giovedì 31 agosto 2017

Niente di nuovo sul fronte occidentale...

... di Erich Maria Remarque.

La scheda del libro sul sito Mondadori

Germania, 1914. Paul Bäumer ha diciannove anni quando, spinto dall'entusiasmo e dalla propaganda patriottica, decide di arruolarsi volontario per combattere durante la Prima Guerra Mondiale. Insieme a un gruppo di compagni di scuola, parte per quella che a loro sembra una gloriosa avventura. Ma di glorioso, onorevole e avventuroso la guerra non ha nulla. Paul lo scoprirà lentamente, sulla propria pelle.
 
Per meglio comprendere il romanzo che sto per recensire, è necessario spendere due parole sul suo autore. Remarque si arruolò a diciotto anni, come il protagonista del suo romanzo, e come lui combatté nelle trincee sul fronte francese. Partecipò alla battaglia delle Fiandre. Dieci anni dopo la fine della guerra, per rielaborare quello che forse oggi chiameremmo "un disturbo post traumatico da stress", fatto di continue depressioni e attacchi di panico, scrisse Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il romanzo ebbe un grande successo, ma con l'ascesa del nazionalsocialismo, venne considerato un libro disfattista e pericoloso, e addirittura bruciato in piazza nel 1933.
La ragione è semplice: nella sua estrema, disarmante semplicità, il romanzo mostra la brutalità e l'insensatezza della guerra. Per farlo, non ha bisogno di ricorrere chissà a quali artifici retorici, espedienti narrativi o altro; al romanzo basta raccontare la fredda cronaca. E in questo sta la sua grandezza.
 
Questo è uno di quei libri che andrebbero letti almeno una volta nella vita. Siamo abituati a pronunciare parola come la tragedia della guerra o gli orrori della guerra, ma la maggior parte della volte sono frasi di circostanza, perché la verità è che la mia generazione (anni '70 del secolo scorso) non ha la più pallida idea di cosa voglia dire trovarsi in mezzo ad un conflitto (e voglia il cielo che non debba scoprirlo mai).
Questa romanzo riempie queste frasi di contenuti e di realtà.
Con uno stile semplice, lineare, con frasi brevi e asciutte fotografa la guerra di trincea. Snervante, estremamente dispendiosa in termini di vite umane, insensata e incomprensibile per chi la combatte. Ci racconta del sangue, della fame, delle piaghe, dei minuti che non passano mai, dei fischi delle granate, dell'amicizia, della morte, del cameratismo.
 
Paul e i suoi compagni partono per la guerra pieni di orgoglio per la missione che si apprestano a compiere. Oltre alle brutture, alle perdite, al sangue, agli stenti che il conflitto metterà loro davanti, la guerra gli ruberà proprio questo orgoglio, questa speranza di combattere per una giusta causa e per un mondo nuovo e migliore. In parole povere, ci dice lo scrittore, la guerra ruberà loro la speranza nel futuro.
 
[...] non siamo più giovani, non aspiriamo più a prendere il mondo d'assalto. Siamo dei profughi, fuggiamo noi stessi, la nostra vita. Avevamo diciott'anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l'esistenza: ci hanno costretti a spararle contro.
La prima granata ci ha colpiti al cuore; esclusi ormai dall'attività, dal lavoro, dal progresso, non crediamo più a nulla. Crediamo alla guerra.

Niente di eroico o di consolante vi è nella morte.

Francesco Kemmerich [un commilitone del protagonista, n. d. Lisse]  al bagno pareva piccolo e sottile, come un fanciullo. Ora è lì, disteso; perché poi? Vorrei far sfilare tutto il mondo davanti a questo letto, e dire: “Questi è Franz Kemmerich, diciannove anni e mezzo; non vuol morire. Non lasciatelo morire!”
 
E non c'è gloria nell'uccidere un altro uomo.
 
Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un'altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole.
Ma prima tu eri per me solo un'idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula.

Soltanto ora vedo che sei un uomo come me.
 
Questa è la frase più bella nel romanzo e ne racchiude tutto il senso.
 
Quando un romanzo ha quasi 100 anni e riesce ancora ad avere qualcosa da dire: quando si riferisce ad eventi lontanissimi nel tempo, eppure potrebbe benissimo riferirsi a fatti più recenti, allora vuol dire che è un capolavoro, e che merita di essere letto.

Voto: 10

venerdì 25 agosto 2017

Le mille luci del mattino...

... di Clara Sanchez.

La scheda del libro sul sito della Garzanti

Emma, dopo la rottura con il fidanzato e convivente Raul, trova lavoro presso una grande azienda. La sua sede di lavoro è un grande palazzo di vetro nel quartiere finanziario di Madrid, dove Emma dapprima comincia come receptionist, fino ad arrivare ad essere l'assistente del vice presidente. All'interno della Torre di Vetro, come lei ha soprannominato la sede dell'azienda, le persone intrecciano strane relazioni, custodiscono segreti e vivono vite parallele a quelle che vivono "fuori", nel mondo reale, per così dire. Emma, dal suo punto di osservazione privilegiato, scopre bugie e falsità che si nascondono dietro vite e comportamenti all'apparenza perfetti ed irreprensibili.

Andando dritto al sodo, questo romanzo non mi è piaciuto. L'ho trovato noioso, pedante e surreale (ma non in senso buono).
Emma narra in prima persona la sua ascesa, in senso letterale e metaforico, all'interno della Torre di Vetro: dal piano terra della reception, fino al diciannovesimo piano dove ha sede la vicepresidenza. Quando giunge a lavorare come assistente del vice presidente, Emma comincia a sospettare che qualcosa non vada. Non ha lavoro da fare, perchè il vice presidente non ha niente da fare. Quindi niente appuntamenti, niente lettere da scrivere, appunti da sistemare, eccetera. Bloccata in questa situazione a metà strada fra il romanzo surreale (come dicevo prima) e il mobbing, Emma comincia a inventarsi cose da fare pur di non starsene con le mani in mano. Inconsapevolmente questo suo smaniare per lavorare metterà in allarme l'intera struttura aziendale, creando il sospetto che il vice presidente stia tramando qualcosa. Da qui, Emma comincerà pian piano a scoprire le storie che sono dietro ogni personaggio dell'organigramma.

Detta così, la trama del romanzo sembra anche interessante. Peccato però che ci siano due ordini di problemi.

In primo luogo, Emma è un personaggio piatto. La sua voce narrante è lenta, noiosa, priva di emozione. Mi ha ricordato il tono piatto e monocorde con cui certe volte i traduttori riportano i discorsi che che devono tradurre (niente contro i traduttori, eh, ma è ovvio che traducendo non possono anche simulare il tono di chi parla). Potrei anche paragonarla alla gioiosa verve con cui una volta leggevano in TV le estrazioni del lotto. 
E' come se Emma osservasse cose, situazioni, persone in maniera distaccatissima, asettica, neutrale. Ad un certo punto, vista anche la tendenza della protagonista a immaginarsi storie sordide dietro ogni comportamento delle persone che osserva (storie che poi puntualmente si riveleranno vere, ma questo è un altro discorso), ho cominciato a pensare che alla fine avremmo scoperto che Emma fosse una psicopatica, che avesse un disturbo della personalità, che tutto quello che raccontava fosse una realtà distorta dal suo disturbo. E invece no.
La cosa bella è che, leggendo altre recensioni, ho notato che anche altre blogger avevano avuto la stessa impressione! Per esempio, date un'occhiata alla recensione sul blog La libreria di Tessa: la blogger ha avuto le mie stesse identiche impressioni.

Il secondo ordine di problemi riguarda le storie che Emma scopre o immagina prima e scopre poi. Sono tutte storie potenzialmente interessanti ma brevi e slegate tra di loro. Insomma, sono giusto un gradino sopra il pettegolezzo da ufficio, perchè non costruiscono un affresco coerente.

L'unica cosa che forse riesce bene a questo romanzo è di fornire una spaccato dalla vita alienante che conducono gli impiegati di una grande impresa, dove la competitività è spinta fino all'accesso, i rivolgimenti della fortuna sono dietro l'angolo e ogni mossa viene guardata con sospetto. Ma se questa fosse stata davvero l'intenzione dell'autrice, forse sarebbe stato meglio concentrarsi su questi punti, invece di raccontarmi le classiche storielle di bugie, tradimenti, relazioni clandestine e simili.

Voto: 5

giovedì 24 agosto 2017

La ragazza con l'orecchino di perla...

... di Tracy Chevalier.

La scheda del libro sul sito della Neri Pozza

Olanda, XVII secolo. Griet è un'adolescente quando, per aiutare la famiglia, in gravi difficoltà economiche da quando suo padre è diventato cieco in un incidente sul lavoro, va a servizio nella casa del grande pittore Johannes Vermeer. L'uomo da subito nota che Griet, nonostante la sua giovane età e la sua scarsa cultura, ha un'intelligenza e un senso estetico fuori dal comune.  Inizia così un rapporto a distanza fra l'uomo e la ragazza, una passione nascosta e tenuta a freno dalle convenzioni,  in cui si intrecciano l'amore per la pittura e i sentimenti più reconditi dei protagonisti.

La ragazza con l'orecchino di perla ci narra cosa c'è dietro il famoso quadro di Vermeer La ragazza col turbante. Su uno sfondo storico abbastanza accurato, si dipana la storia di Griet, giovane cameriera inesperta in una grande casa, e quella del suo tenebroso padrone, pittore all'apice della carriera, ombroso, misterioso e sfuggente.
Il romanzo è narrato in prima persona da Griet, la quale racconta le vicende di cui è protagonista con lo stesso tono entusiasmente che uso io quando leggo per telefono la lista della spesa a mio marito.
Il tono è infatti piatto e privo di colore; perfino alcuni eventi tragici come la peste che colpisce la città, con la famiglia di Griet isolata nella zona posta in quarantena, vengono snocciolati senza pathos alcuno.

La storia è incentrata sui rapporti tra i personaggi, ma sono proprio questi a non funzionare affatto. Griet non ha alcun tipo di preparazione culturale, eppure riesce meglio di chiunque altro a destreggiarsi nell'aiutare il suo padrone con colori e sfumature, arrivando persino a dargli consigli su come modificare la luce in un dipinto, o cosa spostare per far funzionare un quadro. Un talento naturale e improvviso, insomma. Se a ciò aggiungiamo che praticamente ogni uomo che Griet incontra le cade ai piedi; e che la moglie di Vermeer è da subito (da quando la vede in casa sua prima che lei vada a servizio) gelosa di lei; e che la figlia maggiore dei Vermeer è immotivatamente crudele con lei, ci rendiamo conto che Griet è uno di quegli odiosi personaggi che sanno fare tutto senza sforzo, e che vengono osteggiati senza un vero perchè da personaggi invidiosi di loro, personaggi che hanno lo spessore di un foglio A4 e la cui unica funzione nel romanzo è far brillare la virtù e la bontà della nostra eroina. Insomma, Griet è una Mary Sue [1] fatta e finita, insomma.

L'asse portante del romanzo, ovvero lo sviluppo della passione tra la servetta e il famoso pittore, è semplicemente inconsistente. Nasce perchè sì e si nutre... ecco, esattamente, di cosa si nutre per crescere? Non saprei individuare nel romanzo le ragioni che fanno crescere questa passione.
L'episodio cardine della storia, cioè quando Griet indossa il famoso orecchino per posare per Vermeer, suscita un tale putiferio, scandalo e sommovimento di passioni in casa Vermeer, ma io non sono riuscita  a spiegarmi perchè. Cioè, non era la prima volta che il pittore dipingeva servette o popolane, e non era la prima volta che queste indossavano abiti o accessori presi dall'armadio della padrona di casa, ma Griet suscita scandalo. Perchè? Boh. Perchè sì.

Il romanzo resta molto fiacco. Ottimo e intrigante nelle intenzioni e nello spunto, oscuro e inconcludente nel suo sviluppo, nonostante lo sfondo storico interessante.
Voto: 5 

[1] Se non sapete cosa sia una Mary Sue, cliccate qui

martedì 22 agosto 2017

Vita bassa e tacchi a spillo...

... di Polly Williams.

La scheda del libro sul sito della Piemme Edizioni

Amy è una giovane mamma londinese. La piccola Eve non è stata esattamente programmata, ma Amy e il suo compagno Joe cercano di far funzionare le cose e di costruire una famiglia solida. Un giorno però, mentre passeggia con Eve, Amy vede Joe in atteggiamento molto molto intimo con una donna... Il suo mondo crolla, e Amy si trova improvvisamente a chiedersi cosa è successo alla sua vita, da dove vengono quei chili di troppo e quei vestiti sformati così diversi da quelli che le piacevano una volta. Dopo il primo momento di crisi, però, Amy decide che è arrivato il momento di rimettersi in carreggiata e di cambiare tutto quello che non le piace della sua vita attuale.
Amy sta attraversando il classico periodo difficile conseguente al parto. Quando la gravidanza giunge al suo termine naturale, ti ritrovi con un neonato e senza avere la più pallida idea di cosa fare. Ad aggravare la situazione, la giovane madre assiste ad un tradimento del suo compagno, e senza avere il coraggio di parlarne con lui, continuerà a rimuginarci sopra e prenderà tutta una serie di decisioni (alcune innocue, altre decisamente meno) che rischieranno di trasformare tutta la sua vita in un fallimento.
Questo libro sembra a prima vista un altro tipico romanzo di chick lit inglese. In realtà è qualcosa di diverso. È un romanzo sulla maternità, anzi, per essere precisi su quanto sia difficile essere madri. In particolare, su quanto la maternità reale sia diversa da quello stato di grazia raccontato da libri, film e anche da parenti e amici. Oggi giorno, anche grazie a facebook e a diversi blog, la maternità reale è molto più discussa di un tempo, ma questo romanzo è del 2006, quindi ha comunque una sua ragione d'essere. E lo apprezzato per questo.
Tuttavia, il mio giudizio su questo romanzo non è univoco. Se da un lato mi sono trovata a leggere righe annuendo e pensando "oh, quanto è vero!" (e qualche volta la schiettezza di certe affermazioni sulla maternità mi ha strappato una lacrimuccia), altre volte mi sono ritrovata a leggere episodi di una superficialità sconcertante.
Esempi del primo tipo:
Il problema è che una volta che hai sfornato il suo nipotino, qualunque mamma o suocera ritiene di avere il pieno e completo diritto di accesso nella tua vita. [...] E quello che invece vorresti da loro è che fossero lì la mattina a darti il cambio per farti recuperare un po' di sonno arretrato, prepararti il tè e poi sparire nel nulla. Ma non lo fanno.
Oppure:
In quel momento, Londra sembra un posto assai benigno e mi sorprendo a riflettere che, nonostante tutti gli sforzi dei genitori per incasellarli nelle scuole giuste, e nelle regole, e nelle diete, l'esuberanza dei piccoli resiste a tutto. E sono proprio i bambini a civilizzare posti come Londra, a conferirle una certa umanità.
In particolare trovo questa frase molto bella e profonda.
Ma poi mi ritrovo a leggere di persone, protagonista compresa, che fanno un lifting a 32 anni perché convinte di essere vecchie; o di persone, ancora una volta protagoniste compresa, che si vergognano di entrare in un certo negozio perché considerato da "sfigati" (roba che manco a 14 anni!) e allora sì che resto un po'perplessa. E queste situazioni da me citate vengono considerate normali; cioè non viene in alcun modo messo in evidenza che si tratti di aberrazioni, di esasperazioni di persone probabilmente frustrate per altri motivi.
Il personaggio di Amy è il più approfondito e quello riuscito meglio; eppure anche lei ha dei momenti di sconcertante surrealismo. La decisione di non rivelare a Joe di averlo visto con un'altra, man mano che le pagine del libro fluiscono, diventa sempre meno giustificabile logicamente, ed appare evidente che sia dovuta esclusivamente ad esigenze di trama. Ancora, trovo inspiegabile la decisione di Amy di frequentare tutta una serie di personaggi orribili, che lei mal sopporta ma che si sente costretta a vedere con regolarità perché madri come lei. È come se davvero Amy non fosse esistita prima della sua maternità. Capisco che un figlio ti cambia la vita, ma questo taglio netto tra prima e dopo mi è sembrato francamente esasperato al punto da apparire irreale.
Eppure in una cosa questo romanzo riesce bene. Pur con i suoi alti e bassi, riesce a parlare di maternità con sincerità, descrivendo anche quelle sensazioni negative che ogni madre prova, ma che non vengono confessate neanche sotto tortura.
Insomma, lo consiglierei a chi ama il genere.
Voto: 6 e 1/2.

domenica 20 agosto 2017

La regola dell'equilibrio...

... di Gianrico Carofiglio.

La scheda del libro sul sito Einaudi

Guido Guerrieri è un avvocato penalista a Bari. Single, malinconico, pericolosamente vicino alla mezza età e con la tendenza a riflettere su tutto e ad intrattenere un ricco dialogo con se stesso, Guido entra in crisi quando si trova difendere un giudice su cui pesa un'accusa di corruzione. Il giudice è un tipo duro e irreprensibile; il pentito che lo accusa di provata attendibilità. E allora? Dove sta la verità? L'avvocato Guerrieri dovrà lavorare su un caso che metterà a dura prova le sue certezze.
 
Quinta indagine dell'avvocato Guerrieri, sognatore malinconico e solitario. Guerrieri come sempre cerca di barcamenarsi fra l'esigenza di svolgere il suo lavoro nel migliore dei modi (e questo comporta anche difendere i colpevoli) e la necessità di non tradire la sua coscienza e il suo senso di giustizia.
Molte pagine del romanzo sono dedicate a questo interessante dilemma che chiunque si sia mai avvicinato alla professione di avvocato e allo studio del diritto ha conosciuto: la difesa è un diritto inalienabile e costituzionalmente garantito: l'avvocato DEVE fare di tutto perché il suo cliente sia assolto; come si combina questo con l'etica, la morale, la coscienza?
Gianrico Carofiglio spiega il suo punto di vista sulla questione, punto di vista che io ho trovato estremamente chiaro, interessante e ben argomentato. Ho amato le pagine in cui il protagonista parlando a se stesso o ad altri personaggi spiega questa dualismo della professione di avvocato e spiega la necessità della difesa tecnica e la sua eticità.
Essendo stata avvocato, e parte di quel meccanismo per diversi anni, ovviamente ho apprezzato tali argomenti; mi resta però il dubbio che un lettore non altrettanto interessato o informato sulla materia possa trovare noiosi e pesanti i suddetti passaggi. Io li ho trovati molto stimolanti anche perché, a parer mio, ben inseriti nella trama.
 
Il caso giuridico che occupa la storia è quello di un giudice accusato di corruzione: un caso delicatissimo che tocca il cuore degli ingranaggi che fanno funzionare la giustizia, e tocca nel profondo anche la morale dell'avv. Guerrieri.
 
Com’era quella frase dei Fratelli Karamazov? «Chi mente a sé stesso e presta ascolto alle proprie menzogne arriva al punto di non distinguere piú la verità, né in sé stesso, né intorno a sé». La citava spesso mio nonno, e diceva che la regola dell’equilibrio morale consiste nell’opposto del comportamento descritto in questa frase. Consiste nel non mentire a noi stessi sul significato e sulle ragioni di quello che facciamo e di quello che non facciamo. Consiste nel non cercare giustificazioni, nel non manipolare il racconto che facciamo di noi a noi stessi e agli altri.
 
Come sempre l'autore riesce a rendere comprensibile, semplice e viva la procedura e le sue regole. Questa resta la ragione per cui amo ogni volta di più i romanzi di questo autore. Carofiglio è uno dei pochi autori italiani, se non l'unico, che riesce a scrivere dei legal misteries (o meglio, dei procedural) all'italiana, utilizzando un sistema giudiziario che per sua stessa natura poco si presta a questo tipo di opere.
Ma la definizione di procedural sta stretta a quest'opera di Carofiglio, perché l'approfondimento psicologico dei personaggi, in particolar modo del protagonista, e altresì l'approfondimento di temi etici e morali conferiscono a questo romanzo uno spessore e una complessità di tutto rispetto.
 
Un buon romanzo, ben scritto, profondo e interessante. Sconsigliato a chi in questo genere cerca esclusivamente ritmo e adrenalina.
 
Voto: 7 e 1/2

sabato 19 agosto 2017

La perfezione non è di questo mondo...

... di Daniela Mattalia.


Torino, ai giorni nostri. Adriano è un ottantadueenne, professore di filosofia in pensione, che ha appena perso la moglie. Eppure la vede ancora, all'ospedale Le Molinette dove è morta, ma lei non gli rivolge la parola, sembra pensierosa, affaccendata. Ma Adriano la vede davvero, o è un sintomo di una follia oramai ineluttabile? Cercando di capire cosa sta accadendo, Adriano incrocerà le vite di altri personaggi: la libraia Gemma; il giovane grafico precario Fausto con il suo cane indisciplinatissimo; Olga, una anziana signora ricoverata per una gamba rotta; Angelo, un tassista sempre presente e un po' filosofo.

La perfezione non sarà di questo mondo, va bene, ma alcune opere però ci vanno vicino.
Questo romanzo è delizioso, delicato, leggero e divertente.
L'autrice, che esordisce con questo libro, ci presenta quattro personaggi principali, più uno (il tassista Angelo) che funge da jolly e da collegamento a tutti loro.
Sembrerebbe che Adriano, Fausto, Gemma e Olga non abbiano nulla in comune, ed in effetti è così. L'unica cosa che li lega è che le loro vite sono ad un punto di svolta senza che loro se ne rendano pienamente conto. Sono persone comuni, con vite al limite della banalità che però, più o meno inconsapevolmente, entrano in contatto con i grandi temi dell'esistenza.
Adriano è rimasto vedovo, e dopo una vita passata con una compagna che adorava, sicuramente si trova ad un bivio. Ma non sa che c'è ancora qualcosa da fare, qualcosa da capire prima di poter elaborare il suo lutto.
Gemma è sul punto di perdere il lavoro, o forse no? E dovrà trovare il coraggio di non avere paura di cambiare, di amare, di vivere.
Olga invece è messa su una strada inconsueta da un incidente che le cambierà letteralmente la vita.
Fausto invece vive un po' come fa il suo simpatico cane Archibald: correndo giocoso, senza fermarsi a pensare, prendendo quello che di bello c'è in giro. L'incontro casuale con Adriano lo aiuterà a cambiare punto di vista.
E su queste vite al bivio aleggia l'ombra della morte. 

E' interessante notare che l'autrice abbia scelto di usare la morte per parlarci della vita.

"Ma quelle dei romanzi sono vite inventate," aveva obiettato Adriano.
"Gli scrittori non inventano" aveva replicato lui. "O meglio, inventano per capire. E si cerca di capire la realtà. Sempre". 

E' come se guardassimo le vite dei protagonisti mettendole a fuoco con una lente fornitaci da chi ora non c'è più... o meglio, da chi non dovrebbe esserci più ma continua ad indugiare su questo piano di esistenza materiale.
Il libro ruota intorno alla domanda di Adriano: sua moglie è davvero ancora qui, o il vecchio professore di filosofia comincia a dare i numeri? E mentre cerchiamo una risposta intorno a noi scorre la vita che l'autrice ci racconta. Con profondità, ma senza essere pesante. Con ironia, ma senza deridere i protagonisti.
Mi pare un bel modo di parlarci del dolore, del lutto, della vita che va avanti, che lo si voglia o no, e dell'amore, che non muore.
Insomma, questo romanzo mi è piaciuto tantissimo. E' una lettura gentile, delicata, stimolante e piacevole. 
Consigliatissimo.

Voto: 8

martedì 15 agosto 2017

I Medici. Una regina al potere...

di Matteo Strukul.

La scheda del libro sul sito della Newton & Compton

 Francia, 1536. Francesco di Valois, delfino di Francia, viene assassinato e Caterina de' Medici, moglie di suo fratello minore Enrico, viene sospettata di aver tramato per ucciderlo. Del resto, nonostante si sia dedicata anima e corpo alla corte di Francia, è sempre rimasta un'estranea, un'italiana, una mercantessa di basso lignaggio. Fortunatemente, il re apprezza le sue qualità e la sua intelligenza, e crede alla sua innocenza.
Inizia così la storia di Caterina alla corte dei re di Francia, nel disperato tentativo di dare un erede al futuro sovrano e di sopravvivere a pericolosi intrighi. Tutto con un solo obiettivo: consolidare il potere dei Valois, alla cui causa Caterina ha consacrato la sua vita.

So bene che questo volume è il terzo della trilogia dedicata alla famiglia de' Medici, ma avevo bisogno di lggerlo per continuare il mio percorso in una divertente challenge librosa (The Goose Reading Challenge sul blog di Rosaria Niente di Personale) e così mi sono buttata.
I tre volumi che compongono la trilogia trattano di periodi storici differenti perciò le storie possono essere lette autonomamente.
Contrariamente ai due volumi precedenti ambientati nella Firenze del 1400, qui ci troviamo in Francia, alla corte di Francesco I di Valois. Caterina vi giunge come moglie del figlio cadetto Enrico. La situazione però cambia repentinamente quando l'erede al trono e fratello maggiore di Enrico viene assassinato. Dopo essersi liberata (piuttosto velocemente, a dire il vero ) del sospetto di essere in qualche modo la mandante dell'omicidio, Caterina diventa una figura di spicco nella corte, molto più di suo marito, diviso tra le stima per lei e il dovere coniugale da un lato, e l'amore imperituro per Diana, la sua favorita e amante di sempre. La rivalità fra le due donne lascerà un segno nella storia di Francia (almeno secondo questo romanzo). 
Caterina è una donna molto intelligente, non bellissima ma piena di qualità, legata però al marito da un amore non totalmente corrisposto. Nonostante il dolore mai sopito per questa circostanza, Caterina terrà in mano le redini della vita politica francese con acume, intelligenza e a tratti anche con comportamenti privi di scrupoli.

Sinceramente mi rendo conto che l'opera di Strukul andrebbe giudicata nel suo complesso, ma devo ammettere che quello che ho letto non mi ha lasciata pienamente soddisfatta.
In verità, mi sono annoiata, e anche parecchio.
La struttura del romanzo è composta da finestre temporali; in pratica l'autore saltella allegramente, ogni tot capitoli, da un anno all'altro, lasciando buchi di diversi anni tra i gruppi di capitoli. Questo, secondo me, ha spezzato il ritmo del romanzo e ne ha irrimediabilmente inquinato la narrazione.
Se, ad esempio, sul finire di un capitolo, un intrigo di corte potenzialmente pericoloso risveglia la nostra attenzione, girando pagina ci accorgiamo che sono passati 4, 5, 10 anni da quel momento, e tutto si è risolto nel migliore dei modi (e noi non lo abbiamo potuto leggere tra le pagine del romanzo).
Emblematico è il caso dei capitoli 21 e 22, ambientati nel 1544; siamo nel bel mezzo della guerra fra la Francia e Carlo V d'Asurgo. Lasciamo Enrico, delfino di Francia e marito di Caterina, in pericolo in mezzo a soldati imperiali, proprio nel momento in cui, a palazzo, finalmente sua moglie ha dato alla luce il suo primogenito. Enrico e la sua fedele guardia del corpo devono fuggire per salvarsi la vita; hanno la meglio su un gruppo di nemici e si gettano nel folto del bosco. Perfetto, giriamo pagine e... siamo nel 1547.
La cosa mi ha dato parecchio fastidio, ed è la ragione che mi ha impedito di appassionarmi alle vicende dei personaggi.

Forse proprio a causa dei continui salti temporali, i personaggi stessi non risultano molto approfonditi, e seguirne l'evoluzione è difficile. Onestamente anche la Caterina di cui ho letto nel finale mi sembra in contrasto con quella che  - a fatica - mi ero raffigurata durante il corso del romanzo. Avevo imparato a conoscere una donna dall'intelligenza sottile, acuta, bravissima a valutare le conseguenze di ogni spostamento sulla scacchiera del potere; sul finire del romanzo mi ritrovo invece una donna che non va per il sottile, che risolve i problemi ordinando assassini e massacri senza porsi troppi problemi. Certo, l'evoluzione del personaggio è possibile; ma io ho avuto l'impressione di essermi persa la parte in cui lei cambiava. Ho avuto l'impressione che l'autore non mi avesse detto tutto.

Quindi, no, questo non è un romanzo che mi ha colpito, o che mi sentirei di consigliare. Devo dire che dalla sua ha una certa scorrevolezza e facilità di lettura, che lo rendono tutt'altro che pesante.

Voto: 6

sabato 5 agosto 2017

Rondini d'inverno. Sipario per il commissario Ricciardi...

... di Maurizio de Giovanni.



La scheda del libro sul sito Einaudi

Napoli, anni '30. Il commissario Luigi Alfredo Ricciardi indaga sulla morte di una nota cantante di rivista, Fedora Marra. Durante una versione sceneggiata della canzone Rondinella, uno dei pezzi forti della rivista, suo marito Michelangelo Gelmi spara (a salve) alla donna, che, secondo il copione, ha tradito e abbandonato il suo uomo. Ma qualcuno sostituisce il proiettile a salve con uno vero, e Fedora muore in scena. Il colpevole sembra chiaro, perché e nessuno si è avvicinato alla pistola se non lo stesso Gelmi, il quale però si dichiara innocente. Perché sparare platealmente alla propria moglie davanti al pubblico e poi protestarsi innocente? Ricciardi sembra essere l'unico a credere all'uomo, e insiste per tenere aperta un'indagine che sembra già chiusa.
 
 
 
«Mi dispiace, brigadie'.
Mi dispiace di aver sparato al commissario Ricciardi».
 
Con una frase così, quasi buttata lì alla fine del primo capitolo, le aspettative per questo romanzo erano incredibilmente alte, e non sono state tradite.
Recensire un libro di Maurizio de Giovanni per me non è semplice. Non è semplice trovare le parole adatte per trasmettere la bellezza e la maestria presenti in questo romanzo. Un giallo che sa benissimo di essere qualcosa di più, qualcosa che va oltre.
 
Come nei due precedenti romanzi dedicati ad altrettante canzoni della tradizione partenopea, anche qui compaiono il vecchio maestro suonatore di mandolino e il suo giovane allievo. Questa volta il vecchio musicista racconta la storia che abbiamo tra le mani, e ci svelerà il suo legame con   il commissario.
 
Iniziamo dalla trama gialla. L'impianto è molto classico e per questo, a mio parere, particolarmente stuzzicante. C'è un delitto che può essere stato commesso soltanto da una persona, eppure quella persona non aveva un movente valido per uccidere. Né tantomeno suona logico preparare accuratamente un delitto sotto gli occhi di centinaia di persone, e poi sperare di farla franca semplicemente dichiarandosi innocenti. I fili da riannodare sono molti, e l'indagine è affascinante proprio perché con pazienza certosina il commissario scaverà nel passato di tutte le persone coinvolte per far emergere la verità, verità nascosta nei dettagli. Come dico sempre io, è dai dettagli che si riconosce un grande giallista, e Maurizio de Giovanni lo è.
Una piccola nota: il fatto, come l'autore chiama la peculiare abilità di Ricciardi di vedere le ombre dei morti e udire le loro ultime parole, sta lentamente perdendo importanza per quel che riguarda le indagini, e conquistando più spazio nel forgiare i sentimenti, i dubbi e i comportamenti nella vita privata del commissario.
 
A far da contorno al caso di omicidio ci sono, come sempre, sottotrame curate ed interessanti quanto la narrazione principale. Il tema che le lega è quello del tradimento e dell'abbandono.
 
Il dottor Modo, amico di lunga data del commissario, cercherà di salvare una prostituta bella ed intelligente ridotta in fin di vita da un pestaggio. Aiutato dal brigadiere Maione, braccio destro di Ricciardi, scoprirà che la donna ha subito il peggiore dei tradimenti.
 
Livia, la vedova del tenore Vezzi, sul cui omicidio Ricciardi aveva precedentemente indagato, perdutamente innamorata del commissario, deve fare i conti con il suo tradimento nei confronti del commissario, e col conseguente abbandono, per poi concludere, dolorosamente, che nonostante tutto, non si può davvero abbandonare al suo destino chi si ama.
 
Lo stesso Ricciardi, che finalmente sembra aver trovato il coraggio di frequentare, seppure di nascosto, la sua amata Enrica, si trova nella condizione del traditore quando si rende conto di non poterla aiutare prendendo una posizione chiara riguardo al loro futuro. Abbandonare chi sia ama quando ha bisogno di noi è comunque un tradimento, come avrà modo do rendersi conto il commissario.
 
Con la consueta delicatezza, l'autore tratteggia della storie che sembrano distanti ma che molto hanno in comune. E sono storie tristi, tragiche, commuoventi. Che lasciano il segno.
 
Insomma, questo romanzo ha tutto quello che occorre per farsi amare sia del lettore di gialli (e a parer mio il lettore occasionale potrà comunque apprezzare il romanzo in sé) sia dai fan del commissario dai tristi occhi verdi. Ogni volta che Maurizio de Giovanni aggiunge un volume alla serie, questo è più bello del precedente.
 
Voto: 8

venerdì 4 agosto 2017

La morte delle api...

... di Lisa O'Donnell.


La scheda del libro sul sito della Newton & Compton Editori

Marnie ha quindici anni e sua sorella dodici quando si trovano a dover seppellire nel giardino di casa i propri genitori. Di certo le due ragazze non sentiranno la mancanza di due genitori dipendenti da alcool e droga, violenti e abusivi. Ma non vogliono nemmeno andare in affidamento, col rischio di finire chissà dove e di essere separate. Ma per quanto tempo potranno fingere che tutto sia normale, prima che qualcuno chiami i servizi sociali?
 
Questo romanzo ci racconta la storia molto triste e molto cruda di due adolescenti costrette a cavarsela da sole dopo la morte dei genitori. A dire la verità, le due ragazze dovevano arrangiarsi anche prima, perché i due, Izzy e Gene, non erano certo dei genitori esemplari.
Le circostanze della loro morte, non naturale, non sono inizialmente chiare. Le due ragazze sospettano l'una dell'altra per la dipartita di Gene, mentre è chiaro che Izzy si sia impiccata dopo averne scoperto il cadavere.
Marnie è quella che prende in mano le redini della situazione, decidendo di volta in volta il da farsi, mentre Nelly è più sognatrice e vive in un mondo tutto suo, e fatica ad adattarsi alla nuova, surreale routine fatta di segreti, bugie e indipendenza.
 
La morte delle api ci racconta senza indorare la pillola il duro mondo di queste due adolescenti cresciute in una famiglia inesistente. L'ombra degli abusi si allunga sul loro passato; per Marnie poi, il cadere nella spirale delle dipendenze è davvero ad un passo.
Lo spaccato dei sobborghi di Glasgow che questo romanzo ci fa vedere è da brividi, perché sappiamo che è fin troppo reale.
Eppure in questo mondo, narratoci in prima persona da Marnie e Nelly, a cui poi si aggiungerà il vicino di casa Lennie, è possibile trovare solidarietà, amore, sostegno morale.
La cosa che mi ha colpito di questa storia è che tutto quello che di positivo accade proviene da persone problematiche o addirittura pericolose. Lo stesso Lennie, che intuisce per primo come qualcosa sia accaduto nella casa delle due protagoniste, ma non sa cosa, e offre loro pasti caldi e conforto, ha una condanna per crimini sessuali sulle spalle. Non è innocente, ma non è nemmeno il mostro che tutti credono, ma soprattutto non cerca giustificazioni, sa di avere un grosso fardello sulla coscienza e non passa giorno in cui non chieda perdono per quello che ha fatto.
I personaggi di questo romanzo sono così, pieni di ombre (molte) e luci (poche), eppure tentato di trovare un modo per resistere alle avversità della vita, andare avanti e affrontare i problemi. Questa dicotomia fatta di azioni moralmente riprovevoli  e slanci umani di solidarietà mi ha affascinata.
 
Come già accennato lo stile è semplice e asciutto, il linguaggio crudo, e alcuni episodi annodano lo stomaco. Quello che fa veramente male è che certe cose vengono raccontate come se fossero normali, nel senso che le protagoniste sono cresciute in un ambiente in cui certe cose effettivamente lo sono (esempio: essere abbandonate per giorni senza soldi né cibo; vedere i propri genitori crollare strafatti sul pavimento). Certi episodi non generano alcuna emozione in Marnie e Nelly e questa contraddizione crea nel lettore una grande commozione e partecipazione.
 
La morte delle api è, secondo me, una storia che va letta perché non può essere raccontata senza che se ne perda la cruda bellezza.
L'unico neo è il finale, a parer mio. In un certo modo è coerente con la trama, non mette assolutamente le cose a posto, anzi, apre a tutta una serie di altre domande, e curiosità sul futuro dei protagonisti che purtroppo resteranno senza risposta.
 
Voto: 7

martedì 1 agosto 2017

La principessa di ghiaccio...

...di Camilla Läckberg.

La scheda del libro sul sito della Marsilio Editori

La tranquilla località turistica di Fjällbacka, in Svezia, è scossa dall'omicidio di una giovane donna, Alexandra. A trovarla è Erica, che era stata sua amica durante l'infanzia, prima che la famiglia di Alexandra si trasferisse a Göteborg. Sulle prime sembra si tratti di un suicidio, ma già dai primi riscontri dall'autopsia sembra che alcuni dettagli siano incongruenti con questa ipotesi. Erica, insieme al poliziotto Patrick, anch'egli suo amico di infanzia, cercherà la verità, e insieme scopriranno che questo delitto affonda le sue radici in un passato molto lontano.
 
Riuscite a leggere cosa c'è scritto in basso a destra sulla copertina del romanzo? Per comodità lo riporto anche qui: "grande suspense per la nuova Agatha Christie della Svezia".
Ecco, no.
Come si può capire, nutro delle riserve riguardo questo romanzo, riserve che andrò ad illustrare.
 
Sicuramente l'autrice ha dalla sua un particolare abilità nella descrizione del paesaggio svedese, in una fredda località turistica sgombra di turisti durante il periodo invernale. L'ambientazione, quasi claustrofobica a causa del freddo, del vento gelato, della neve, delle strade malinconicamente deserte, crea una splendida cornice per l'indagine. I particolari sulla cittadina e i suoi abitanti conferiscono colore e spessore allo scenario, anche se devo confessare che mi hanno lasciato perplessa, più per ragioni extra letterarie.
Insomma, io ho sempre immaginato la Svezia come una nazione all'avanguardia, dove le donne sono emancipate, le persone sono libere da costrizioni sociali, gli ospedali e le scuole funzionano a perfezione, il tenore di vita è alto e la gente felice.
Invece l'autrice descrive un altro tipo di scenario: poliziotti sottopagati, sanità scadente, scuole senza materiali e senza possibilità di garantire un'istruzione dignitosa ai propri studenti, alcolismo dilagante, violenze domestiche diffuse e non denunciate.
Più  leggevo, più pensavo: sicura che questa sia La Svezia? La Svezia dei primi anni 2000?
 
Cito per amore di brevità solo una tra le tanti frasi pronunciate dai protagonisti:
"Con le tasse che si pagano in questo paese, gran parte dei tuoi soldi finirà per finanziare pessime scuole e un'assistenza sanitaria ancora peggiore."   
 
Una frase che, detta da un poliziotto svedese, mi ha fatto molto riflettere su quello che crediamo di sapere sul resto del mondo.
Quello che mi ha stupito ai limiti dell'incredulità è stata la descrizione della condizione della donna. Tutte le donne descritte sembrano estremamente dipendenti dagli uomini, costantemente occupate a compiacere il proprio compagno, oppure ad preoccuparsi che anche un solo grammo in più di peso possa togliergli l'apprezzamento del genere maschile. Addirittura la protagonista ritiene che sia sconveniente indossare normali mutandine di cotone Sloggi per un appuntamento perché farebbero passare la voglia a qualunque uomo. Non fraintendetemi, non c'è assolutamente nulla di sbagliato a curarsi o tenersi in forma, o prepararsi con cura per un appuntamento. Quello che mi ha lasciato basita è stato il sottile messaggio che una donna potesse farsi apprezzare necessariamente ed esclusivamente in quel modo. Insomma, secondo me, credere che  un uomo che non desideri la propria donna solo perché lei indossa una mutandina di cotone e non raffinata lingerie mi pare francamente una cosa da pazzi. 
 
A parte queste considerazioni, tornando a focalizzarci su un punto di vista più strettamente narrativo, secondo me questo giallo è fiacco e non funziona.
Gran parte della colpa io la attribuisco all'abuso fatto dall'autrice dell'odioso espediente di non condividere gli indizi con il lettore. Mi spiego meglio: quando qualcuno, sia Erika o Patrick, trovano un indizio fondamentale, l'autrice decide di non dirci immediatamente di cosa si tratta. Se è un biglietto incriminante, il protagonista se lo mette in tasca e lo dimentica per svariate pagine; se è un numero di telefono, il detective lo controlla e poi rimane stupefatto senza dirci di chi è questo benedetto numero di telefono; e di esempi ne potrei fare molto, visto che la suspense annunciata in copertina viene creata artificiosamente con questo metodo, che io personalmente detesto e trovo scorrettissimo nei confronti del lettore. Agatha Christie non si sarebbe mai permessa di basare il mistero di uno dei suoi libri sul nascondere gli indizi al lettore.
 
Inoltre, per tutto il romanzo ho avuto la sensazione che in fin dei conti nessuno avesse davvero voglia di indagare sul serio, che tutti cincischiassero aspettando il finale.
Appare chiaro fin da subito che le motivazione del delitto sembrano risiedere in alcuni punti poco chiari del passato della vittima; ma sono necessarie circa 300 pagine perché qualcuno si prenda la briga di scavare a fondo nel suo passato. E infatti, appena qualcuno decide di farlo, il caso viene risolto in circa dieci minuti.
 
Non certo un giallo indimenticabile.
Voto: 6 (strappa la sufficienza per la bella ambientazione e l'inconsueto punto di vista sulla società svedese)