giovedì 25 febbraio 2016

Il posto di ognuno...

...di Maurizio De Giovanni.
 
Al commissario Luigi Alfredo Ricciardi non dispiaceva lavorare di domenica, e questa era un'altra delle sue stranezze. I colleghi si defilavano con mille pretesti, quando venivano stabiliti i turni, madri ammalate da accudire, anzianità maturate, millantate necessità familiari: ogni scusa era buona, pur di risparmiarsi il lavoro nel giorno in cui tutta la città faceva festa.
Ricciardi invece se ne stava zitto, come al solito, e come al solito gli toccava prendersi il peggio. Non che questo gli fruttasse la benevolenza degli altri, che non perdevano occasione di mormorare alle sue spalle. Solitario, le mani in tasca, sempre senza cappello anche d'inverno; non partecipava alle feste, ai brindisi, non era mai presente alle occasioni d'incontro. Lasciava cadere gli inviti, non stringeva amicizie e non si apriva alle confidenze. Gli occhi verdi spiccavano nel volto bruno, una ciocca di capelli sempre sulla fronte che ravviava con un gesto secco. Parlava pochissimo, con fredde ironie che non tutti coglievano. Ciononostante la sua presenza calamitava l'attenzione.
Lavorava senza sosta, soprattutto quando seguiva un caso di omicidio, fra la malevolenza di quei colleghi che non erano in grado di avvicinarsi ai ritmi che imponeva alle indagini: i militari che gli erano assegnati lo maledicevano di nascosto per le ore passate sotto la pioggia o il sole, in appostamenti lunghissimi e talvolta inutili. Commentavano velenosi che ogni volta pareva che gli avessero ammazzato un familiare, si trattasse di un nobile o un poveraccio.

Il commissario Ricciardi, in forza alla Regia Questura di Napoli, è un uomo particolare. Oltre ad essere un ottimo investigatore, ha la maledizione di poter vedere le ombre di coloro che sono morti di morte violenta e di udirne le ultime parole o gli ultimi pensieri.
In una torrida domenica napoletana dell'agosto 1931, Ricciardi è chiamato ad investigare, col fido brigadiere Maione, sull'omicidio della contessa Adriana Musso di Camparino.
Seconda moglie del vecchio e invalido conte, Adriana è stata una donna molto chiacchierata. Infermiera della prima moglie, secondo molti con quel matrimonio ha occupato un posto che non è il suo. Non paga di ciò, ha condotto una vita gaudente, ed ha assunto atteggiamenti discutibili che le hanno attirato l'odio di molti. Non era certo una persona buona, la contessa. Non lo era col marito invalido, né col figliastro, né con la servitù e neanche con lo storico amante. Moventi per ucciderla ce n'erano molti, ma tutto sembra ruotare intorno alla frase che il fantasma della donna ripete a Ricciardi: l'anello, l'anello, hai tolto l'anello, l'anello mi manca.
Di quale anello parla, la contessa? Di quello nuziale, che secondo il figliastro non avrebbe dovuto portare? O di quello regalatole dall'amante con cui aveva avuto una violenta lite la notte prima di morire?  La frase che l'ombra della Contessa ripete non è così chiara come sembra, e questo contribuirà a mettere fuori strada il commissario
 
Nelle storie del commissario Ricciardi il titolo è sempre un'estrema sintesi di quello che troveremo nel romanzo. Se ne Il senso del dolore impariamo a conoscere il dolore che accompagna Ricciardi, ma anche tutti gli altri esseri umani; se ne La condanna del sangue scopriamo che in fondo Ricciardi non è l'unico a portarsi sulle spalle la condanna del destino, del fato o del sangue, a seconda di come vogliamo chiamarla, ne Il posto di ognuno ci chiediamo se questo posto a cui ciascuno di noi dovrebbe appartenere esista o non esista.
 
La contessa Adriana aveva trovato il suo posto col matrimonio? Probabilmente no, visto la vita che conduceva e il male che si divertiva a fare a tutti.
L'amante, il giornalista Mario Capece, credeva che il suo fosse accanto ad Adriana, e non a casa con la famiglia, mentre sua moglie e suo figlio avrebbero fatto qualsiasi cosa per riportarlo, appunto, a quello che ritengono essere il luogo cui egli appartiene.
E il figliastro della contessa, che la riteneva una donna indegna di succedere a suo madre, fascista convinto, crede di aver trovato il suo posto? Sì, ma non è quello che tutti credono.

L'indagine di Ricciardi si muove appunto tra i vari "posti" occupati dai comprimari di questo dramma.
Per la prima volta il commissario arriva a scontrarsi direttamente con il regime fascista, di cui non è assolutamente un estimatore.
I personaggi secondari sono ben tratteggiati e interessanti. Non credo di aver mai trovato, finora, nei libri di De Giovanni, un personaggio che fosse un classico stereotipo.
Forse, però, con il sopraggiungere della notorietà delle serie, e con l'allargarsi della platea di lettori, si nota la tendenza dello scrittore a fornire dettagli più accurati (e a volte totalmente superflui) sulla vita della città e sulle sue peculiarità. Come per esempio quando il brigadiere Maione chiarisce a Ricciardi cosa sia un basso. Dai, vuoi davvero che Ricciardi non lo sappia? La precisazione è ad uso e consumo del lettore, ma in un dialogo tra due persone che sanno perfettamente cosa sia un basso, suona artificiosa e forzata.
La vita privata del commissario trova  in questo romanzo più spazio rispetto ai precedenti, specialmente attraverso qualche flashback e alcune divagazioni;  il ritmo della storia ne risente e la narrazione risulta pertanto un po' appesantita.
La trama gialla, però, è sempre solida e ben costruita. I sospettati sono diversi e tutti sembrano perfettamente inquadrarsi nel puzzle che il commissario va a comporre, fino a che con una intuizione Ricciardi non scopre il vero significato della frase detta dalla contessa in punto di morte. 
 
E allora la conclusione qual è? Esiste il posto di ognuno in questa nostra vita? Il commissario è convinto di sì, ma individuarlo non è semplice e non è scontato. A volte, il posto di un assassino non è in galera, perché il posto della giustizia non sempre è tra le pieghe della legge.
E alla fine, Ricciardi scoprirà dov'è il suo posto? Sempre dietro a quella finestra da cui guarda Enrica, il suo amore platonico? Forse no. Forse per stavolta no. 
 
Come sempre, la voglia di leggere ancora di Ricciardi è fortissima.
Voto 7




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