti a un suo coetaneo maschio, ma quello che ho trovato stonato è che in quella scena del primo dialogo fra i due, non è il comportamento di Lucilla che cambia, ma proprio il suo modo di pensare e di vedere. Per un momento  - per la durata di quella discussione - sembra un personaggio diverso, incoerente con quanto descrittoci fino a lì.
Fortunatamente questo straniamento dura solo qualche pagina.

Altra piccola nota stonata, l'antagonista di Lucilla (non vi svelerò chi è, naturalmente): diciamo che le sue motivazioni sono interessanti, ma il suo piano d'azione non è proprio a prova di bomba.
E' anche vero che messi sotto la lente d'ingrandimento, molti astutissimi piani dei cattivi dei romanzi non reggerebbero: io sono ancora qui a chiedermi perchè, ne Il calice di fuoco, Voldemort, una volta piazzato un suo uomo all'interno di Howgarts, non gli abbia semplicemente ordinato di attirare Harry fuori dalla scuola e fargli toccare una maledetta passaporta, invece di imbastire quel macchinoso piano che coinvolgeva il Torneo TreMaghi. Vabbè.

E per concludere, il finale, pur nella sua complessiva validità, avrebbe meritato, a parer mio, un po' più di spazio.

In ogni caso, questi appunti negativi non sono così gravi da rovinare la lettura del libro, che resta interessante, piacevole e divertente. Se decidete di leggerlo, ricordate che è molto evidente che il target di questo romanzo sono i giovanissimi. Certo, anche Harry Potter era diretto a un pubblico di adolescenti, eppure nella lettura raramente me ne rendevo conto.
Qui non è così; ed è bene che sia chiaro che c'è una bella differenza fra una lettura piacevole e una che lascia il segno. Secondo il mio metro di valutazione, i vari Harry Potter appartengono alla seconda categoria, La chiave dell'alchimista alla prima.


Nota 1: Per la cronaca, la mitica Torre di Babele, secondo gli archeologi, può essere fatta coincidere con la ziqqurat costruita dal sovrano babilonese Nabucodonosor I, della seconda dinastia Isin, che regnò dal 1127 a.C. al 1105 a. C. circa, mentre la deportazione degli Ebrei dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (cui si accenna nel libro) fu opera di Nabucodonosor II, che regnò dal 604 al 562 a.C.

venerdì 13 novembre 2009

Un anello da Tiffany...

...di Lauren Weisberger.

Tre amiche trentenni, ognuna con una situazione sentimentale diversa ma sicuramente non facile, stringono un patto tra loro: nel giro di un anno, proveranno a cambiare radicalmente la loro vita.
Adriana, bellissima brasiliana che passa da un uomo a un altro senza rimorsi, dovrà trovare un marito o una relazione stabile; Emmy, appena mollata dal fidanzato fedigrafo, si rifarà vivendo un'avventura dopo l'altra; e Leigh...già, cosa farà la nevrotica ma seria, pacata, metodica Leigh, che vive con fidanzato bellissimo e innamoratissimo? Leigh ancora non lo sa, ma troverà anche lei il modo di migliorare la sua vita e partecipare al patto.

Lauren Weiberger è l'autrice di Il diavolo veste Prada e Al diavolo piace dolce.
Tralascio ogni commento su quest'ultima traduzione, che ha il solo scopo di comunicare al lettore medio che sì, questo libro è di quell'autrice lì che ha scritto quell'altro libro là da cui poi hanno fatto un film con quell'attrice famosa lì, cosa...come si chiama?
Ecco, più o meno è così che le case editrici immaginano il lettore medio e i suoi pensieri.
Ma poi, cos'è che al diavolo piace dolce? Evito di rispondere alla mia domanda perchè questo è un blog per famiglie!

Vorrei soffermarmi su i primi due romanzi della Wisberger. Due piccole perle: se non li avete letti, ve li consiglio.
Definirli chick-lit è riduttivo, dove per chick-lit si intenda narrativa d'evasione senza alcuna pretesa.
Specie Il diavolo veste Prada è sì divertente, ma è soprattutto realistico, profondo, amaro.
Meno amaro il secondo romanzo, ma comunque anch'esso non è superficiale.
L'ironia è graffiante, a volte anche cattiva, in entrambi i lavori.
Quindi, forte di questi due ottimi precedenti, lo scorso Natale ho regalato a mia sorella Olimpia il terzo lavoro della Weisberger: Un anello da Tiffany.
A dire il vero ero indecisa se comprarle Il gioco dell'angelo oppure questo, e sinceramente non saprei dire se le sia andata meglio o no.

Certo, Un anello da Tiffany non raggiunge la sconfinata approssimazione del romanzo di Zafon, ma non è un bel libro.
E' piatto e scontanto.
Abbiamo tre amiche trentenni. Puzza di già visto, già sentito? Da Sex and the city, passando per Desperate Housewives e Lipstick Jungle, il gruppetto di amiche trentenni in carriera e con una vita sentimentale incasinata è stato ampiamente sfruttato. Ma su questo si potrebbe anche passar su, se le tre amiche avessero un minimo sindacale di originalità e di spessore.
Quello che intendo è che si può scrivere una buona storia, una storia che intrattenga e diverta, anche senza toccare i vertici dell'originalità; anche mescolando elementi non proprio nuovissimi. Tutto sta a saperli mescolare. Ci sono molti modi per farlo bene, secondo me.
Per esempio, individuare un punto di vista insolito.
In Il diavolo veste Prada abbiamo uno spaccato di quanto sia cinico e disumanizzante il mondo della moda. Qualcosa di nuovo? Non proprio. Ma è narrato da un punto di vista diverso. Non le solite modelle belle e senz'anima, ma la direttrice di una prestigiosa rivista che sfiora la cattiveria di Hannibal Lecter.
Pensate adesso a I love shopping. Ci dice che alcune donne fanno letteralmente follie davanti alle vetrine. Qualcosa di nuovo? No.
Ma l'argomento viene svolto ingigandendo a dismisura l'irresponsabilità di Becky, che si caccia in situazioni assurde e surreali, descritte con ironia, e che fanno ridere.

Qui non abbiamo nemmeno il tentativo, secondo me, di scrivere una bella storia. L'autrice non si è impegnata a dare un minimo di verve alle vicenda, o almeno a infilarci un pizzico di ironia per alleggerire lo svolgimento piuttosto piatto e senza scossoni della trama.
A tratti ho persino avuto l'impressione di una certa superficialità nello scrivere, senza andare a fondo, senza preoccuparsi che i pezzi combaciassero, e che quello che si scrive fosse minimamente credibile. Come se il romanzo fosse stato scritto controvoglia.
Ho trovato poi francamente irritante il tentativo di spacciarci avvenimenti assolutamente banali, comuni e inutili per Grandi Accadimenti Che Imprimono Una Svolta Alla Storia e costruirci intorno reazioni emotive esagerate e totalmente spropositate delle protagoniste. Come se fosse successo chissà che, e invece non è successo proprio niente.
Niente. Ecco di che cosa è fatto questo romanzo.

Mi spiego meglio.

C'è Adriana, di origine brasiliana, che è bellissima, ricchissima, sexy, affascinante. E' stato irritante da morire leggere ogni tre righe la descrizione di quanto fosse bella, quanto lucenti fossero i suoi capelli, quanto fosse piatto il suo ventre, e come, anche quando spostava semplicmente il sedere sopra una sedia - senza alzarsi, eh, semplicemente mettendosi più comoda -, gli uomini si voltavano a guardarla rapiti (davvero, non me lo sono inventato, nel libro succede realmente!)
Echeppalle! (scusate il francesismo, ma quando ci vuole...)
Trovo estremamente noioso e sciatto questo ripetersi di situazioni identiche ogni tre righe.
Adriana si tocca i capelli - un uomo si volta a guardarla.
Adriana si fuma una sigaretta - due uomini si voltano a guardarla.
Adriana sbatte le ciglia - tre uomini si voltano a guardarla. E così via.

Adriana, nonostante tutto ciò, alla soglia dei trent'anni è tremendamente preoccupata di veder comprarire la prima ruga. E già, capisco che avendo costruito un personaggio che ha tutto dalla vita, qualche problemino esistenziale bisognerà anche appiccicarglielo, no? Altrimenti il lettore come fa a identificarsi?
Ma più interessante è notare come le è venuto il dubbio che la bellezza possa un giorno svanire. Il dubbio le sorge perchè (tenetevi forte) un giorno un pappagallo l'ha guardata e ha detto "ciccia!".
No, dico sul serio. Il pappagallo le causa una crisi esistenziale. (Ah beh, se è per questo io ho due canarini, ma per fortuna non parlano...)
Cito:
Per quanto tempo ancora poteva ragionevolmente aspettarsi di condurre il gioco prima che la bellezza cominciasse ad appassire? Trentuno? Trentadue? Forse. Ma probabilmente era meglio non rischiare.
Eccerto, a trentatrè anni infatti scatta la rottamazione. Meglio non rischiare, eh.
A parte la superficialità di queste affermazioni, esse potrebbero ancora avere un senso se Adriana ci fosse descritta come una maniaca perfezionista, che cura il proprio corpo ossessivamente. Una paranoica, insomma.
Ma metterle in bocca pensieri paranoici così, random, quando niente (a parte il pappagallo) è intervenuto a turbare il suo equilibrio, è gratuito e non ha molto senso.

Adriana non fa assolutamente niente per vivere (no, andare dall'estetista ogni 5 minuti non conta), ma dipende economicamente dai ricchissimi genitori; e credete che si ponga il problema? Certo che no, almeno fino a quando, in seguito alla promessa fatta alle amiche, si trova un fidanzato stabile. Solo allora, le viene in mente che forse (forse, eh!) non è tanto gratificante starsene con le mani in mano tutto il giorno, visto che adesso non può più nemmeno andare a caccia di uomini! Una ragazza deve avere un hobby, nella vita, no?  Altrimenti rischia di annoiarsi, e si sa, la noia fa venire le rughe anche prima dei trentadue anni! Orrore!
Naturalmente, siccome lei è bellissima, sexy, affascinante....etc. etc., va a una cena, casualmente da un consiglio a una redattricie di Marie Claire e casualmente diventa collaboratrice della rivista. Problema risolto. Senza bisogno di alzare un dito. O meglio, senza bisogno di muovere il sedere sulla sedia!

Vogliamo parlare poi del fidanzato di Adriana? Bello, ricco e famoso? Conquistato in più o meno mezz'ora? Tra una messa in piega e una manicure?
E sia, parliamone. In pratica non è un personaggio, è un pezzo di arredamento. Sta lì, sullo sfondo, come una tenda o una carta da parati.
Serve solo ad Adriana come assicurazione contro i rischi del futuro & dell'invecchiamento precoce.
Il che mi starebbe anche bene, se si intendesse sottolineare la incredibile superficialità di una donna che si fidanza perchè non avere l'anello al dito a trent'anni pare brutto.
Ma così non è. Tristezza!

Passiamo alla seconda amica: Emmy. In una parola, una lagna. Classica, irritantissima figura di donna che senza un uomo accanto non sa che pesci prendere.
Viene mollata dal fidanzato fedifrago all'inizio del romanzo, e dopo anni di bugie, tradimenti e ostentata indifferenza di lui, lo rimpiange. (Va be', contenta lei...)
Decide di diventare una mangiatrice di uomini, e naturalmente ci riesce, dopo le prime comprensibili difficoltà.
Incontra un uomo in albergo. Le piace, ci chiacchiera un po', medita di portarselo a letto, ma prima che lei possa invitarlo esplicitamente, lui deve scappare perchè invitato ad una festa.
E lei ci resta male, per sei mesi si chiede dove ha sbagliato e perchè lui l'ha rifiutata.
Ho riletto il brano più volte, nel tentativo di trovare dov'è che lei lo avesse invitato e quando lui le avrebbe mollato il due di picche. Non sono riuscita a trovarlo. Eppure si va avanti per pagine e pagine con Emmy che si tormenta!
Comunque, dopo questa devastante esperienza, quando Emmy finalmente riesce ad avere la sua prima, eccitante avventura da una notte e via...ecco il colpo di genio! Lei ci resta male perchè lui voleva un'avventura di una sola notte, e se ne va via senza giurarle amore eterno!
Mah.

Leigh, la terza del gruppetto, potrebbe essere potenzialmente la più interessante. Editor in una grande casa editrice, è incastrata in una relazione che non le da gioia, ma che non tronca perchè, a detta di tutti, lui è un uomo perfetto. In più, è affetta da manie ossessivo-compulsive.
Ho detto potenzialmente interessante, perchè sarebbe stato lecito aspettarsi che le sue manie di ordine, pulizia, eccessiva schematizzazione le portassero qualche problema, qualche difficoltà nella vita di relazione o sul lavoro. Macchè. Per tutto il libro vengono trattate alla stregua del vizio di mangiarsi le unghie. Fastidioso, ma niente di più.

Tra le sue manie c'è anche quella di dire quello che le passa per il cervello, senza filtri.
Sempre?
No, non sempre. Ogni tanto. Quando capita. Quando è comodo ai fini della trama.
Esempio: Leigh incontra un giovane autore, Jesse Campbell, - il classico bello e maledetto - (cos'è questo odore? Ah, sì, sono i clichè che si spandono...) che, dopo due romanzi estrememamente buoni, e un terzo che è stato un flop, tenta di tornare alla ribalta con una nuova opera.
Il discorso vira su una recensione estremamente cattiva ricevuta dal romanzo-flop da parte del critico del Times.

"La recensione era meschina [dice Leigh ], non c'è dubbio. Vendicativa e poco professionale, un colpo basso. Detto questo, credo che Rancore [il romanzo flop] sia la sua opera più debole. Non meritava una recensione come quella, ma non è nemmeno lontanamente al livello della Sconfitta della Luna o, naturalmente, di Disincanto."
Bene, questa opinione è definita nel testo temeraria. Talmente cruda e cattiva da far temere a Leigh di essere licenziata per averla espressa.
Addirittura nell'udirla il capo di Leigh si porta una mano alla bocca in preda ad un muto orrore.
Ma stiamo scherzando? Questa sarebbe l'idea che la Weisberger ha di critica crudele?
Naturalmente Leigh non viene licenziata, ma non perchè in fin dei conti non ha detto nulla di male, ma perchè l'autore ha apprezzato la brutale sincerità della donna, e vuole accanto a sè una editor che abbia il coraggio di dirgli sempre la verità, perchè da quando è diventato famoso, nessuno è mai stato sincero con lui.(Oh, poverino!)
E Leigh, di fronte alla proposta, come risponde? Così:

"Ogni tanto parlo senza pensare. Ma non credo di essere capace di essere sincera a comando. Quel genere di cose mi esce fuori quando meno me lo aspetto."
Cioè, ci stai dicendo che non riesci a dire normalmente la verità? Che non ti viene naturale dire la verità quando apri bocca? Il problema, casomai, dovrebbe essere il contrario, dovrebbe essere difficile mentire a comando!
E poi, fino ad ora ti sei disperata perchè dici tutto quello che ti passa per la testa, adesso che ti serve questa qualità, sostieni di non esserne capace?
Mah.

Leigh ha qualche dubbio sulla sua relazione; a pagina 103 confessa alla sua amica Emmy di non essere innamorata di Russell, il suo fidanzato (ah, detto per inciso, Emmy fa finta di aver capito male e ignora la questione. Certo, avendo amiche così, si spiegano perfettamente i disturbi del comportamento di Leigh... )
Se ne rende conto in quel momento, ma invece di scendere a patti con questa ammissione, a pag. 134 seguiamo il filo dei pensieri di Leigh e scopriamo che:
"Lei amava Russell, lo amava davvero."
Non una parola sulla crisi di 30 pagine prima.
Mah.
Inutile precisare che Leigh diventerà l'editor dello scrittore bello&maledetto, e indovinate come andrà a finire?
No, non ve lo dico, perchè è davvero troppo facile.

Di proporzioni epiche poi, sono i dubbi e la confusione che suscita il rapporto Leigh - Jesse Campbell.
Hanno un pranzo di lavoro per conoscersi meglio, scambiano quattro parole. Lui le dice che lavora meglio a casa sua, fuori città, e chiede a Leigh che i prossimi incontri di lavoro si tengano lì.
Poi si salutano. Piove. Lui se ne va. E Leigh?

"Beh, Leigh ribolliva di rabbia. Era vermanete un co****ne e un presuntuoso. Non si era nemmeno preso il disturbo di chiederle se voleva un taxi o di accompagnarla a piedi in ufficio...non l'aveva nemmeno ringraziata per il pranzo! Non sapeva come avrebbe fatto a vezzeggiare un uomo con un ego formato mammut."

Non c'è che dire, un vero criminale.

In pratica, questo è il romanzo, per grandi linee.
Tra fidanzati che ritornano in ginocchio e fidanzati che non vedono la verità nemmeno se gliela metti per iscritto ("Leigh, ma che ti succede? Sono settimane che sei a terra, e non ho la minima idea del perchè." ); amanti con un nobile segreto da difendere, pappagalli a dieta, cameriere ventenni che sperano di arrivare come le protagoniste a trent'anni (hanno trent'nni, non settanta!! Ma perchè nessuno sembra capirlo?), si va avanti così, fino all'immancabile lieto fine, sdolcinato e scontato anch'esso.

Libro da evitare.

Ps: Olimpia, è tutta colpa mia! Perdonami! :)

Pps:e siccome mi piace farmi del male (letterariamente parlando) adesso sto leggendo il secondo seguito autorizzato di Via col Vento, ovvero, Il mondo di Rhett. La recensione prossimamente su queste pagine!

mercoledì 11 novembre 2009

Giochino letterario

Se bazzicate il web da un po', avrete sicuramente letto di quel giochino via mail, in cui ci si domanda: perchè una gallina attraversa la strada? E la risposta varia a seconda che a rispondere sia Aristotele, Marx o Cartesio.
E' un giochino molto divertente.

Due blog che ho scoperto da poco lo hanno riletto in chiave letteraria.
Trovate i post qui:
Saurono era un bravo artigiano
Poteva andare peggio

Si potrebbe provare a continuare.
Perchè la gallina attraversa la strada?

Douglas Adams: 42.

Sophie Kinsella: Perchè dall'altra parte della strada è appena iniziata una svendita di scarpe di manolo Blanc che non può assolutamente perdere.

Carlos Ruiz Zafon: perchè oltre quella strada, avvolto dalla nebbia, sorgeva il cadavere abbandonato di un palazzo, chiuso da un grosso portone di legno intagliato, annerito dal tempo e dall'umidità: il Cimitero dei Libri Dimenticati.

Continuate voi!

Ps: qui trovate la versione originale del gioco.

venerdì 6 novembre 2009

Susan a faccia in giù nella neve...

...di Carol O'Connell.

Alla vigilia di Natale, a Makers Village, una cittadina nello stato di New York, due bambine di dieci anni vengono rapite. L'unica traccia è la bicicletta di una di loro, ritrovata abbandonata alla fermata dell'autobus.
Il poliziotto incaricato delle indagini, Rouge, ha un motivo in più per cercare di ritrovare le bambine: 15 anni prima, la sua gemella, allora bambina, fu rapita e uccisa. E' vero che un uomo, un prete, è stato condannato per quell'omicidio, ma si è sempre proclamato innocente. E ora che le modalità del rapimento sembrano ricalcare quelle di 15 anni prima, Rouge spera che questa volta riuscirà ad arrivare in tempo per salvare la vita alle bambine scomparse. Con l'aiuto di Aly Cray, una criminologa dal volto sfigurato, Rouge tenta di far parlare l'unico che forse ha visto qualcosa, un ragazzino introverso che frequenta una scuola speciale vicino al luogo della sparizione.

Questo thriller tocca argomenti piuttosto delicati, come quello della pedofilia, la pedofilia e il clero, il rapimento di bambini. Lo fa con molta delicatezza, senza inutili particolari morbosi, ma raccontando tutto quello che il lettore deve sapere.
L'intreccio della trama va a scavare gli inconfessabili segreti sepolti nel passato di alcuni eminenti personaggi che abitano a Makers Village, cercando di accendere la curiosità del lettore; cosa che però riesce a fare solo in parte.
Probabilmente, a causa della delicatezza dei temi trattati, l'autrice usa un tono molto pacato, raccontando gli eventi con semplicità e senza forzare troppo la mano. Il ritmo però ne risente.
Lo svolgimento della sotria, infatti, risulta lento, come se fosse troppo diluito tra le pagine, tanto che alla fine, quando giunge il momento di tirare le somme, il lettore fa fatica e rimettere insieme tutti i pezzi del puzzle.
E questo è un peccato, perchè a conti fatti, guardando indietro dopo aver finito il romanzo, non si può certo affermare che la trama sia banale o noiosa. Anzi, l'intreccio risulta degno di nota, ma non sono riuscita a godermelo appieno durante la lettura del romanzo.
Toccanti e molto molto ben costruite le scene che raccontano la prigionia delle bambine, la loro paura, i loro ingenui tentativi di fuga. Le stesse bambine, diverse tra loro ma accumunate da una grande amicizia, sono ben caratterizzate e descritte, risultando i personaggi a cui il lettore si affeziona di più.
Del resto, le pagine che le vedono protagoniste sono le migliori del romanzo, quelle che davvero riescono a creare ansia e angoscia per la sorte delle due piccole.
Gli altri personaggi, tolti forse quelli principali sono un tantino piatti, parlano tutti allo stesso modo, fanno tutti più o meno le stesse cose, tanto che mentre leggevo, faticavo a distinguerli l'uno dell'altro, e dovevo tornare indietro chiedendomi "ma questo chi è?".

C'è di buono comunque che la Carrol rifuge dalla necessità del colpo di scena a tutti i costi, che sembra essere diventato il tratto distintivo dei thriller più recenti.
Quindi alla fine il colpevole è quantomeno plausibile, e non sembra estratto a sorte tra i vari personaggi disponibili.
Certo, una piccola sorpresa il finale ce la riserva, altrimenti, che thriller sarebbe?
Naturalmente non vi dirò qual è, ma si tratta di una trovata originale, che riesce a muovere l'animo del lettore, e che secondo me vale da sola il prezzo del libro, anche se forse i puristi del genere potrebbero storcere il naso.
Per concludere, valutazione finale: un buon thriller che strappa la sufficienza, sebbene non sia di quelli dal ritmo serrato e sconvolgente, con una trama tutto sommato solida e qualche tratto originale.