lunedì 25 gennaio 2016

Il senso del dolore...

...di Maurizio De Giovanni.
 

Napoli, 1931. Il commissario Ricciardi, in forza alla Regia Questura della città, deve occuparsi dell'assassinio del famoso tenore Vezzi, avvenuto al Teatro San Carlo la sera della prima. Ma il commissario non è un poliziotto come gli altri. Ha la capacità di vedere gli ultimi istanti di coloro che muoiono di morte violenta, e di udirne le ultime parole o gli ultimi pensieri.

Vezzi è stato ucciso nel suo camerino, mentre era già truccato e pronto ad andare in scena per la rappresentazione de "I Pagliacci". Il suo fantasma, così come lo vede Ricciardi, piange e ripete: “Io sangue voglio, all’ira m’abbandono, in odio tutto l’amor mio finì... ”
Artista di fame mondiale, ma uomo meschino, Vezzi aveva molti nemici, e il commissario si vede costretto ad indagare la vita e l'animo dell'uomo per giungere alla verità, la quale, una volta portata alla luce, lascerà a Ricciardi (e a noi con lui) un senso di impotenza e una grande amarezza.

L'incipit:
Il bambino morto stava all’impiedi, fermo sull’incrocio tra Santa Teresa e il Museo. Guardava i due ragazzi che, seduti a terra, facevano il giro d’Italia con le biglie. Li guardava e ripeteva:
“Scendo? Posso scendere?”.
L’uomo senza cappello sapeva della presenza del bambino morto ancora prima di vederlo: sapeva che il lato sinistro, il primo che i suoi occhi avrebbero incontrato, era intatto; mentre a destra, il cranio era stato cancellato dall’impatto, la spalla era rientrata nella cassa toracica sfondandola, il bacino era ruotato attorno alla colonna vertebrale spezzata. E sapeva anche che al terzo piano del palazzo d’angolo che gettava in quel primo mattino di mercoledì una fascia d’ombra fredda sulla strada, un balconcino era serrato; sulla bassa ringhiera restava appeso un drappo nero. Poteva solo immaginare il dolore di una giovane madre che, contrariamente a lui, il figlio non lo avrebbe più rivisto. Meglio per lei, pensò. Tutto questo strazio.
Il bambino morto, per metà nascosto dall’ombra, alzò lo sguardo al passaggio dell’uomo senza cappello.
"Scendo? Posso scendere", gli chiese.
Un salto di tre piani, un dolore accecante lungo quanto un lampo. Chinò lo sguardo e accelerò il passo. Superò i due ragazzi che, con espressione seria, continuavano il giro d’Italia. Bambini poveri, pensò.
Luigi Alfredo Ricciardi, l’uomo senza cappello, era commissario di pubblica sicurezza presso la squadra mobile della Regia Questura di Napoli. Aveva trentun anni, quanti erano gli anni di quel secolo. Nove dell’era fascista.
 
Il senso del dolore è il romanzo di esordio di Maurizio De Giovanni. Si tratta di un giallo alquanto insolito, non solo per il tocco di soprannaturale dato dalla strana capacità di Ricciardi, ma perché l'evento delittuoso altro non è che una scusa per esplorare l'animo umano, le sue miserie, la sua nobiltà. Ma soprattutto le sue miserie.
Ok, detto così, sembra che io stia parlando di un insostenibile polpettone esistenzialista. Ma no, tranquilli, non è così.
Il romanzo è e resta un giallo, ben costruito ed interessante. Ma Ricciardi, più che studiare indizi, pedinare sospetti e fare deduzioni mettendo in moto "le celluline grigie", studia l'animo umano, capace di svelare qualunque segreto a chi lo conosca bene.
 
Ma Ricciardi aveva capito, ben prima di studiarlo sui libri, che il delitto è la faccia oscura del sentimento: la stessa energia che muove l’umanità la devia, fa infezione e suppura esplodendo poi nell’efferatezza e nella violenza. Il Fatto gli aveva insegnato che la fame e l’amore sono all’origine di ogni infamia, in tutte le forme che possono assumere: orgoglio, potere, invidia, gelosia. Sempre e comunque, la fame e l’amore. Li trovavi in ogni delitto, una volta semplificato all’estremo, eliminati gli orpelli dell’apparenza: la fame o l’amore, o entrambi, e il dolore che generano. Tutto quel dolore, di cui lui solo era testimone costante. E allora tu, caro Mascellone (Mussolini, n.d.Lisse), pensò Ricciardi con tristezza, puoi emettere tutti i decreti che vuoi; ma non riuscirai purtroppo a cambiare le anime, col tuo vestito nero e il cappello col fiocchetto. Potrai anche riuscire a far paura invece che a far ridere, ma non cambierai il lato oscuro della gente che continuerà ad avere fame e a provare amore.
 
Ricciardi è un uomo profondamente triste, soverchiato dal dolore che vede, sotto forma di persone morte, ad ogni angolo di strada. Convinto che i sentimenti, anche quelli belli, alla fine non portino altro che dolore e sofferenza, non ha amici, non ha una fidanzata, non ha una vita. Eppure nessuno come lui riesce a provare empatia per i più deboli, gli sfortunati, i derelitti. Nessuno più di lui possiede un alto senso di giustizia e una coerenza che non è disposto a tradire.
Difficile non simpatizzare con lui e con il suo amore platonico per una ragazza che abita nel palazzo di fronte al suo, e che lui vede ogni sera attraverso i vetri di una finestra. E' così che Ricciardi vive, nascosto dietro un vetro, guardando tutto, senza farsi vedere; il resto dell'umanità ignora fino a che punto egli possa vedere, guardare e capire.
Ricciardi è un eroe romantico, triste, solo, ma non disperato, né esacerbato nell'animo. E' per questo che lo amo e lo apprezzo come personaggio letterario. 
I romanzi che lo vedono protagonista, più che gialli deduttivi, sono gialli intuitivi. Bisogna infatti seguire le intuizioni di Ricciardi per cercare di restare al passo col Commissario e per arrivare con lui a dipanare la matassa.
In particolare il finale di questa storia riserva una sorpresa, che per ovvi motivi non svelerò, ma che ancora una volta distingue il romanzo dagli altri del medesimo genere letterario.
 
La scrittura di De Giovanni è semplice e lineare, a tratti modellata sulle costruzioni della lingua napoletana.
Bisogna notare però che l'autore ha la tendenza leggermente fastidiosa a insistere nella ripetizione di alcuni particolari caratterizzanti. Ad esempio: gli scugnizzi giocano per strada con un pallone fatto di stracci - è un concetto semplice, basta che l'autore lo dica una volta e sono sicura che il lettore medio riesce ad afferrarlo.
Gli occhi di Ricciardi sono verdi e trasparenti come il vetro - anche questo, beh, giuro che dopo le prima tre o quattro volte me lo ricordo! Davvero! Non ha senso ripeterlo in continuazione.
Altra cosa che non mi è piaciuta, è la tendenza a spezzare la narrazione con informazioni sul passato ora di Ricciardi, ora di personaggi secondari. Questa è una cosa che non sopporto, spezza il ritmo della narrazione e appesantisce il romanzo. 
 
Infine, una notazione a parte merita l'ambientazione: Napoli. Splendida ma non perfetta, non immagine da cartolina, ma vera e lontana dagli stereotipi sia positivi che negativi.
 
Nel vento freddo di quel mercoledì mattina, Ricciardi scendeva da piazza Dante. Le mani nelle tasche del soprabito grigio scuro, la testa un po’ incassata nelle spalle, lo sguardo fisso a terra. Camminando a passo svelto, senza guardarla, sentiva la città. Sapeva che avrebbe varcato, nel percorso da piazza Dante a piazza del Plebiscito, un invisibile confine tra due realtà distinte: a valle, la città ricca, dei nobili e dei borghesi, della cultura e del diritto. A monte, i quartieri popolari, al cui  interno vigeva un altro sistema di leggi e norme, altrettanto o forse ancora più rigido. La città sazia e quella affamata, la città della festa e quella della disperazione. Quante volte Ricciardi era stato testimone del contraddittorio tra le due facce della stessa medaglia.

Ho amato questo romanzo anche per questo.

In sintesi: consigliato a chi non cerca un giallo d'azione. Voto: 7

6 commenti:

  1. Che bellissima recensione! Devo leggerlo assolutamente.
    Ciao da LEa

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  2. Adesso voglio leggerlo anche io! Ma non prima di aver finito la mia attuale lettura...ambientata a Napoli!!! Sempre detto che siamo legate da un filo invisibile...ah ah ah!
    Ciao ciao Lisse

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