mercoledì 8 febbraio 2017

Non ti muovere...

... di Margaret Mazzantini.


La scheda del libro sul sito Mondadori

Timoteo, chirurgo di fama, è seduto nella sala d'aspetto di un ospedale. Sua figlia quindicenne ha avuto un gravissimo incidente con il motorino, e ora è in fin di vita in sala operatoria. Mentre aspetta l'arrivo della moglie giornalista, che era in trasferta a Londra, Timoteo immagina di raccontare alla figlia la relazione che aveva avuto prima della sua nascita con Italia, una donna che viveva in una casa occupata, che faceva lavori precari per mantenersi, da cui si sentiva inspiegabilmente attratto.

Mamma mia. Questo libro è un mattone. Deprimente, pesante, sembra voler dire chissà che cosa e invece non dice niente.

Timoteo è un personaggio terribile. Egocentrico e concentrato su sé stesso perfino quando parla alla figlia in fin di vita. Perfino dopo aver stuprato una donna (sì, la sua relazione con Italia è cominciata così, con un episodio che lui definisce avventura erotica. E più avanti afferma che non ha fatto tutto da solo. No, lei ha fatto più di lui).
Si autocommisera perfino dopo aver imbastito una relazione con una donna psicologicamente fragile, ed averla abbandonata di punto in bianco, dopo averla convinta a non abortire.

Ripensai agli ultimi mesi di stordimento amoroso come a una sorta di anno sabbatico, di vacanza intensa e struggente che il mio cuore si era concesso in vista di questo nuovo ciclo di responsabilità che mi aspettava. Tornavo a sentirmi forte. E se qualcosa di terribile era accaduto, ora volava alle mie spalle come una cartaccia nel vento sul lungomare di un'estate finita.

Rabbrividisco di fronte a tanto superficiale auto assolvimento. Perché ovviamente lui è il centro del mondo. Chi se ne importa se una donna già problematica ne esce a pezzi. Quello che soffre, quello che deve salvarsi, dopo aver dato il via a tutto, è lui. Per amor di verità devo precisare che la fine della relazione clandestina avviene perché lui scopre di aspettare un figlio anche dalla moglie, ma il modo in cui la fine è gestita, e i pensieri di Timoteo mi hanno lasciata alquanto perplessa.

Certo la comunicazione non deve essere il suo forte.
Quale padre userebbe, per esempio, immaginando di parlare alla figlia, l'espressione la spingo ai piedi del letto e la prendo come una capra?
Qui non è questione di moralismo, il sesso esiste, ed è bello perché è vario, e siamo tutti grandi, grossi e vaccinati. Qui il problema è: che tipo di storia stai raccontando, tu, Autrice?
Perché non venirmi a dire che, mentre si trova al capezzale della figlia, un padre che immagina di raccontargli i suoi segreti fallimenti, penserebbe in quel modo, userebbe quelle parole, quel tono, quel registro. Per favore, no.
Perché la verità, secondo me, è che l'autrice ha scelto una scorciatoia comoda comoda. Far piangere è facile, ho letto in alcuni commenti su Goodreads. E questa frase dovrebbe essere il sottotitolo del romanzo.
L'antefatto dell'incidente e la conseguente confessione, per quanto immaginata, alla figlia sono un espediente facile per strapparci un gemito di dolore, per gettare un'ombra tragica su una vicenda che, tutto sommato, rimane quasi sempre sospesa tra il banale e l'incomprensibile.
Perché Timoteo stupra Italia al loro primo incontro? Perché torna da lei? Perché se ne innamora perdutamente? Non è chiarissimo.
Certo, potrei provare a immaginare, a fare delle ipotesi ma non è compito mio, io sono la lettrice, e le motivazioni dei personaggi non devo ipotizzarle da sola.

Per tutta la durata del romanzo la noia regna sovrana. Già il racconto di Timoteo, per sua stessa natura, non consente chissà quale ritmo, ma poi tocca leggere pagine e pagine di inutili, minuziose descrizioni che sembrano volerci dire chissà che, e invece non portano da nessuna parte.
Leggere per credere:
 
L'indomani mi sveglio tardi. Trovo Elsa in cucina, indossa la sua vestaglia di seta cruda. «Ciao» dico. «Ciao.» Mi preparo la macchinetta del caffè, la metto sul fuoco e, mentre aspetto che il caffè esca, mi siedo. Mia moglie è alta, le sue spalle sono un trapezio perfetto, due linee oblique che corrono fino alla strettoia della vita. Sta sistemando dei fiori dagli steli lunghi.
     «Dove li hai presi?»
     «Me li ha regalati Raffaella.»
     È ancora arrabbiata, lo capisco da come muove le mani, gesti sbrigativi che hanno il solo intento di ignorarmi. Da quanto tempo non le regalo dei fiori?, penso. E forse anche lei sta facendo lo stesso pensiero. Si è infilata i capelli dietro le orecchie. È contro la finestra, da dove penetra una luce vivida, appena soffocata dal cotone della tenda. Le guardo il profilo, le sue labbra scolorite sono due bolle di carne burbera. Ci sono molti pensieri per me in quelle labbra, forse contro di me. Mi alzo, mi riempio una tazzina e bevo.
     «Vuoi un po' di caffè?»
     «No.»
     Mi servo un'altra tazzina e bevo anche quella. Elsa si è tagliata. Ha lasciato cadere le forbici sul tavolo e si è portata il dito ferito nella bocca. Mi avvicino a lei. «Non è niente» dice. Ma io le prendo la mano e la spingo sotto il getto dell'acqua. Acqua rosata del suo sangue scompare dentro il buco nero al centro dell'acquaio. Le asciugo il dito nella mia maglietta, poi cerco il disinfettante e un cerotto nel pensile dei medicinali. Tua madre mi lascia fare, le piace quando mi occupo di lei come medico. Poi le bacio il collo. Me lo ritrovo accanto, il suo collo, e lo bacio, lì dove scompare nella nuca invasa dai capelli. E ci abbracciamo in cucina accanto ai fiori sparpagliati sul tavolo.
     Quando esco dalla doccia, lei sta battendo a macchina in un angolo riparato del salone. Deve sbrigarsi, dice, perché è rimasta indietro con il lavoro. Non ha più voglia di bagni e di sole. Lascerò che la sua pelle scura scolorisca nell'inverno. Non si è vestita, indossa ancora la vestaglia. In basso quella seta cade sul pavimento e le lascia scoperte le gambe. Ho messo sul piatto del giradischi la Patetica di Cajkovskij. Le note invadono come una tempesta di cristalli il salone dove entra il sole, ho i piedi nudi e leggo. Gli occhi di tua madre viaggiano sui tasti, ogni tanto tira via un foglio, lo accartoccia e lo butta nel cestino di vimini che ha accanto. Ha una natura sdegnosa, altera negli intenti, nelle linee del corpo. Non mi appartiene, non mi è mai appartenuta, ora ne sono certo. Non siamo programmati per appartenerci, siamo programmati per vivere insieme, per condividere lo stesso bidet.
     Mi guarda, abbandona la macchina da scrivere e si avvicina. Si siede sul divano di fronte a me, una gamba piegata sotto le natiche, un piede scalzo che sfiora il pavimento. Comincia a parlare, e le sue parole sono un accerchiamento ponderato. Frasi generiche sul suo lavoro, su una collega al giornale che le ha fatto uno sgarbo, poi di punto in bianco: «E tu cosa hai fatto al congresso?».
 
Qui la moglie di Timoteo ha intuito il tradimento. Ma prima di arrivare al confronto, abbiamo pagine e pagine di mi alzo, mi abbasso, mi siedo, mi giro, prendo un caffè, ne prendo un altro...
E ho tagliato il brano, perché continua per pagine su questo livello.
E potrei fare diversi altri esempi.

Italia come personaggio ha del potenziale. Ma vendendola esclusivamente attraverso gli occhi e i ricordi di Timoteo, penso sia un potenziale che viene allegramente sprecato. L'uomo infatti non fa altro che trovare nuovi ed arditi paragoni fra la ragazza e un topo. Il suo alito, le sue spalle, il suo odore. Italia non parla, squittisce. E via così. Se da un lato posso capire la volontà di raccontare lo squallore della vita di Italia, dall'altro ritengo che le metafore siano troppo insistite, ed oltretutto non fanno che alimentare i dubbi di cui sopra: ma perché Timoteo si è innamorato di Italia?
Ma anche nel finale (tragico, e che ve lo dico a fare), l'unica cosa che conta è la sofferenza di Timoteo, i suoi problemi, i suoi deliri sentimentali.
Italia è una figura tragica e sicuramente più interessante di Timoteo, ma grazie all'egocentrismo dell'uomo, su cui l'autrice ha scelto di basare l'intero romanzo, ne possiamo vedere solo le briciole. Se invece di autocommiserarsi Timoteo ci avesse davvero voluto raccontare la storia di Italia e del loro rapporto, il romanzo sarebbe stato passabile. Forse anche buono.

Lo stile è pedante, puntiglioso. Certo l'autrice conosce il suo mestiere e scrive bene, ma il testo non risulta scorrevole, ma sempre e soltanto pesante.

C'è poco da dire, in conclusione. Questo libro è brutto. Forse il più brutto che abbia mai letto (se la gioca con Adesso di Chiara Gamberale, ma penso sia peggio). E non è nemmeno uno di quei libri così brutti da diventare divertenti, uno di quei libri in cui cerchi le incongruenze, i buchi di trama, gli errori. E' brutto perchè è un libro che si sopravvaluta, che ha i toni del romanzo di un certo livello, perché pensa che basti usare parole come gnaulio e aggricciato, incavernato e sbozzolare per essere qualcosa di profondo, di elevato.

4 commenti:

  1. Ah ma l'hai finito? Complimenti! Sei tenace!

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    1. L'ho finito, praticamente ho passato una nottata sul libro perché davvero, in un certo senso perverso, mi affascinava vedere dove voleva arrivare.

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  2. Concordo su tutto. bellissime recensioni, complimenti! Floriana

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  3. Allora non sono la sola! Ho odiato questo libro, proprio odiato!

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