lunedì 29 febbraio 2016

Giorno dei morti...

... di Maurizio De Giovanni.
 
Quando l'alba tirò fuori dalla notte e dalla pioggia i contorni delle cose, se qualcuno fosse passato avrebbe visto il cane e il bambino ai piedi dello scalone monumentale che portava a Capodimonte. Ma sarebbe stata necessaria grande attenzione: a stento si distinguevano, nella luce incerta del primo mattino.
Se ne stavano là, fermi, indifferenti alle grosse gocce fredde che cadevano dal cielo. Erano seduti sullo scalino di pietra, nella rientranza ornamentale dopo i primi gradini. Le scale erano un torrente d'acqua in piena che trasportava rami e foglie dal bosco della reggia. [...]
Qualcuno avrebbe potuto chiedersi che cosa facessero là il cane e il bambino, fermi nella fredda alba di un autunno pieno di pioggia.
Il bambino era grigio, i capelli attaccati alla testa dall'acqua, le mani in grembo e i piedi sospesi a pochi centimetri dal suolo, la testa lievemente reclinata, gli occhi persi come dietro a un sogno o a un pensiero. Il cane sembrava dormire, la testa appoggiata sulle zampe, il mantello a macchie marroni zuppo, un orecchio sollevato, la coda ferma lungo il fianco.[...]
Ora la pioggia rinforza, uno scroscio forte come una ribellione al sorgere del sole; il cane e il bambino non reagiscono, la furia dell'acqua li lascia indifferenti. Dal naso dell'uno e dall'orecchio sollevato dell'altro scorrono rivoli freddi.
Il cane sta aspettando.
Il bambino non ha più sogni.
 
Napoli, autunno 1931. Mentre la città si prepara alla visita ufficiale di Benito Mussolini, ai piedi dello scalone monumentale di Capodimonte viene trovato il cadavere di un bambino, vegliato da un cagnolino. Il commissario Ricciardi, l'uomo che vede i fantasmi dei morti di morte violenta e ne ode le ultime parole, viene chiamato ad indagare. 
Il bambino è un orfano che viveva in un dormitorio finanziato dalla chiesa. L'autopsia, eseguita dal fido dott. Modo, amico del commissario, rivela che il piccolo ha ingerito veleno per topi, probabilmente accidentalmente, visto che non ci sono segni di violenza sul corpo. Eppure il piccolo è morto avvelenato; ma allora, perché Ricciardi non ne vede l'ombra?
 
Eccomi qui a parlare di nuovo di un romanzo con il Commissario Ricciardi come protagonista.
Questo è, finora, il mio preferito e le ragioni sono diverse.
Innanzitutto, la storia, che inizia con la scoperta della morte di un bimbo, è molto toccante e triste, di quelle che non lasciano indifferenti. 
Allo stesso tempo, però, è una storia misteriosa, e diversa dalle altre. Il bimbo è morto avvelenato, forse accidentalmente, eppure il commissario non vede il suo fantasma e non sente le sue ultime parole. Perché? Dov'è l'ombra del piccolo? Qualcuno ha forse sposato il cadaverino?
L'indagine di Ricciardi non può essere un'indagine ufficiale, perché in realtà non può dire a nessuno cosa lo spinge ad investigare.
Ma non è solo questo che lo spinge a cercare la verità: è morto un bambino di cui non importa niente a nessuno. Non importa alle autorità, troppo impegnate ad organizzare l'accoglienza per l'arrivo di Mussolini; non importa al prete che lo ospita nel suo dormitorio, per il quale contano solo i soldi e le donazioni; non importa agli altri ragazzi del dormitorio, che anzi, lo tormentavano con scherzi crudeli perché era il più piccolo e in più balbettava.
Ma a Ricciardi importa. Districandosi tra le sue vicende personali, gli ostacoli posti dalla Curia (che non gradisce si indaghi sulle proprie opere di carità) e dall'ottuso vicequestore Garzo che vuole presentare a Mussolini una città senza crimini violenti, Ricciardi cerca l'ombra del piccolo.
Mentre Ricciardi insegue letteralmente un fantasma, fa il suo ritorno in scena Livia, la vedova del tenore Iezzi vittima nella prima indagine del commissario Ricciardi, descritta nel romanzo Il senso del dolore.
Livia insegue un sogno, ovvero farsi amare dal commissario Ricciardi, e per questo si trasferisce a Napoli, e non tarda a subire il fascino di questa straordinaria città. 
 
Si era innamorata di quella città prima ancora che di Ricciardi; ne adorava l'allegria, la capacità di cambiare faccia e colore a seconda delle stagioni, i nugoli di scugnizzi che si appendevano ai tram sferraglianti; ne gustava la musica perenne, il fatto che a qualsiasi ora e in qualsiasi circostanza ci fosse sempre qualcuno che cantava, a squarciagola o in maniera sommessa; ne apprezzava il cibo e il clima dolce che però sapeva essere capriccioso, come in quei giorni di pioggia. In quella città proprio non riusciva a essere triste.
 
Che dire, di fronte a una dichiarazione d'amore così? Condivido ogni parola, ma nonostante ciò, Livia proprio non la reggo. A me sembra il classico esempio di donna che può avere tutto (come ci viene ricordato ad ogni piè sospinto dallo scrittore) ma desidera esclusivamente ciò che non può avere. Il mio affetto e il mio supporto vanno tutti a Enrica, la quieta ragazza che il commissario guarda vivere dalla finestra, e con cui sta tentando un timido approccio epistolare.
 
Ma torniamo all'indagine. Mentre in quelle precedenti Ricciardi si trovava a rifuggire l'orrenda eco della morte violenta, qui è costretto a cercarla.
La troverà solo alla fine del romanzo. Un finale particolarmente bello, adrenalinico, tragico e desolante. Ma soprattutto inaspettato.
Il colpevole è non solo la persona che meno ti aspetti, ma anche quella la cui colpevolezza è letteralmente un pugno nello stomaco.
 
Ricciardi è un uomo che si sente solo, isolato e condannato dalla sua maledizione. Ma non riesce a voltare lo sguardo quando gli umili, i deboli, i derelitti subiscono un torto o hanno bisogno di aiuto.
Forse Ricciardi è una figura d'uomo idealizzata, ripulita dai lati negativi, ma per me resta impossibile non amarla, perché soprattutto oggi abbiamo bisogno di qualcosa che ci ricordi che sì, l'umanità è capace di grandi slanci, non solo di nefandezze. Lo so, lo so, Ricciardi è solo un personaggio letterario, ma come tutti i personaggi ben scritti, mi parla, ed è questo quello che mi dice.
 
Voto: 8
 

sabato 27 febbraio 2016

La ragazza di fronte...

...di Margherita Oggero.

In verità, [I ragazzi della via Pal] non andava tanto bene per un bambino di quell’età, in seconda elementare, ma Michele fu estasiato di avere un vero libro da leggere la domenica pomeriggio sul balcone. Si era procurato al mercato una cassetta di plastica dura per la frutta, l’aveva rivestita con un pezzo di stoffa trafugato dal sacco degli stracci di sua madre e su quel sedile si sentiva alla pari con la bambina dai capelli quasi rossi. Quasi alla pari, perché seppur confusamente avvertiva la disparità di classe sociale: lui e i suoi nella casa sgarrupata, lei nel palazzo ricco di fronte. Però, col libro sulle ginocchia, era bello osservarla di tanto in tanto, e incrociare qualche volta gli sguardi, anche se non sempre era lei ad abbassare per prima la testa.

Questo romanzo racconta le vite parallele di Michele e Marta, che da bambini abitano l'uno di fronte all'altro e non si parlano mai, ma si guardano dal balcone. Per Michele è amore a prima vista. Marta, invece, sembra quasi non accorgersi di lui.
I ragazzi crescono, le loro vite vanno avanti e i due si perdono di vista, fino a quando il caso, o il destino, li farà incontrare di nuovo.

La ragazza di fronte è un libro molto ben scritto, tutto giocato sulle similitudini e sulle diversità delle vite dei due protagonisti.
Entrambi hanno vissuto carenze affettive da bambini (Michele proviene da una famiglia praticamente anaffettiva, mentre Marta non ha mai superato l'abbandono della famiglia da parte della madre).
Michele  ha trovato il suo punto fermo nel nonno Peppino, con cui ha vissuto fin dall'infanzia, Marta invece  sta ancora cercando il suo approdo sicuro, e quando crede di averlo trovato in un uomo affascinante e colto, ma lui l'abbandona e le spezza il cuore, lasciandole dentro una corazza di ghiaccio dura da sciogliere.
La storia di Michele, figlio di immigrati napoletani costretti a trasferirsi a causa della disoccupazione, è quella che ho amato di più. Credo che siano molto pochi i Meridionali che possano leggere pagine su un simile argomento senza immedesimarsi e senza empatizzare col protagonista. Ho apprezzato che la vicenda familiare, lo sradicamento dalle proprie radici e la necessità di ricominciare daccapo sia narrata senza pietismi e senza cinismo, nella sua naturale e quotidiana "tragicità".

Poi, due anni dopo, la ruota aveva girato male, la ditta di mobili era fallita, un altro lavoro non si trovava mentre Peppino su al Nord s’era aggiustato decentemente. Sempre un napoli era, ma con una clientela di barriera in parte ereditata da zio Biagio e in parte nuova, tutta gente che, cominciando a passare i propri guai con la crisi dell’auto, la cassa integrazione e il sindacato che aveva dovuto abbassare la cresta, di pigliarsela con i meridionali non ne aveva più voglia. Anche perché un altro Sud aveva cominciato ad arrivare.

In poche righe viene dipinta la situazione dei meridionali immigrati a Torino. Ognuno di noi ha nel cuore delle corde sensibili; a volte i libri si amano perché vanno a toccare una di queste corde. Ecco, la storia di Michele ha toccato un argomento a me caro.

Ho fatto molto più fatica a leggere di Marta e della sua vita. E' vero, essere abbandonati dalla madre  in tenera età non è proprio una passeggiata di salute, ma Marta ha deciso di attaccarsi al suo dolore pervicacemente. L'ho trovata snob, viziata, incline a giudicare il prossimo e lamentosa. Le premesse da cui la sua vita partiva erano ottime (un padre facoltoso che comunque le voleva bene, una figura surrogato di una madre, due fratelli affettuosi, ottime scuole, viaggi, eccetera), ma lei ha scelto di soffrire. Figure positive e affettuose nella sua famiglia non sono mancate, ma dal suo atteggiamento si evince che non è mai stato abbastanza.
Vero, un uomo le ha spezzato il cuore e le speranze, ma ancora una volta lei ha deciso di non reagire.
Michele invece è scappato da una madre scorbutica e perennemente scontenta, da un padre poco partecipe e da una sorella, Sofia, dispettosa fino alla crudeltà, eppure non ha perso la voglia di amare e la capacità di solidarizzare col prossimo. Riesce perfino a comprendere e perdonare l'odiosa sorella.

Due camicie, non una gli aveva confezionato Sofia. Lui, incerto tra due tessuti – era la sua prima volta con un capo di abbigliamento su misura – aveva delegato la scelta alla sorella, che invece aveva largheggiato.
     Di fronte allo specchio, aveva indossato prima l’una poi l’altra – mentre lei lo osservava compiaciuta –, rendendosi conto della differenza tra quelle cinque o sei che possedeva e queste altre, la differenza tra un prodotto ordinario e uno eccellente. L’aveva ringraziata e abbracciata, le aveva allacciato al collo una collana di pietre dure – quarzo rosa e calcedonio – che aveva comprato per lei in Via Roma e nel contatto fisico era intervenuto un brivido di commozione, la consapevolezza di un reciproco riconoscersi e ritrovarsi.
     Ma quante persone diverse siamo stati?, si chiede Michele più tardi. Una ragazzina infelice e vendicativa lei, un bambino prima succube e poi ribelle io. E adesso, che cosa ci lega al noi di allora? c’è un fildiferro sia pure contorto e ripiegato su se stesso che tenga insieme il nostro crescere e mutare, oppure si cresce prevalentemente a sbalzi rotture e negazioni del passato?
     La Sofia di adesso non conserva tracce di quella di allora eppure è la stessa persona.

E' vero, Michele ha problemi a costruirsi una relazione stabile con le donne, mail mio sospetto di lettrice è che stesse semplicemente aspettando il suo unico vero amore, la ragazzina dai capelli quasi rossi che vedeva sul balcone da bambino.
Marta invece guarda con diffidenza e distacco tutto e tutti, ed è portata ad esprimere giudizi sprezzanti sulla base di pochi, insignificanti dettagli dettagli.

Leggendo pagina dopo pagina il racconto di queste due vite, sapientemente costruito, il lettore si attende il colpo di scena che riavvicinerà i due protagonisti.
Ed è proprio qui, però, che il romanzo mi ha deluso. Il finale pare proprio tirato via, come se l'autrice avesse guardato l'orologio e avesse detto "ehi, com'è tardi! Chiudiamolo qui 'sto romanzo che domani mattina mi devo alzare presto".

Il destino porta Michele ad affittare un appartamento di fronte a quello di Marta; lui la riconosce e si palesa, lei lo tratta con spocchiosa diffidenza, lui insiste e le decide che potrebbe amarlo.
Dopo una serata in pizzeria in cui lei ha fatto del suo meglio per rendersi odiosa, infatti, Marta vede il coinquilino di Michele sul balcone.
Dov'è Michele?, vorrebbe chiedergli, ma a Torino non si grida di notte da un balcone all'altro.
Ecco questa è Marta, che non grida dal balcone, ma la mattina dopo Michele citofona e lei lo invita a salire mentre è ancora in accappatoio (per lei Michele è un tizio sconosciuto, incontrato un paio di volte). E praticamente gli cade ai piedi.

Il finale l'ho trovato frettoloso e forzato.
Resta un bel libro, comunque.
Voto 6 e 1/2.
 

giovedì 25 febbraio 2016

Il posto di ognuno...

...di Maurizio De Giovanni.
 
Al commissario Luigi Alfredo Ricciardi non dispiaceva lavorare di domenica, e questa era un'altra delle sue stranezze. I colleghi si defilavano con mille pretesti, quando venivano stabiliti i turni, madri ammalate da accudire, anzianità maturate, millantate necessità familiari: ogni scusa era buona, pur di risparmiarsi il lavoro nel giorno in cui tutta la città faceva festa.
Ricciardi invece se ne stava zitto, come al solito, e come al solito gli toccava prendersi il peggio. Non che questo gli fruttasse la benevolenza degli altri, che non perdevano occasione di mormorare alle sue spalle. Solitario, le mani in tasca, sempre senza cappello anche d'inverno; non partecipava alle feste, ai brindisi, non era mai presente alle occasioni d'incontro. Lasciava cadere gli inviti, non stringeva amicizie e non si apriva alle confidenze. Gli occhi verdi spiccavano nel volto bruno, una ciocca di capelli sempre sulla fronte che ravviava con un gesto secco. Parlava pochissimo, con fredde ironie che non tutti coglievano. Ciononostante la sua presenza calamitava l'attenzione.
Lavorava senza sosta, soprattutto quando seguiva un caso di omicidio, fra la malevolenza di quei colleghi che non erano in grado di avvicinarsi ai ritmi che imponeva alle indagini: i militari che gli erano assegnati lo maledicevano di nascosto per le ore passate sotto la pioggia o il sole, in appostamenti lunghissimi e talvolta inutili. Commentavano velenosi che ogni volta pareva che gli avessero ammazzato un familiare, si trattasse di un nobile o un poveraccio.

Il commissario Ricciardi, in forza alla Regia Questura di Napoli, è un uomo particolare. Oltre ad essere un ottimo investigatore, ha la maledizione di poter vedere le ombre di coloro che sono morti di morte violenta e di udirne le ultime parole o gli ultimi pensieri.
In una torrida domenica napoletana dell'agosto 1931, Ricciardi è chiamato ad investigare, col fido brigadiere Maione, sull'omicidio della contessa Adriana Musso di Camparino.
Seconda moglie del vecchio e invalido conte, Adriana è stata una donna molto chiacchierata. Infermiera della prima moglie, secondo molti con quel matrimonio ha occupato un posto che non è il suo. Non paga di ciò, ha condotto una vita gaudente, ed ha assunto atteggiamenti discutibili che le hanno attirato l'odio di molti. Non era certo una persona buona, la contessa. Non lo era col marito invalido, né col figliastro, né con la servitù e neanche con lo storico amante. Moventi per ucciderla ce n'erano molti, ma tutto sembra ruotare intorno alla frase che il fantasma della donna ripete a Ricciardi: l'anello, l'anello, hai tolto l'anello, l'anello mi manca.
Di quale anello parla, la contessa? Di quello nuziale, che secondo il figliastro non avrebbe dovuto portare? O di quello regalatole dall'amante con cui aveva avuto una violenta lite la notte prima di morire?  La frase che l'ombra della Contessa ripete non è così chiara come sembra, e questo contribuirà a mettere fuori strada il commissario
 
Nelle storie del commissario Ricciardi il titolo è sempre un'estrema sintesi di quello che troveremo nel romanzo. Se ne Il senso del dolore impariamo a conoscere il dolore che accompagna Ricciardi, ma anche tutti gli altri esseri umani; se ne La condanna del sangue scopriamo che in fondo Ricciardi non è l'unico a portarsi sulle spalle la condanna del destino, del fato o del sangue, a seconda di come vogliamo chiamarla, ne Il posto di ognuno ci chiediamo se questo posto a cui ciascuno di noi dovrebbe appartenere esista o non esista.
 
La contessa Adriana aveva trovato il suo posto col matrimonio? Probabilmente no, visto la vita che conduceva e il male che si divertiva a fare a tutti.
L'amante, il giornalista Mario Capece, credeva che il suo fosse accanto ad Adriana, e non a casa con la famiglia, mentre sua moglie e suo figlio avrebbero fatto qualsiasi cosa per riportarlo, appunto, a quello che ritengono essere il luogo cui egli appartiene.
E il figliastro della contessa, che la riteneva una donna indegna di succedere a suo madre, fascista convinto, crede di aver trovato il suo posto? Sì, ma non è quello che tutti credono.

L'indagine di Ricciardi si muove appunto tra i vari "posti" occupati dai comprimari di questo dramma.
Per la prima volta il commissario arriva a scontrarsi direttamente con il regime fascista, di cui non è assolutamente un estimatore.
I personaggi secondari sono ben tratteggiati e interessanti. Non credo di aver mai trovato, finora, nei libri di De Giovanni, un personaggio che fosse un classico stereotipo.
Forse, però, con il sopraggiungere della notorietà delle serie, e con l'allargarsi della platea di lettori, si nota la tendenza dello scrittore a fornire dettagli più accurati (e a volte totalmente superflui) sulla vita della città e sulle sue peculiarità. Come per esempio quando il brigadiere Maione chiarisce a Ricciardi cosa sia un basso. Dai, vuoi davvero che Ricciardi non lo sappia? La precisazione è ad uso e consumo del lettore, ma in un dialogo tra due persone che sanno perfettamente cosa sia un basso, suona artificiosa e forzata.
La vita privata del commissario trova  in questo romanzo più spazio rispetto ai precedenti, specialmente attraverso qualche flashback e alcune divagazioni;  il ritmo della storia ne risente e la narrazione risulta pertanto un po' appesantita.
La trama gialla, però, è sempre solida e ben costruita. I sospettati sono diversi e tutti sembrano perfettamente inquadrarsi nel puzzle che il commissario va a comporre, fino a che con una intuizione Ricciardi non scopre il vero significato della frase detta dalla contessa in punto di morte. 
 
E allora la conclusione qual è? Esiste il posto di ognuno in questa nostra vita? Il commissario è convinto di sì, ma individuarlo non è semplice e non è scontato. A volte, il posto di un assassino non è in galera, perché il posto della giustizia non sempre è tra le pieghe della legge.
E alla fine, Ricciardi scoprirà dov'è il suo posto? Sempre dietro a quella finestra da cui guarda Enrica, il suo amore platonico? Forse no. Forse per stavolta no. 
 
Come sempre, la voglia di leggere ancora di Ricciardi è fortissima.
Voto 7




mercoledì 24 febbraio 2016

Sono il numero quattro...

...di Pittacus Lore (pseudonimo di James Frey e Jobie Hughes).
 

Siamo arrivati in nove. In apparenza, siamo uguali a voi: vestiamo come voi, parliamo come voi, viviamo come voi. Ma non siamo affatto come voi. Siamo in grado di fare cose che voi non potete neanche sognare. Abbiamo poteri che voi non riuscite neanche a immaginare. Siamo più forti, più veloci e più abili di qualsiasi essere vivente del vostro pianeta. Avete presente i supereroi dei fumetti e quelli che ammirate al cinema? Una cosa del genere, però con una grossa differenza: noi siamo reali.

Ci siamo rifugiati sulla Terra e ci siamo divisi per prepararci: dovevamo allenarci, scoprire tutti i nostri poteri e imparare a usarli. Poi ci saremmo riuniti, tutti e nove, e saremmo stati pronti. A combatterli. Ma loro hanno scoperto che siamo qui e adesso ci stanno dando la caccia. Vogliono eliminarci, l’uno dopo l’altro. Così siamo costretti a scappare, a spostarci in continuazione, ad avere paura della nostra stessa ombra.

Attualmente mi faccio chiamare John Smith, e mi nascondo a Paradise, in Ohio. Credevo di essere al sicuro, ma ho commesso un errore gravissimo: mi sono innamorato di una mia compagna di scuola. E non potevo scegliere un momento peggiore.

Perché loro hanno preso il Numero Uno in Malesia.

Il Numero Due in Inghilterra.
Il Numero Tre in Kenya.
E li hanno uccisi.
Io sono il Numero Quattro.
Io sono il prossimo…
Pittacus Lore è il capo degli Antenati, gli anziani che governavano il pianeta Lorien prima della sua distruzione. Vive sulla Terra da dodici anni, preparandosi per la guerra che deciderà il destino dei Nove e, con loro, quello dell’intera umanità. Nessuno sa dove viva.

(dalla presentazione al volume)
 
Trama:
Sulla Terra vivono gli appartenenti ad una razza alinea scampati alla distruzione di Lorien, il loro pianeta, ad opera dei Mogadorian. Sono nove ragazzi dai poteri straordinari, ognuno accompagnato dal loro tutore. Prima di lasciare il pianeta, un incantesimo li ha legati l'uno all'altro in modo che essi possano essere uccisi soltanto in un determinato ordine. In attesa che i loro poteri si sviluppino e diventino forti abbastanza da riconquistare Lorien e sconfiggere i Mogadorian, vivono nascosti tra noi.
 
Sono il numero quattro è il primo libro di una saga di fantascienza dedicata ad un pubblico giovane. E siccome io sono giovane (soprattutto) dentro, e siccome il titolo mi intrigava un sacco, ho deciso di leggerlo.
E poi chi lo dice che ad una certa età non si possono leggere libri per ragazzi?
 
Evitare i libri per ragazzi solo perché non si è più ragazzi è come sostenere che i gialli andrebbero letti da poliziotti e criminali (Nick Hornby).
 
Quindi, da parte mia, nessun pregiudizio verso la narrativa per ragazzi, anzi.
Il problema però sorge quando narrativa per ragazzi (o young adults, come fa figo dire adesso) diventa di sinonimo di approssimazione e cliché a go-go.
Io penso che gli autori pensino (ehm...) che i ragazzini magari sono alle prime armi e quindi tante sottigliezze non le colgono (e non è detto che non le colgano, eh). Ma sappiate che per ogni ragazzino che legge i vostri libri ci sono almeno tre adulti divoratori di libri che lo leggeranno, e scopriranno le magagne. Io vi ho avvisato.
 
Come purtroppo accade sempre più spesso, l'ottimo spunto di partenza si perde nel corso della storia, per tutta una serie di motivi.
 
Innanzitutto, poco meno di metà del libro è occupato dai problemi adolescenziali del protagonista, John.
Spero che John nei continui traslochi abbia portato con sé un ombrello, perché appena arriva a Paradise, Ohio, cominciano a piovere cliché.
La bella della scuola che si innamora di lui perché sì.
Il bullo della scuola che ce l'ha con lui.
Il compagno di scuola bruttino e sfigato che però è coraggioso e leale.
(Ma poi,  si può sapere perché tu sei lì che non devi attirare l'attenzione su di te per nessun motivo e ti iscrivi a scuola? Ma perché? Perché non sei nascosto in una capanna in mezzo ai boschi? Tanto più che comunque non ti fermi mai più di sei/sette mesi in ogni luogo?) 
Il protagonista costretto a scegliere tra il rivelare i suoi poteri e salvare la ragazza che ama, oppure lasciarla morire.
Yawn. Già visto, già sentito.

Io non ho nulla contro il già visto e già sentito. Non sono alla ricerca dell'originalità a tutti i costi, finchè mi trovo una storia bella e solida davanti.
 
La storia è narrata in prima persona da John, al tempo presente. Ho trovato questa scelta quanto meno discutibile, anche perché che senso ha formare il libro col nome di Pittacus Lore, uno degli Anziani del Pianeta Loric, e poi farlo narrare in prima persona e al presente da John? Boh, secondo me queste scelte per aggiungere un po' di pepe al libro si annullano l'una con l'altra.
Inoltre, quella che tutto sommato è una scelta stilistica legittima dell'autore, è risultata alla lunga fastidiosa e stancante. Nonostante l'uso di questa tecnica narrativa, l'autore non è riuscito a infondere pathos e sentimento nelle parole di John, che hanno la verve di una lista della spesa. Scritta male.
Sembra che John ci narri le cose in maniera molto superficiale, senza averne voglia.
Esempio:
Henri (il tutor di John) crede di aver individuato delle persone (degli esseri umani) che stranamente conoscono l'esistenza dei Mogadorian. Si reca ad indagare, e sparisce. Questo è quello che John ci racconta (abbiate la pazienza di leggere tutto l'estratto):
 
È una lunga giornata, una di quelle in cui il tempo rallenta e ogni minuto sembra durarne dieci, ogni ora sembra una giornata intera. Gioco ai videogame e navigo in Internet. Cerco notizie che possano essere collegate a uno degli altri Garde. Non trovo nulla, e ne sono felice. Significa che sono riusciti a passare inosservati e a evitare i nostri nemici.
Ogni tanto do un’occhiata al cellulare. A mezzogiorno mando un SMS a Henri; lui non risponde. Pranzo e do da mangiare a Bernie Kosar (il cane, n.d. Lisse), poi mando un altro messaggio. Ancora nessuna risposta. Una sensazione d’incertezza e di nervosismo s’insinua dentro di me. Henri ha sempre risposto immediatamente ai miei messaggi, senza eccezioni. Forse ha il telefonino spento, forse gli si è scaricata la batteria. Cerco di convincermi di queste due possibilità, ma so benissimo che non sono credibili.
Alle due comincio a preoccuparmi sul serio. Gli Hart ci aspettano tra un’ora. Henri sa che questa cena è importante per me. Non mancherebbe mai.
Vado a farmi una doccia, sperando che, quando avrò finito, troverò Henri seduto al tavolo della cucina a bere una tazza di caffè. Apro l’acqua calda al massimo e non mi preoccupo nemmeno di miscelarla. Non sento nulla. Ormai tutto il corpo è insensibile al calore. È come se sulla mia pelle scorresse acqua tiepida. In effetti, mi manca la sensazione di calore. Mi piaceva fare la doccia con l’acqua molto calda, restare sotto il getto, chiudere gli occhi e godermi la sensazione dell’acqua che mi scorreva sulla testa e sul resto del corpo. Mi aiutava a rilassarmi, a distrarmi, a dimenticare per un po’ chi e che cosa sono.
Quando esco dalla doccia, apro l’armadio e cerco i vestiti migliori che ho. Niente di speciale: pantaloni cachi, una camicia, un maglione. Siccome la nostra vita è tutta una corsa, ho soltanto scarpe da corsa, appunto. È un pensiero così buffo che mi viene da ridere, per la prima volta in tutta la giornata. Vado nella stanza di Henri e guardo nel suo armadio; ha un paio di mocassini che mi vanno bene. Vedere tutti i suoi vestiti mi rende ancora più preoccupato e turbato. Voglio credere che stia soltanto impiegando un po’ più di tempo del previsto, ma in tal caso mi avrebbe avvertito. Qualcosa dev’essere andato storto.
Che noia.
Io non vedo John preoccupato, io vedo John che mi dice di essere preoccupato. Non lo vedo agire da persona incerta e in ansia, vedo che John che mi racconta che una sensazione di incertezza gli si sta insinuando dentro. Un alieno fuggiasco e in costante pericolo di vita che, mentre il suo maestro è scomparso, magari anche morto, pensa che gli manca la sensazione di calore sulla pelle. Pensa che i suoi vestiti sono niente di speciale.
Elettrocardiogramma piatto.
Tra l'altro la situazione pericolosa si risolve perché improvvisamente a John arriva un nuovo potere, quello della telecinesi... eh, quando si dice una coincidenza fortunata!
 
E anche nelle scene d'azione lo stile non cambia. Lento e compassato, e per di più con descrizioni piatte e incomplete. 
Ho finito l'intero romanzo e ancora non sono sicura di come siano fatti i Mogadorian e le loro temibili Bestie.
 
Occhi neri, pallido, come se la sua pelle non avesse mai visto la luce del sole. Una creatura delle caverne risorta dal mondo dei morti.

Sono così veloci che faccio fatica a distinguerne le forme.

Quella bestia deve essere alta dieci metri, o forse dodici. Sovrasta Henri e ruggisce, con pura furia negli occhi.

Sì, ma di che tipo di creatura stiamo parlando? Una specie di dinosauro? Elefante? Struzzo? Gattino?
Nella battaglia finale sarà tutto un tripudio di zanne, artigli e bava che cola, ma senza che John si degni di dirci cosa abbiamo davanti. 
 
La battaglia finale merita un discorso a parte. Occupa un ampio numero di pagine e sembra svolgersi al rallentatore davanti agli occhi del lettore.
In primo luogo, gli avversari sembrano mettersi in fila per affrontare John uno alla volta. Anche quando lo circondano e lui e i suoi amici riescono a ripiegare all'interno della scuola teatro dello scontro, i nemici non fanno irruzione, non attaccano in massa perché aspettano "i rinforzi". E i nostri eroi sono in 5, non in 500. A dir la verità, sembra che anche gli alleati di John si mettano in fila per salvargli la vita all'ultimo minuto, intervenendo sempre uno alla volta.
 
Tutto lo scontro con questi terribili Mogadorian fa acqua.
In primo luogo, trovano John perché vedono un video in rete di lui che esce da una casa in fiamme illeso, e non gli viene il dubbio che John possa essere resistente al fuoco, tanto è vero che il primo incantesimo che gli lanciano è una sfera di fuoco. E vabbè. 
Ad un certo punto un Mogadorian armato di spada prende John per la gola e lo tiene sollevato da terra, e  mica lo trafigge con la spada, no,  lo scaglia lontano cosicché possa rialzarsi e continuare a combattere. E vabbè.
I Mogadorian hanno una specie di cannone succhia energia vitale che distrugge qualunque cosa, ma mica lo usano come prima cosa. No, prima gli tirano un imprecisato numero di botte dietro la nuca/stiletti/ palle di neve. Avete presente Daitarn III e l'attacco solare che usava esclusivamente a fine puntata e sconfiggeva tutti i nemici e tu bambino lo trovavi meraviglioso, e poi da adulto sei passato a chiederti perché cappero non usava subito il potere del sole? Ecco, una cosa del genere.
E vabbè.
I soldati nemici sono accompagnati da bestie alte anche dieci o dodici metri; ci si aspetterebbe che qualcuno le notasse mentre attaccano o distruggono la scuola, no? No.
Inoltre vorrei sapere come due o tre bestie sono state trasportate nel giro di pochissime ore dalla divulgazione del filmato incriminante in autoarticolati fin sul luogo dello scontro. Esistono camion in grado di trasportare bestie alte dodici metri senza che nessuno se ne accorga?
 
Inizialmente poi i Mogadorian sembrano dei colossi spaventosamente invincibili; nello scontro finale vengono tranquillamente uccisi con un proiettile, con un trofeo spaccato sul cranio, e in altri modi banalmente simili. Uao che paura. Dei mostri paurosissimi che possono morire come tutti gli altri esseri viventi. E allora viene da chiedersi perché il numero tre e il suo Cepan (maestro) se ne stessero nascosti nella giungla africana senza neanche un'arma da fuoco a disposizione, visto che i proiettili sembrano particolarmente efficaci.
E visto che parliamo di armi, i Mogadorian hanno queste spade magiche da cui escono stiletti (vi prego, non chiedete, è così e basta) che lanciano incantesimi, ed hanno un fucile che sembra un cannone (sic) che risucchia l'energia vitale del pianeta, trasportando i presenti in una specie di dimensione parallela (non è chiarissimo) e poi riversa contro il malcapitato bersaglio una sorta di raggio di antimateria. Ancora una volta, non è chiarissimo quale effetto o principio queste armi sfruttino, ma ci sta che non capiamo bene di cosa si tratti. Ci sta di meno che John dica, dopo averle osservate cinque minuti: le armi Mogadorian funzionano in una maniera che probabilmente non capirò mai, in base ai portali mistici tra una dimensione e l'altra. Ah beh, meno male che non lo capirai mai.
Perché se è vero che John è stato sottoposto dal suo Cepan ad un duro allenamento per accrescere i suoi poteri, è anche vero che Henri non ha mai fatto parola delle spade magiche, degli stiletti o dei cannoni. No, Henri si è limitato a lanciargli contro delle cose, a dargli fuoco (sì, perché John è resistente al calore) e a fargli sollevare le palline con la telecinesi. Ma dove l'hai preso il tuo diploma di Cepan, Henri? A Topolinia?

Eppure, eppure... ho già iniziato a leggere il seguito. Da un lato, si tratta sicuramente di un disturbo ossessivo compulsivo che mi attrae inesorabilmente verso i libri bruttini. Dall'altro, voglio sapere come va a finire, sperando che migliori. Vi terrò aggiornati.
Voto 4. 
 

lunedì 22 febbraio 2016

La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo...

di Audrey Niffenegger.

È dura rimanere indietro. Aspetto Henry senza sapere dov'è e se sta bene. È dura essere quella che rimane. Mi tengo occupata. Così il tempo passa più veloce. Vado a dormire da sola e mi sveglio da sola. Faccio passeggiate. Lavoro fino a stancarmi. Osservo il vento giocare con la robaccia rimasta sepolta tutto l'inverno sotto la neve. Finché non ci si pensa sembra semplice. Perché l'assenza intensifica l'amore? Tanto tempo fa, quando gli uomini andavano per mare, le donne li aspettavano sulla spiaggia, scrutavano l'orizzonte in cerca della piccola imbarcazione. Adesso io aspetto Henry. Lui scompare senza preavviso e involontariamente. Io lo aspetto. Ogni minuto di attesa dura un anno, un'eternità. Ogni minuto scorre lento, trasparente come vetro. Attraverso ogni minuto vedo un'infinità di minuti in fila, in attesa. Perché se ne va dove io non posso seguirlo?
(incipit)
 
La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo è il romanzo di esordio di Audrey Niffenegger e ci narra la storia di Henry e Clare e del loro amore. Henry ha un raro disordine genetico che gli causa una sorta di "instabilità" temporale. Senza preavviso alcuno, e solo parzialmente a causa dello stress o di forti emozioni, Henry viaggia nel tempo. Nel passato conosce una bambina di nome Clare, e quando lei lo ritrova nel presente, lui non si ricorda di lei (perché in realtà i due non si sono ancora incontrati nella linea temporale di Henry) mentre lei è innamorata di lui sin dal loro primo incontro.
 
Dopo questa splendida sinossi fatta di me, spero che il cervello non vi si sia arrotolato inesorabilmente, e che possiate seguitare a leggere la recensione.
Questo romanzo è solo in parte un romanzo fantastico o di fantascienza. Niente buchi neri, teoria della relatività spazio temporale o rivelazioni paradossali alla "Luke, io sono tuo padre". 
In realtà La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo è prima di ogni cosa un romanzo d'amore.
Il succo di questa storia è: l'amore, quello vero, vince il tempo e lo spazio.
Lo so, detta così sembra una cosa molto banale, ma lo svolgimento di questa premessa non è affatto banale, tutt'altro. Diciamoci la verità: moltissimi romanzi partono da e/o arrivano a questa affermazione.
Prendente le Bucoliche di Virgilio, X egloga. Già allora il poeta scriveva: Omnia vincit amor. (l'amore vince su ogni cosa).
Prendete I Promessi Sposi - alla fine vince l'amore! E di Dante, ne vogliamo parlare? Il Paradiso termina con il verso l'amor che move il sole l'altre stelle. Detto tra noi, la citazione della Divina Commedia la sapevo a memoria! Beccati questa, Robert Langdon! (Se volete sapere perché ce l'ho col professor Langdon, leggete la recensione di Inferno qui)
Senza scomodare i classici della letteratura, prendete Harry Potter: alla fine, stringi stringi, sette libri ci dicono che l'amore vince ogni cosa (pure le maledizioni senza perdono di Colui-che-non-deve-essere-nominato).
Quindi, come vedete, anche i capolavori immortali della letteratura girano intorno a questa verità universale.

La storia d'amore fra Henry e Clare viene narrata in prima persona dai due protagonisti e descritta attraverso i salti temporali di Henry. Un pezzettino alla volta.
Henry e Clare vivono una storia d'amore lunga e intensa, resa ancora più intensa dall'imprevedibilità dei salti di Henry, dai pericoli che lui corre ogni qualvolta si ritrova nudo (non può portare niente con lui durante i salti, nemmeno i vestiti) nel passato (o più raramente nel futuro) e dall'ingegnosità dei piani che escogita per aiutare il se stesso "viaggiatore". Ci sono dei piccoli, deliziosi paradossi temporali, come appunto Henry più vecchio che aiuta Henry giovane o addirittura bambino a cavarsi d'impiccio; oppure ciò che nel presente Clare sa di Henry, ma Henry ancora non sa perché per lui non è ancora accaduto, ma Clare lo sa perché da bambina ha incontrato Henry proveniente dal futuro rispetto a quello che ora per loro è il presente. (Chiarissimo, nevvero?).
La storia è ovviamente tutta giocata sul filo di questo esserci e non esserci di Henry; il suo viaggiare nel tempo in maniera non programmabile né controllabile da al protagonista un punto di vista diverso sulle vicende della vita delle persone che gli sono vicine, ma soprattutto sulla sua.
Henry torna spesso sul luogo dell'incidente in cui sua madre perse la vita (incidente che lo vide uscire illeso perché proprio nel momento fatale, l'Henry bambino saltò nel tempo). Lo guarda e lo riguarda da mille diverse angolazioni e deve accettare di riviverlo senza poterlo cambiare.
Ancora, Henry guarda la sua famiglia vivere prima dell'incidente e forse questo lo aiuta ad elaborare il lutto per la scomparsa della madre e il conseguente allontanamento del padre, che nei successivi trent'anni non riesce a farsi una ragione della perdita della donna che amava.

L'inizio del romanzo è molto intrigante e incuriosisce parecchio. Il romanzo sembra trascinarsi un poco nella parte centrale ma si riprende alla grande nel finale, con un accadimento tragico e una rivelazione (che porterà anch'essa a un evento tragico).
La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo non è semplicemente un romanzo che si legge per sapere come va a finire la storia. Henry e Clare sono due personaggi con cui il lettore si accompagna con piacere. La loro storia è come un puzzle con i pezzi tutti scombinati. Credo che il successo che questo romanzo ha avuto dipenda proprio da questo: al lettore il compito di raccogliere ogni singola tessera e di collocarla al posto giusto. E qualche tesserina rimane anche nel cuore di chi legge.

Non leggo molti romanzi d'amore, non sono esattamente il mio genere, ma questo mi è rimasto davvero dentro. Forse per la spolverata di fantascienza data dell'elemento viaggi nel tempo, o forse semplicemente perché si tratta di un libro ben scritto, con personaggi ben caratterizzati e un finale poetico e struggente.
Voto 8.
 


sabato 20 febbraio 2016

Terapia di coppia per amanti...

...di Diego De Silva.
 
Ho preso in mano questo libro solo perché mi servivano i 15 punti bonus nella sfida lanciata ai lettori dalle Lettrici Geograficamente sparpagliate (evviva la sincerità).
Però c'è da dire che queste sfide tra lettori servono anche a leggere cose che magari non avresti nemmeno preso in considerazione, per ampliare i propri orizzonti e le proprie vedute (evviva la pezza a colore).
Dunque Terapia di coppia per amanti non è proprio nelle mie corde, ma ci ho provato lo stesso.

I protagonisti, Modesto e Viviana, sono amanti da tre anni. Praticamente una coppia stabile, se non fosse che entrambi sono sposati, hanno un'altra vita e un'altra famiglia. Ma che succede quando due amanti clandestini si accorgono che la loro relazione mordi e fuggi si sta trasformando in altro?
Semplicemente, i due decidono di andare in terapia.
  
Terapia di coppia per amanti è narrato in prima persona da Modesto e Viviana (un capitolo l'uno, un capitolo l'altra, più qualche capitolo in cui l'io narrante è il terapista).
Viviana è lo stereotipo di donna che dice A ma intende B, stereotipo che odio all'ennesima potenza. E' sempre pronta  minacciare Modesto di lasciarlo se non si fa a modo suo. Peggio dei bambini, direi. 
Modesto, invece, forse è ancora adolescente nella testa (si fa salvare in calcio d'angolo dal figlio ventenne che inventa una scusa per giustificare una inopportuna telefonata notturna di Viviana) e si lascia trascinare dalla corrente.
Certo l'idea di leggere un punto di vista insolito sull'amore è intrigante. Ma poi, dopo poche pagine trovo (qui il punto di vista è quello di Modesto):

[...]ma se il matrimonio offre tutti questi vantaggi; se immunizza dal contagio delle relazioni squallide e associa di diritto al club di quelli che le schifazzano; se azzera le difficoltà e le miserie della doppia vita; se dà accesso alla poesia della coppia ufficializzata con la condivisione dei bei momenti in cui può capitare di assistere al passaggio della felicità come a quello di una gazzella o di una volpe (ma anche di una pantegana, perché anche le zoccole fanno di questi tagli improvvisi di strada, e anzi le zoccole capita d’incrociarle molto piú spesso di quanto accada con le gazzelle e con le volpi), allora, abbiate pazienza, ditemi per quale incomprensibile ragione c’è cosí tanta gente al mondo che tradisce regolarmente questo luogo di felicità fatta di mutui e di mobili, di suoceri e di cognati, di calzini e di mutande, di verande condonate e di adesivi sui frigoriferi che rimandano di continuo alle loro letterature in corso di sviluppo, per farsi una banalissima amante e infilarsi in una relazione squallida.
Qualcuno me lo spiega, per favore?
Cioè, io leggo un romanzo che dovrebbe propormi un punto di vista differente sull'amore, interno alle menti di due amanti clandestini, e dopo poche pagine leggo la perla di saggezza che equivale più o meno a  il matrimonio è la tomba dell'amore? Cominciamo bene. Anzi no, male. Come se poi fossero solo le persone sposate a tradire. Le coppie di fatto e i fidanzati no, eh.
 Il punto di vista di Viviana, è diverso ma altrettanto banale.
Commentando il rapporto occasionale avuto da un'amica, lei dice:

Privato della fascinazione del rischio (tutto sommato, un ingrediente affabulatorio molto facile), quel gesto cosí apparentemente intriso d’insegnamenti e di significati ti appare come nient’altro che la sveltina di una disgraziata.
E di tutte le immagini che ti sono passate davanti agli occhi, l’unica che ti è rimasta è quella di lei che esce dall’aeroporto lasciandosi alle spalle una famiglia per salire sul taxi e raggiungere una casa in cui nessuno l’aspetta.
No grazie, mi sono sempre detta in queste occasioni, io non la farò questa fine. Se devo ritrovarmi da sola in un delizioso bilocale a disfare le valigie dicendomi come sono fortunata a non stare con un uomo che mi tradisce nel cesso di un aereo con la prima che incontra, e ripetermelo ad alta voce sotto la doccia mentre penso Però com’erano ben vestiti quei bambini, e ritrovarmi incantata sotto il getto dell’acqua a domandarmi da sola Ma che fai, piangi? allora voglio morire sposata, o quantomeno in coppia.

Perfetto. Il matrimonio o quantomeno il rapporto di coppia non come atto d'amore ma come antidoto alla solitudine. Ma prenditi un cane, scusa!

O ancora (sempre Modesto):

Allora lei, lottando con l’acquolina in bocca, mi ha squadrato dal basso verso l’alto come si domandasse se la mia statura fosse tutta lí, e mi ha risposto con una di quelle frasi che tutte le donne, ma veramente tutte, dicono al proprio uomo almeno una volta nella vita (una specie di tradizione biologica, da cui non si scappa):
– Come puoi pensare a mangiare in un momento simile?
Ancora banalità: una di quelle frasi che tutte le donne dicono al loro uomo... Ma quando mai? Parlare per stereotipi e generalizzazioni non è proprio il massimo per un romanzo che ha come obiettivo un'introspezione sulla vita di una coppia non proprio tradizionale.

Quando Modesto, che di professione è musicista, va a suonare in un locale, Viviana va a sentirlo, e un tizio un po' tamarro ci prova con lei. Niente di grave, niente di particolarmente molesto o potenzialmente pericoloso, solo un "come ti chiami?". A nessuno, nessuno, nel romanzo passa per la testa che Viviana possa cavarsela da sola. Modesto va nel panico e manda dal palco un messaggio al proprietario del locale perché intervenga (e il proprietario gli risponde... non avevo capito che era tua. NON AVEVO CAPITO CHE ERA TUA. E stanno parlando di Viviana, non della birra sul tavolo).
Viviana invece pensa che non può fare a meno di sentirsi ferita da Modesto, perché non si delegano certe azioni. Non puoi star lì ad aspettare che intervenga qualcun altro al posto tuo.
Cinquant'anni di lotte femministe buttate nel ces...tino. Certa roba nel 2016 non si può sentire.
 
E andiamo avanti così, con lei che telefona a casa di lui alle quattro di notte perché ha sognato di salire su un treno senza biglietto, lui che si arrabbia ma non solo non la manda a quel paese, ma le lascia tranquillamente condurre questo gioco al massacro di "ti voglio, no, non ti voglio, sei uno stronzo, no aspetta, è tutta colpa mia".
Andiamo avanti così finchè a lei non viene la brillante idea di andare in analisi. Ma perché, poi? Qual è il problema che dovete risolvere? Io non l'ho capito, non ho capito perché stanno ancora insieme, perché dopo tre anni non lasciano le rispettive famiglie per stare insieme, visto che problemi di sorta non ne hanno (anzi, Viviana dichiara pure che sarebbe capace di lasciare il marito nello spazio di una sola giornata, se così le dicesse la testolina). In pratica tutta la storia si regge sul fatto che Viviana è una gran rompiscatole, che ci gode a complicarsi la vita ma soprattutto a complicarla agli altri, e perciò, invece di seguire il consiglio del padre di Modesto, (che paradossalmente è dovrebbe essere un po' borderline invece è la persona più normale del romanzo), non sa cosa vuole e pensa che per capirlo si debba andare in analisi. Ma cosa dice il padre di Modesto? Molto semplice: se sei innamorato e stai con qualcuno che ti ama o almeno dichiara di amarti, allora devi essere felice, e se non lo sei puoi tranquillamente prendere le tue cose e salutare  [...] perché nessuno ti obbliga al martirio.(Mi sembra l'unica affermazione sensata in questo mare di elucubrazioni (termine elegante per intendere: seghe mentali)
E poi arriva il terapista, il dott. Malavolta, che a sua volta (ahah) ha un'amante giovane che potrebbe tranquillamente essere la figlia di Viviana per quanto è assurda (è gelosa perché il dottor Malavolta ha in cura una coppia di amanti. Vabbè.)
Durante la terapia, Viviana finalmente dichiara: io credo che siamo qui perché non sappiamo cosa essere, ma poi ammette di pensare ad un futuro senza incontri clandestini e bed and breakfast. Peccato che questo piccolo dettaglio non lo abbia mai detto a Modesto. No, c'è voluta la terapia per dirgli che vorrebbe qualcosa in più.
L'unica scintilla di interesse l'ho provata quando viene svelato il segreto del figlio sedicenne di Viviana, che ha subito una anno prima un forte trauma e perciò non esce più di casa se non scortato dai genitori. Ma anche qui, Viviana, scusa, tuo figlio vive da semi recluso da un anno e tu pensi ad andare in terapia per aggiustare le cose col tuo amante? Ma mandare lui in terapia per aiutarlo a superare il trauma, povero ragazzo? No, troppo poco cervellotico per Viviana.
le pagine sulla terapia, che dovrebbe essere il cuore del romanzo, si risolvono in un paio di sparuti capitoli che sembrano testimoniare più il sadico compiacimento di Viviana nel rompere le scatole al prossimo, che una vera svolta per la storia.
 
Qui il punto non è concordare o meno con il punto di vista dei personaggi, amarli o meno, approvarli o meno. Il punto è che qualsiasi cosa essi facciano o pensino (perché per il 50% del tempo, pensano e pontificano, per il 30% fanno sesso e nel restante 20% succede qualcosa) o è scontato e banale, oppure completamente assurdo.
 
Come il finale, indotto da una scenata assurda di Viviana SPOILER 
che sbrocca quando scopre che, dopo la sospensione della terapia, voluta dal dottore, Modesto ha continuato a vederlo, ma solo per aiutarlo a ricominciare a suonare la chitarra (il dottore è un musicista mancato e frustrato). E Viviana lo scopre e si incazza. Lascia Modesto, il quale, nel frattempo ha scoperto di non amare la moglie dopo un colloquio col figlio ventenne. Cioè, il figlio ventenne gli fa notare che si vede lontano un miglio che lui non ami più sua moglie, e Modesto ha un'improvvisa illuminazione, manco gli fosse apparso l'Arcangelo Gabriele a rivelargli il terzo segreto di Fatima. Tu stai da tre anni con un'altra e ti accorgi mo di non amre tua moglie, anzi, manco te ne accorgi, te lo devono dire? Io non ho parole, davvero.

 Nonostante non abbia apprezzato quasi nulla in questo romanzo, leggerlo non è stata una fatica, perché De Silva scrive con uno stile agile, ironico e godibile.
Per questo non me la sento di dare un voto troppo basso, diciamo che si conquista un 5.

giovedì 18 febbraio 2016

Non è stagione...

...di Antonio Manzini.
 
Rocco Schiavone, vicequestore nato e cresciuto a Roma, lavora adesso ad Aosta dove è stato trasferito a causa di un provvedimento disciplinare. Antipatico, spocchioso, incline al turpiloquio e al pregiudizio (specialmente territoriale!), fa uso di droghe leggere e non disdegna qualche azione illegale per arrotondare lo stipendio.
Non sente il suo lavoro come una missione, ma come una gran rottura di scatole.
Eppure il suo lavoro lo sa fare.
Quando gli giunge notizia che una sedicenne è sparita, molto probabilmente rapita a scopo di estorsione, inizia a cercarla senza requie, anche se non c'è una denuncia, anche se la famiglia lo ostacola, anche se non ha uno straccio di traccia da seguire.
 
Questo è il terzo romanzo di Manzini con protagonista Schiavone. Gli altri due li ho letti mentre il blog era inattivo, ma se vi interessa leggerne una recensione, c'è una blogger che ne ha fatte due veramente belle.

Non si può scindere la critica al romanzo dalla critica al personaggio costruito da Manzini. Schiavone, diciamocelo chiaro e tondo, è odioso. Un personaggio agli antipodi dei miei adorati Ricciardi e Montalbano. Eppure è una personaggio molto vero e molto umano. Perché lui non è così perché sì e basta; perché l'autore voleva fare l'alternativo e ha creato un tizio di carta insopportabile.
Dietro Schiavone c'è il suo vissuto.
SPOILER
Schiavone ha perso la moglie, e non riesce a darsene pace ed a lasciarla andare. La vede ancora nella sua cosa, le parla, le chiede consiglio, si chiede cosa pensa di questo o di quello. No, prima che lei morisse Schiavone non era uno stinco di santo; ma sicuramente era diverso, meno amareggiato, meno cinico e disincantato.
Quando lo scopriamo, il vicequestore ci diventa più simpatico? Assolutamente no, ma diventa sicuramente comprensibile e reale. Molto reale.
 
Eppure, nonostante questo suo modo di fare e di intendere il suo lavoro, quando si mette sulle tracce della ragazza scomparsa, a Schiavone importa. Gli preme correre, far presto, trovarla prima che sia troppo tardi. Non dorme per quattro giorni, sferza i suoi collaboratori, incalza il magistrato e la famiglia della ragazza e non si da pace. Seguirlo in questa lotta contro il tempo è intrigante e mai noioso.
Il romanzo, in questo caso, è a metà strada fra un giallo deduttivo e uno d'azione (gli altri due romanzi si avvicinano più al genere del giallo deduttivo). Una bella trama, con un buon ritmo e un bellissimo (e tristissimo) colpo di scena finale che tocca da vicino il vicequestore.
Un'altra cosa che apprezzo di Manzini è che sa perfettamente dosare le vicende personali di Schiavone con il caso da risolvere. Non indulge mai nel pietismo o nella commiserazione del suo personaggio. Non è mai prolisso, ma essenziale.
La sua scrittura è misurata e chiara, lo stile trasparente.
Per questo la lettura scorre via agile e snella che è un piacere.
 
Consigliatissimo a tutti gli amanti del giallo. Consigliato a tutti gli altri.
Voto 8 

martedì 16 febbraio 2016

La stagione della caccia...

...di Andrea Camilleri.
 
La stagione della caccia è un romanzo scritto da Camilleri nel 1992. Fu il primo dei suoi romanzi ad ottenere un discreto successo di pubblico e critica, ed effettivamente non me ne stupisco.
 
Il pacchetto a vapore che faceva navetta postale da Palermo, il «Re d'Italia» – ma dai siciliani testardamente continuato a chiamare «Franceschiello» per un miscuglio di abitudine, luffarìa e omaggio al re borbone che aveva istituito il servizio – attraccò, spaccando il minuto, alle due del dopopranzo del capodanno del 1880, nel porto di Vigàta.
 
E' così che inizia la storia, con l'arrivo del battello postale e di un misterioso forestiero, il quale ha intenzione di aprire un farmacia a Vigàta.
Il forestiero, dopo essere stato oggetto di insaziabile curiosità da parte di tutto il paese, si rivela essere Fofò, figlio di Santo La Matina, lavorante del marchese Peluso, ucciso barbaramente venti anni prima.
Al suo arrivo, la tranquilla vita di paese viene sconvolta. Il vecchio e invalido marchese Peluso, terrorizzato dalla sola vista di Fofò, muore gettandosi a mare con le sue ultime forze, non prima di aver affermato che è cominciata la stagione della caccia.
Le morti misteriose si susseguono - disgrazie, oppure qualcosa di strano sta accadendo a Vigàta?
 
Camilleri è un narratore nato. Un artista. Un maestro. Quando Lui racconta, il lettore vede. Con poche, precise parole, è in grado di descriversi personaggi, ambientazioni e perfino la Storia dell'Unità d'Italia.
 
Alla fine del [18]60 don Totò scomparì da Vigàta. 
"Se ne è andato in Calabria, coi briganti", spiegava don Filippo. E chiamando briganti i trentamila rivoltosi di quelle parti, si associava alla sbrigativa, e comoda, definizione dei piemontesi.
 
E secondo me si diverte pure Camilleri quando scrive. Si sente il suo sorriso ironico che pervade il romanzo; si sente la leggerezza che non diventa mai superficialità.
Un discorso a parte meriterebbe la lingua usata: il siciliano, che rende ancora più unica, viva e vibrante la storia.
Ho letto che il romanzo è stato definito un giallo; beh, sì, effettivamente misteri da svelare qui ce ne sono, ma questa, più che una detective story, è una delle tante storie di Vigata che Camilleri ci ha narrato e ci narra. E' una storia composta da tante altre storie. Ognuna aggiunge un pezzetto indispensabile.
I libri di Camilleri sono come un quadro impressionista; per goderne appieno devi fare un passo indietro e averne una visione d'insieme.
E' anche molto difficile recensirne uno; perché ogni romanzo è un'esperienza che onestamente non può essere raccontata, ma andrebbe provata.
 
Consigliato. Voto: 9
 

domenica 14 febbraio 2016

Inferno...

... di Dan Brown.

Facciamo una premessa. Sono (ero?) una fan di Dan Brown. Ho divorato Il Codice da Vinci in una convulsa nottata di lettura, semplicemente perché non riuscivo a smettere.
Ho trovato Angeli e Demoni anche meglio (a parte il finale...).
Crypto aveva dei difetti (qui la mia recensione), ma si tratta di un romanzo che si guadagna la sufficienza. Il Simbolo perduto è stato per me un grosso "oh no!" (qui spiego perché).
E nonostante ciò, ho deciso di leggere Inferno.
Mi sono avvicinata al romanzo senza aspettarmi troppo, ma anche senza pregiudizi. Ho letto troppe stroncature del romanzo che puzzavano di pregiudizio e snobbismo intellettuale da lontano un miglio.
Io cercherò di scrivere una stroncat... ehm, una recensione onesta.
Fine della premessa.
 
Inferno è il quarto libro che vede protagonista Robert Langdon, professore di simbolismo ad Harvard, critico di storia dell'arte e uomo colto e affascinante.
Questa volta il professore si risveglia in un ospedale di Firenze con una ferita da arma da fuoco alla testa. Quando il killer si presenta in ospedale per finire il lavoro, Robert viene aiutato da Sienna Brooks, una dottoressa inglese, a fuggire.
Langdon non ricorda perché sia in Italia, chi gli abbia sparato e perché; ben presto si rende conto che un po' tutti gli danno la caccia: il killer, il consolato degli Stati Uniti, i Navy Seals, gli alieni e Mulder e Scully (no dai, gli ultimi tre me li sono inventati).
Non ricordando nulla degli ultimi due giorni, il professore non sa di chi fidarsi e l'unica cosa che può fare è seguire le tracce fornitegli da un piccolo proiettore laser che si ritrova in tasca. Il proiettore rimanda l'immagine dell'Inferno dantesco dipinto dal Botticelli, ma il dipinto così come riprodotto nasconde degli enigmi, risolvendo i quali Langdon spera di sbrogliare l'intricata matassa.
 
Parte così la solita caccia al tesoro con enigmi, indovinelli e colpi di pistola. Schema già visto in ogni romanzo che abbia per protagonista il nostro professore.
Partono anche le lezioni di storia, letteratura o storia dell'arte a seconda del bisogno, come avevamo già visto ne Il simbolo perduto.
Ho letto molte recensioni schifate, del tipo: " Ma come si permette!!1! Non abbiamo certo bisogno che Dan Brown ci spieghi l'arte o la storia!1!!!".
Potrei ricordare a chi si sdegna che quasi un italiano su due è analfabeta funzionale, o che uno su tre non legge neanche un libro l'anno, quindi che alcune cose siano patrimonio comune non è poi così scontato, ma basta invece dire questo: il romanzo è destinato al pubblico mondiale. Se noi italiani siamo così fortunati da avere Firenze a due passi, e studiamo la Divina Commedia a scuola, non è così dappertutto. Quello che a noi è familiare non lo è ai tre quarti della popolazione mondiale, e giudicare il libro di Dan Brown dall'alto in basso perché si "permette" di ricordarci, ad esempio, che la Divina Commedia è composta di tre cantiche, ciascuna formata da 33 canti (tranne l'Inferno che ne contiene 34), è spocchia. E' miopia intellettuale. E non vedere al di là del proprio naso. Il che mi riporta al discorso sull'analfabetismo funzionale (una delle caratteristiche dell'analfabetismo funzionale è giustappunto l'incapacità di comprendere un testo senza basarsi esclusivamente sulla propria esperienza personale). Ma vabbè, questo è un altro discorso. Nemmeno a me sono piaciute le lezioncine, come spiegherò tra poco, ma massacrarle perché Dan Brown ha osato riassumere e condensare pillole di preziosa storia dell'arte italiana nel suo volume, come se fosse reato di lesa maestà, mi ha infastidito molto.
Quello che però mi ha irritato di più è stato la scelta dei tempi in cui inserire le digressioni storico-letterarie.
Cioè, tu, Robert Langdon, sei inseguito da un numero imprecisato di killer/squadroni della morte/ultras inferociti e ti permetti una smorfia di disappunto perché a Venezia ti tocca prendere un veloce motoscafo-taxi.
"Come amante dell'architettura, gli sembrava quasi impensabile dover sfrecciare lungo il Canal Grande. Poche esperienze veneziane erano più piacevoli che salire a bordo del vaporetto linea 1, preferibilmente di sera, e sedersi davanti, all'aria aperta, mentre le cattedrali e i palazzi illuminati ti sfilavano di fianco". Ma prego, professore, si accomodi. Il mondo lo salviamo dopo, con calma. Gradisce pure un caffè?
Oppure, a Firenze, stai scappando con Sienna Brooks dal solito killer/esercito dei cloni/branco di gnu impazziti attraverso il giardino di Boboli, e... "attraversarono l'anfiteatro - il luogo della prima rappresentazione operistica della storia [...] e oltrepassarono l'obelisco egizio e la disgraziata opera d'arte posta alla sua base. Le guide la definivano una gigantesca vasca di granito proveniente dalle terme di Caracalla, ma Langdon l'aveva sempre vista per ciò che era realmente, la più grande vasca da bagno del mondo. pensò.
Mi meraviglio come non si sia fermato pure a spostarla in qualche luogo di suo gusto, visto che c'era tempo, eh.
Di esempi come questi potrei farne molti. Perché mi irritano tanto? Perché nel momento in cui il protagonista, con cui io lettore dovrei empatizzare, sta scappando, io corro con lui; se lui si ferma a pensare quant'è bella questa colonna, mi fermo anche io, di botto, e a me sembra di averci sbattuto il muso, contro quella colonna. Se tu scrittore continui ad interrompere la fuga con certe digressioni, io non mi sento calata nel romanzo; lo leggo con un certo distacco, e non sto mai sulle spine come dovrei (e vorrei).
Per me, questo è un grosso difetto in un romanzo.
Passiamo alla trama. Sostanzialmente non sarebbe male, se avesse mantenuto un ritmo un po' più sostenuto.
Ci sono colpi di scena, capovolgimenti di fronte, piccoli, innocenti inganni architettati con mestiere da Dan Brown, che ti portano a credere una cosa che in realtà non è, e quando pensi "eh, ma non vale, Dan Brown ha barato" e vai a rileggerti il punto in questione, scopri che l'autore non ha affatto barato, ti ha dato tutte le informazioni ma con un pizzico di furbizia letteraria ti ha portato dove voleva lui, non verso la verità. E questo, per uno scrittore, è certamente un merito e segno di bravura. Mi riferisco a SPOILER
la scoperta della vera identità di Sienna; la doppiogiochista è lei, non il dottor Ferris come sembrerebbe dalla telefonata che lui riceve dal Rettore del Consortium.

 
Quindi, secondo me, Dan Brown è potenzialmente un bravo scrittore. E allora, perché? Perché scrive romanzi tutti col medesimo schema della corsa contro il tempo? Perché per tirarla per le lunghe (ma lo pagano a cottimo? Un tanto a pagina? Vi giuro che il dubbio mi ha sfiorato) a volte Langdon fa la figura dell'ingenuotto che non ci arriva? Perché per dare colore all'ambientazione dice cose come  - più o meno - "indossavano costosi accessori di pelle nera, quindi dovevano essere italiani"? O mi piazza un autista in abito Armani mentre lavora? O ancora, scrive banalità del tipo "Venezia è un museo a cielo aperto" (e non ci sono più le mezze stagioni, signora mia).

E vabbè, ci si potrebbe anche passare su. Potrebbero anche essere solo sbavature. Se non fosse che, alla fine della storia, quando ogni cosa viene svelata, con tanto di colpi di scena e capovolgimenti di fronte, la mia reazione è stata: Dan Brown, ma che davvero?!?
Per chi ha letto Harry Potter, avete presente HP e il calice di fuoco? Bellissimo libro, atmosfere cupe, lirismo, tragedia, etc. etc. ma (ATTENZIONE SPOILER!!!), svelato il piano del cattivo, viene da chiedersi: scusa Voldermort, ma una volta che sei riuscito a piazzare una passaporta E un tuo uomo fidato ad Howgarts, che bisogno avevi di organizzare la piazzata del Torneo Tremaghi?!? Eddai, fai toccare ad Harry la passaporta e via! Voldy, ma che davvero?
 
Ecco, qui è uguale. (SPOILER)

 L'antagonista di Langdon, Bertrand Zobrist è un geniale genetista. Sta cercando di creare un virus che possa far decrescere la popolazione mondiale perché, a parere suo, la Terra è sull'orlo del collasso a causa della sovrappopolazione. Riesce ad elaborarlo, lo nasconde in un luogo segretissimo, e poi lascia alla sua acerrima nemica, la direttrice dell'OMS, una mappa cifrata e degli indovinelli per farle capire dov'è il nascosto il virus.Sì, è vero che secondo i suoi piani, la mappa sarebbe dovuta arrivare all'OMS quando ormai era troppo tardi, ma anche così, che senso ha? Che senso ha mettere in allerta le autorità che cercano di fermarti? Quasi quasi mi aspettavo, alla fine degli indovinelli, una cosa del tipo: e qui ho nascosto il virus potentissimo, gne gne
.
Vi è mai capitato di leggere il divertente testo Le cento cose che farei se fossi il Signore del Male ?
Il punto 11 dice: Sarò sicuro della mia superiorità. Pertanto non sentirò il bisogno di provarla lasciando indizi nella forma di indovinelli o lasciando i miei deboli nemici vivi per dimostrare che sono troppo deboli per minacciarmi.
Ecco, appunto.
E la spiegazione "Tizio ha fatto così perché è un pazzo megalomane" me la bevo in poche, selezionatissime occasioni. E questa non è una di quelle occasioni.

Eppure, se sorvoliamo sul come siamo arrivati fin lì, devo ammettere che, inaspettatamente, Dan Brown ci regala un finale non banale né scontato. Un finale che, sinceramente, lascia qualche spunto di riflessione. Siamo partiti con una certa idea dell'Inferno, del male in terra, e finiamo col dover riconsiderare le nostre posizioni. Il finale è inquietante, nel senso buono del termine.
Certo, potrei lamentarmi dicendo che mi sarei aspettata un'onda emotiva maggiore nei personaggi dopo la rivelazione finale, ma facciamo che per stavolta mi accontento così. Almeno stavolta nessun alto prelato salta da un elicottero in volo.

In sintesi: un romanzo prolisso e con un ritmo altalenante, che tuttavia conserva un certo fascino a causa dei luoghi in cui è ambientato e degli argomenti trattati (l'inferno, l'Apocalisse prossima ventura). La trama non è solidissima, ma il finale è buono.
Voto: 5 e 1/2.


 

venerdì 12 febbraio 2016

Voli Acrobatici e Pattini a rotelle a Wink's Phillips Station...

di Fannie Flagg.
 
Sookie Poole è una signora di mezza età che ha appena finito di organizzare il matrimonio dell'ultima delle sue figlie. Crede di poter, finalmente, godersi il meritato riposo. Ma una misteriosa telefonata, seguita da un altrettanto misterioso plico, turberanno per sempre la sua esistenza. Sookie scopre di essere stata adottata, di non essere figlia di Lenor, la donna che ha sempre considerata sua madre. Lenor non è una donna facile: prepotente, arrogante, comanda a bacchetta tutta la famiglia ancora oggi, che ha passato gli ottanta. Sookie ha sempre vissuto in un certo modo, è sempre stata dolce, remissiva, e ha sempre dedicato la vita alla sua famiglia, perché pensava che quello fosse il suo ruolo. Ma ora che scopre di non essere chi credeva, cosa ne sarà della sua vita?
 
Fannie Flagg risponde all'interrogativo nel suo solito modo garbato, leggero e discreto.
Sookie, già incontrata in "Pane, Cose e Cappuccino dal fornaio di Elmwood Springs" (a proposito, indovinate quale libro ha ispirato il nome del blog? ), dopo aver scoperto di essere figlia illegittima di una ragazza di origini polacche vede crollare il suo mondo perché non sa immaginarsi al di fuori del disegno creato per lei da sua madre.
Diciamoci la verità, Sookie è una pappamolla e sua madre una despota. Inizialmente le ho odiate entrambe. Certo, quando il plico inatteso porta lo scompiglio nella vita di Sookie, lei reagisce in maniera decisamente comica, e qualche sorriso lo strappa. Ma nonostante ciò non riuscivo a capacitarmi di come non avesse ancora mandato cordialmente a quel paese sua madre, che l'ha fatta sentire per tutta la vita inadeguata agli standard dei Simmons (sua famiglia di origine), ben conscia di mentirle ogni volta che le ricordava le sue origini.
Ma poi Sookie, riavutasi dalla shock, superata la rabbia repressa e mai manifestata, cerca di capire. Capire chi è, da dove viene, e perché sia finita tra le braccia della sua famiglia adottiva.
 La cosa più bella di questo libro è che noi iniziamo a capire insieme a lei: la Flagg, cominciando la narrazione dall'inizio del secolo scorso, ci racconta la storia della famiglia naturale di Sookie, alternando i racconti ambientati nel passato con quelli ambientati nel presente.
E' uno stratagemma letterario molto coinvolgente.
La storia della famiglia polacca Jurdabralinski prende lentamente il sopravvento. Le sorelle Jurdabralinski sono delle persone eccezionali, fanno cose eccezionali, ed amarle è facile. La parte centrale del romanzo riguarda il loro arruolamento nelle cosiddette WASP, aviatrici ausiliare che durante la seconda guerra mondiale fornivano supporto logistico alle truppe americane. Delle pioniere sicuramente, ma osteggiate e discriminate (se volete saperne di più sulle WASP, consultate questo link).

Non è altrettanto facile amare Sookie e il suo molle conformismo.
Ma mentre noi lettori scopriamo la forza delle sorelle J. e specialmente di Fritzi, la maggiore, Sookie piano piano evolve e matura. Sì, matura a sessant'anni. E capisce molte cose di sé, ma soprattutto, impara ad accettarsi. Impara ad accettare la sua vita e i suoi difetti. Impara a vedersi sotto una luce nuova, e diversa. La vita, nella sua imprevedibilità, le ha dato una seconda occasione, e per coglierla Sookie non ha bisogno di gesti eclatanti alla Thelma e Louise. Semplicemente Sookie ha capito che la sua vita le piace e la ragione per cui ne era insoddisfatta era perché pensava di dover soddisfare determinati standard, di dover soddisfare qualcuno, di dover dimostrare qualcosa. E invece non è così.

C'è qualcosa di molto consolante in questo messaggio. C'è qualcosa nei romanzi della Flagg che ci dice che ce la possiamo fare. Anche di fronte al capovolgimento di tutto ciò su cui avevamo costruito la nostra vita. Anche di fronte alla tragedia (perché, per quanto leggeri, delicati e piacevoli, nei libri della Flagg le cose brutte capitano).
Perché, sembra dirci, la vita non è aspettare che la tempesta passi; è imparare a danzare sotto la pioggia.

Consigliato. Voto finale: 8