domenica 25 agosto 2019

Ritorno a Riverton Manor...

... di Kate Morton.

Nella scena del suo film, la giovane regista Ursula Ryan immagina uno dei momenti più drammatici della storia letteraria inglese, uno scandalo da sempre circondato da un'aura di mistero, perdizione e genio maledetto. Era l'estate del 1924 e i sopravvissuti alla carneficina della Grande Guerra si ritrovavano a divorare la vita come se non ci fosse un futuro, come se dovessero rimanere per sempre giovani. Tra feste alla Grande Gatsby, fiumi di alcol, amori che duravano lo spazio di una notte, quei ragazzi creavano il mito dei ruggenti anni Venti. Tra loro, era Lord Robert Hunter, astro nascente della poesia, ammirato e celebrato da tutti. Eppure, proprio quell'estate, proprio a una delle feste più belle, quella di Riverton Manor, Robert si allontanò da solo. E stringendo una pistola con mano tremante, si tolse la vita. Per Ursula, settantacinque anni dopo, quel poeta è diventato leggenda. Almeno fino a quando scopre che è rimasta una testimone degli eventi. È Grace, custode quasi centenaria di un terribile segreto. Un segreto che ora non può più tenere per sé. Ritorno a Riverton Manor è l'esordio sensazionale di Kate Morton, un romanzo nel quale mistero e amore si mescolano avvolgendo il lettore nello stile appassionante e inconfondibile di un'autrice che ha conquistato milioni di lettori in tutto il mondo. (Sinossi tratta dal sito della casa editrice Sperling & Kupfer)

Ritorno a Riverton Manor è il primo romanzo che Kate Morton ha scritto ed è la storia di due sorelle, Hannah ed Emmeline Hartford, nell'Inghilterra degli anni venti. La struttura del romanzo è quella che diventerà la matrice strilistica della Morton, ovvero l'ambientazioni su due diversi piani temporali: il presente da un lato ed il passato dall'altro, con il suo mistero da svelare.

Voce narrante della loro storia è Grace, che, ormai quasi centenaria, acconsente a rievocare i giorni in cui lavorava a Riverton Manor, la casa di famiglia degli Hartford, e a ripercorrere gli eventi che portarono Roberto Hunter, poeta di fama, al suicidio. La morte di Robert nasconde un segreto, e ci vorranno oltre 500 pagine per arrivare anche solo ad immaginare quale possa essere.
Di solito, questa cosa nei libri di Kate Morton funziona; stavolta, io mi sono annoiata a morte per buona parte del romanzo. 

Probabilmente una delle ragioni è che la voce narrante, Grace, mi è apparsa troppo distaccata dal contesto e a tratti anche inverosimile. La parte più interessante della sua vita sembra essere stata quella vissuta subito dopo le vicende narrate nel romanzo, e questo non mi ha aiutato a immergermi nella vicenda. Infatti, da quel che sappiamo, Grace passa da cameriera semi analfabeta a laureata e archeologa dopo aver lasciato Riverton, la qual cosa mi è sembrata non solo leggermente inverosimile (Grace lascia Riverton giovanissima, e siamo negli anni trenta), ma anche stonata con il resto della narrazione. Mi ha dato fastidio, ecco, come se avesse distratto la mia attenzione dalle vicende principali.

Altro motivo per cui mi sono annoiata è che la storia comincia veramente troppo, troppo tempo prima rispetto al punto focale del romanzo. A parer mio ci sono troppi capitoli che, tagliati, non avrebbero tolto nulla alla comprensione della storia e al suo dipanarsi. Le sotto-trame che ci tengono impegnati finchè i nodi non vengono al pettine non possiedono la forza necessaria, secondo me, a tener vivo l'interesse del lettore.

Indubbiamente il romanzo ha dalla sua una splendida ambientazione. L'aristocrazia inglese degli anni venti, il fermento della società, una grande villa di campagna, la contrapposizione fra classi agiate e domestici sono tutti elementi che adoro in un romanzo. Anche il contesto storico, come ho già detto, è uno dei più vivaci del secolo scorso. I personaggi poi, sono tutti potenzialmente interessanti.
Ma nonostante tutto ciò, la trama risulta troppo diluita tra le pagine, troppo poco serrata per essere all'altezza dei successivi romanzi della medesima autrice.

Voto: 5

Il respiro delle anime...

... di Gigi Paoli.

E' una torrida mattinata di luglio, le scuole sono ormai chiuse e sulle strade semideserte di Firenze e dintorni è calato un silenzio irreale, ma Carlo Alberto Marchi, tenace cronista e instancabile padre-single, continua inesorabilmente a svegliarsi alle sette e dieci. Non resta che mettersi in viaggio verso ''Gotham City'', l'avveniristico Palazzo di Giustizia nella periferia della città - nonché uno dei dieci edifici più brutti del mondo secondo svariate classifiche - e andare a caccia di notizie sull'allarmante ondata di morti per overdose che negli ultimi mesi ha colpito la città. Un'inchiesta con cui il direttore del ''Nuovo Giornale'' sta marcando stretti il reporter e il suo collega, ''l'Artista'', che con la loro tendenza all'insubordinazione non godono certo delle sue simpatie... Ma a scombinare l'agenda di Marchi arriva una notizia che gli fa subito drizzare le antenne: nella notte, a pochi passi da Gotham, un ciclista è stato ucciso da un'auto pirata scomparsa nel nulla. Un banale incidente? Solo all'apparenza. Perché se si aggiunge che la vittima era il dirigente americano di una nota azienda farmaceutica, e che solo pochi giorni prima era rimasto coinvolto in una retata in un ambiguo locale del centro, il caso si fa piuttosto interessante. Molte e intricate sono le piste che si aprono davanti alle forze dell'ordine e a chiunque abbia voglia di vederci chiaro: una lugubre villa dalle finestre murate, un misterioso iPhone placcato d'oro, un barbone che forse dice la verità, un pericoloso boss della malavita... Marchi si troverà alle prese con l'inchiesta più complessa, torbida e inquietante della sua carriera. (sinossi dal sito della casa editrice Giunti)
 
Mi sono avvicinata a questo secondo capitolo delle indagini del giornalista Carlo Alberto Marchi con molta diffidenza. Il rumore della pioggia mi era piaciuto, ma la mia opinione aveva risentito del fastidio che personalmente avevo provato per il protagonista e i suoi tentativi (malriusciti, secondo me) di ironizzare sulla sua situazione di padre single attraverso ovvietà, frasi fatte e stereotipi che sfioravano pericolosamente il sessismo.

Per fortuna devo dire che in questo secondo romanzo, Marchi è decisamente migliorato, dal mio punto di vista. Il personaggio è meno sopra le righe, meno impegnato a fare battute a tutti i costi, più concentrato sul suo lavoro e su chi ha davanti. Ritroviamo ancora la figlia pre-adolescente Donata, ma questo volta l'autore ha saputo dosarne la presenza in maniera più attenta, riuscendo a tenere il focus sul protagonista e sulla sua indagine giornalistica. Insomma, il rapporto padre figlia, che comunque concorre a caratterizzare il personaggio, è presente, ma non ruba la scena alla trama. Secondo me, visto come era stato gestito nel primo capitolo della serie, questo è un bene.

Mentre Marchi narra in prima persona le vicende  di cui è protagonista, altri capitoli del romanzo sono raccontati in terza persona e descrivono le attività della Procura e della Polizia giudiziaria. Mi è piaciuto questo modo di organizzare la stroria, e questa dicotomia tra la fredda procedura e il calore, per così dire, dell'investigazione giornalistica.
A ciò dobbiamo aggiungere che la trama è particolarmente strutturata e ben architettata. Si parte da quello che sembra un triste ma purtroppo banale incidente automobolistico, per arrivare ad un mistero che si ingigantisce pagina dopo pagina, e che è stato davvero piacevole da leggere. Mi è piaciuto come nell'ingigantirsi del mistero vengano ben inseriti alcuni elementi piacevolmente inquietanti come una villa in rovina, con gli ingressi e le finestre murati, ed un cimitero monumentale in mezzo alla città.
Interessante è stata anche l'introduzione di un nuovo investigatore di polizia giudiziaria, un uomo a cui un errore in una precedente indagine è costato la carriera, le cui doti investigative, insieme ad una pacata ma ferma voglia di riscatto, saranno preziose.

In conclusione, un giallo davvero mirabile, ben scritto, ben orchestrato, scorrevole, che sa dosare con abilità i due volti che lo scrittore ha dato a questa indagine: l'approccio più umano, psicologico e curioso del giornalista Carlo Alberto Marchi, e quello più rigoroso degli organi preposti alle indagini ufficiali. Consigliatissimo.

Voto: 8=

sabato 24 agosto 2019

Il mondo silenzioso di Nicholas Quinn...

... di Colin Dexter.

Non è stato facile per Nicholas Quinn riuscire a ottenere la nomina accademica di membro del Comitato Esami Esteri di Oxford. Il giovane professore era afflitto da una sordità progressiva e questo, a parere di alcuni, avrebbe ostacolato una piena funzionalità. Ma alla fine, tra gelosie e risentimenti, l’aveva spuntata sui candidati concorrenti e aveva intrapreso il compito armato del sussiego e della flemma comune a tutti nell’ambiente del santuario universitario. Un giorno Nicholas viene ritrovato cadavere nel suo appartamento da scapolo. Accanto una bottiglia dello sherry preferito. La causa della morte appare semplice: avvelenamento da cianuro. Ma l’indagine dell’ispettore Morse della Thames Valley Police e del suo aiuto Lewis è tutt’altro che semplice. L’ambiente accademico è oscuro, arcano, reticente; è chiuso in un guscio claustrofobico in cui le domande investigative sembrano prevedibili ma tutto è così vischioso che è impossibile muoversi. Si mescolano motivi di carriera, passioni sessuali, intrighi economici, coinvolgimenti di finanziatori esteri, personaggi dalla vita privata impenetrabile. E poi, del tutto all’improvviso, un secondo inspiegabile omicidio. Un ginepraio per l’ispettore Morse, sempre brusco e bisbetico con il paziente sergente; e sempre affezionato agli intermezzi nei pub dove esporre allo scettico collaboratore la trama dei suoi percorsi mentali. (Sinossi dal sito della casa editrice Sellerio)

In questo terzo capitolo della serie dedicata all'ispettore Morse, Colin Dexter ci porta come di consueto ad Oxford, ma questa volta nell'ambiente accademico, e precisamente all'interno degli ingranaggi burocratici del Comitato Esami Esteri, ovvero all'interno di quell'ente che supervisiona gli esami per ottenere una certificazione di conoscenza della lingua inglese. Un tema decisamente attuale, nonostante il romanzo sia stato scritto nel 1977, e inconsueto per un romanzo giallo. 

L'ispettore Morse, burbero e scontroso come sempre, amante degli alcolici e restio a condividere le sue scoperte con il suo collaboratore sergente Lewis, entra in scena relativamente tardi.
La prima parte del romanzo infatti segue le vicende di Nicholas Quinn, la sua elezione a membro del Comitato e i suoi primi passi all'interno dell'ente.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, arriva il suo avvelenamento, e parte la caccia al chi e soprattutto al perchè.
Già, perchè la particolarità di questo romanzo è che l'indagine ruota intorno alla convulsa ricerca di un movente per un delitto che appare senza senso alcuno. Il signor Quinn era un uomo pacifico, abitudinario, senza nemici e senza scheletri nell'armadio.

Perfetta la caratterizzazione della vittima, proprio grazie alla lunga introduzione che ho già citato; perfetta risulta inoltre la caratterizzazione degli altri personaggi, quasi tutti accademici , di cui a poco a poco veniamo a conoscere rancori, invidie, ripicche, alleanze momentanee e piccole vendette.
L'unico neo che ho rilevato è proprio la personalità dell'ispettore Morse, nonostante l'accurata caratterizzazione. L'ispettore è burbero, a tratti misogino, spesso scrtese e dispotico, ed io non riesco a trovare un appiglio che mi aiuti ad entrare in sintonia con lui, nonostante le indubbie capacità investigative. 

Mi ha colpito maggiormente l'ambientazione. Il mondo accademico, all'apparenza statico, polveroso, quasi soporifero si rivela, attraverso la trama creata da Colin Dexter, vitale e anche terribilmente complicato. Le ambiguità e le bugie che caratterizzano i rapporti all'interno del comitato fanno sì che le indagini abbiano continui capovolgimenti di fronte e colpi di scena. Quando gli indizi sembrano puntare in una direzione, ecco che spunta qualcosa a scombinare nuovamente le carte sul tavolo.
L'indagine è di tipo deduttivo, e ho apprezzato moltissimo che la soluzione finale venga svelata grazie ad un sottilissimo dettaglio, presentato fin dall'inizio agli occhi del lettore, ma a cui, probabilmente, si presta poca importanza.

In conclusione, questo romanzo è un classico giallo all'inglese, un'indagine deduttiva in cui viene usata il più classico dei modi per uccidere, il veleno, e consigliata a tutti gli amanti del genere. Qualche perplessità suscita la personalità del protagonista, a tratti, a parer mio, un po' troppo sopra le righe.

Voto: 7

Morte di una sgualdrina. I casi di Hamish Macbeth #2...

... di M. C. Beaton.

Una sgualdrina con un cuore di pietra: ecco chi è Maggie Baird. Né gentile né generosa, ma certamente molto, molto ricca. Così, quando la sua auto prende fuoco con lei dentro, ci sono almeno cinque candidati per il ruolo di assassino. Tutti e cinque sono ospiti nella sua lussuosa residenza nelle Highlands: la timida nipote Alison e quattro uomini, una volta suoi amanti, ora chiamati a una sorta di competizione che avrà come premio il matrimonio con Maggie. Tutti e cinque sono in difficoltà finanziarie e tutti hanno avuto la possibilità di manomettere la macchina.
Hamish Macbeth avrà bisogno di dosi massicce del suo straordinario buonsenso e della sua capacità di comprensione dell’animo umano per risolvere il caso. (Sinossi dal sito della casa editrice Astoria)

In questa sua seconda avventura, il poliziotto scozzese Hamish Macbeth si ritrova trasferito in città, e deve lasciare la sua amata Lochdubh, paesino delle Highlands. Hamish si strugge di nostalgia, ma non è il solo: anche gli abitanti di Lochdubh sentono la sua mancanza, e faranno di tutto per far sì che Hamish venga riassegnato al luogo cui appartiene. Quando finalmente ci riescono, accade l'evento che dà il titolo al romanzo: Maggie Baird muore in un incidente a dir poco sospetto. Dato il passato della vittima, e una schiera di pretendenti interessati al suo patrimonio, l'indagine non sarà semplice.

Questo nuovo caso di Hamish Macbeth segna, a parer mio, un deciso passo avanti rispetto al romanzo precedente. Il romanzo appare infatti più solido, con una trama meglio strutturata,  personaggi più focalizzati e una narrazione meno dispersiva.
L'ambientazione è la medesima - bellissima - del romanzo precedente. Le Highlands si rivelano nella loro quotidiana, tranquilla bellezza.
La trama è articolata e vivace. Prende spunto dal trasferimento di Hamish per mettere in scena tutti gli attori della tragedia che avverrà di lì a poco.
L'inizo è pertanto interessante, perchè le vicende prendono il via  da fatti che apparentemente non hanno niente a che vedere con il delitto che verrà commesso di lì a poco.

Sicuramente il fulcro del romanzo è Hamish, investigatore all'apparenza pigro e indolente, ma in realtà scaltro e acuto. Quello che mi colpisce di lui è la sua indole tranquilla, di uomo che, nonostante tutto, sa di essere esattamente nel posto in cui dovrebbe essere, e di stare svolgendo il lavoro per cui è nato. Mi piace questa sua pacatezza, questa mancanza di "ansia da prestazione" che si respira nei gialli di questa serie.
Mancanza di ansia non vuol però dire che non ci sia interesse ad andare avanti nella lettura; il giallo si ispira ai canoni classici del genere, innestando nel filone elementi di novità, rappresentati proprio dalla fusione dell'investigazione con la perfetta ricostruzione della tranquilla vita di un paesino delle Highlands scozzesi.
Per quanto traumatico, il delitto fa parte delle vicende della vita moderna, purtroppo, ed è da questo punto di vista che Hamish indaga e cerca di sbrogliare la matassa.
Il numero di sospettati è sufficientemente ampio da garantire la complessità del mistero; ed allo stesso tempo è sufficientemente ristretto da consentire al lettore la sua personale indagine. Quest'ultimo elemento, per me, è fondamentale in un giallo: devo avere la possibilità di formulare le mie ipotesi e trarre le mie conclusioni.

Ben riuscito anche il finale, che chiude la vicenda ma lascia al lettore la voglia di continuare con la serie.
Voto: 7

È tempo di ricominciare...

di Carmen Korne.

È il 1949. La guerra è finita. I nazisti sono stati sconfitti. Come molte altre città, Amburgo è ridotta a un cumulo di macerie e in parecchi si ritrovano senza un tetto sulla testa. Fra questi, Henny, che ha finalmente accettato di sposare Theo e continua a cercare la cara Käthe, che risulta ancora dispersa nonostante l’amica sia sicura di avere incrociato il suo sguardo, la sera di San Silvestro, su quel tram… Nel frattempo, mentre Lina e la sua compagna Louise aprono una libreria in città, Ida si sente delusa dal modesto ménage coniugale con il cinese Tian, pur avendo mandato all’aria il suo precedente matrimonio per stare con lui, e ricorda con nostalgia la sua giovinezza di rampolla di una famiglia altolocata. Sono in molti ad aver perso qualcuno di caro, e sono in molti ad attendere il ritorno di qualcuno, giorno dopo giorno, alla finestra. Ma per i sopravvissuti tornare a casa non è facile, si ha paura di cosa si potrebbe trovare, o non trovare più.
Gli anni passano, i figli delle protagoniste crescono e anche loro hanno delle storie da raccontare. Sullo sfondo, la ripresa dell’economia tedesca e le rivoluzioni sociali che hanno scandito gli anni Cinquanta e Sessanta: lo sbarco sulla Luna, la costruzione del Muro di Berlino, il riarmo e la paura del nucleare, l’arrivo della pillola anticoncezionale, l’irruzione della televisione nella vita quotidiana delle famiglie, l’inizio dei movimenti studenteschi e la musica dei Beatles.
Dopo Figlie di una nuova era, il secondo, attesissimo capitolo di questa fortunata e appassionante trilogia che racconta la vita di quattro amiche nella Germania del Novecento. (Sinossi dal sito della casa editrice Fazi Editore)

Figlie di una nuova era mi era piaciuto tantissimo. Proprio per questo le aspettative per il  nuovo capitolo della storia di Henny, Käthe, Ida e Lina erano piuttosto alte e mi duole affermare che sono andate deluse. Vi spiego perchè.

La guerra è finita da poco, le macerie, fisiche e psicologiche, del nazismo e della conflitto mondiale, sono ancora lì, a ricordarci ad ogni pagina l'orroore degli eventi che si sono ancora conclusi.
I capitoli ambientati nell'immediato dopoguerra sono, a parer mio, i migliori del romanzo, quelli in cui ho ritrovato lo spirito del volume precedente. Quattro donne normali che lottano per non soccombere alla Storia, che cercano di sopravvivere senza dimenticare i legami umani che uniscono al resto del mondo: questa è l'anima del romanzo.
È stato emozionante scoprire come, quando una guerra finisce, non finisce mai dall'oggi al domani, con la firma su un armistizio o su un trattato di pace. Le conseguenze sulla vita delle persone possono trascinarsi per anni. È stato interessante vivere, attraverso le pagine del libro e le semplici ma vivide descrizioni dell'autrice, una sofferta ricostruzione.
Purtroppo, con l'avanzare della narrazione e col procedere degli anni, queste emozioni si sono sciolte tra le pagine come neve al sole.
Le storie narrate, nonostante l'introduzione di nuovi personggi - figli, amici e compagni dei protagonisti - diventano ripetitive e un filino noiose.
Chissà, forse proprio l'aver ampliato il numero dei protagonisti ha causato la perdita di coesione nella trama, che pare voler raccontare mille cose, nessuna delle quali veramente incisive.
O forse, il motivo principale di questa mia opinione è che in questo romanzo non c'è pathos e non c'è quasi mai tensione narrativa.  Sciolto, fin troppo presto, a parer mio, il nodo sulla scomparsa di Käthe, resta ben poco a tenerci incollati alla pagine.
Certo, l'autrice ci snocciola con una certa abilità fatti ed eventi del dopoguerra, che rivivono attraverso le pagine del libro e suscitano anche una certa emozione, ma la compiaciuta riscoperta della storia del cosiddetto secolo breve non è stata abbastanza, dal mio punto di vista, per creare una storia intrigante.
Secondo me, in questo romanzo manca un polo antagonista delle quattro protagoniste, che sia un evento di grande portata come l'ascesa del nazismo, oppure semplicemente il "cattivo"di turno.

Prendiamo ad esempio la storia di Klaus, figlio di Henny e del suo primo marito. 
Klaus è un omosessuale in una società che considera la sua natura un crimine. Mi sarei aspettata che il ragazzo fosse in pericolo, che la sua storia fosse fonte di ansia per il lettore, ma mi sono ben presto resa conto che Klaus, protetto dall'ampia tribù della sua famiglia allargata, non correrrà mai alcun rischio. Certo, mi fa piacere per lui, però che noia.
Stesso discorso potrei fare a proposito di un personaggio (che non nominerò per evitare spoiler) che ha una malattia invalidante e potenzialmente mortale: anche qui, farmaci miracolosi che capitono senza troppa fatica nella trama, e la malattia diventa un dettaglio da menzionare di quando in quando, ma senza effetti dirompenti sulla narrazione.

Ho detto spesso, in altre recensioni, che il conflitto e il dramma sono, secondo me, la vera essenza di una storia ben riuscita. Qui mancano entrambi, e perciò non mi sento di dare la sufficenza al romanzo.
Voto: 5


Fiori sopra l'inferno...

... di Ilaria Tuti.

«Tra i boschi e le pareti rocciose a strapiombo, giù nell’orrido che conduce al torrente, tra le pozze d’acqua smeraldo che profuma di ghiaccio, qualcosa si nasconde. Me lo dicono le tracce di sangue, me lo dice l’esperienza: è successo, ma potrebbe risuccedere. Questo è solo l’inizio. Qualcosa di sconvolgente è accaduto, tra queste montagne. Qualcosa che richiede tutta la mia abilità investigativa.
Sono un commissario di polizia specializzato in profiling e ogni giorno cammino sopra l’inferno. Non è la pistola, non è la divisa: è la mia mente la vera arma. Ma proprio lei mi sta tradendo. Non il corpo acciaccato dall’età che avanza, non il mio cuore tormentato. La mia lucidità è a rischio, e questo significa che lo è anche l’indagine.
Mi chiamo Teresa Battaglia, ho un segreto che non oso confessare nemmeno a me stessa, e per la prima volta nella vita ho paura.» (sinossi dal sito della casa editrice Longanesi)

Siamo a Travenì, un piccolo paese di montagna in Friuli. Qui vive e lavora Teresa Battaglia, commissario sessantenne, donna forte, intelligente e preparata, che, però, nasconde una insospettata fragilità. La sua debolezza, alla lunga, diventa un punto di forza, perchè la rende quanto mai empatica e perspicace sulla natura umana.
Il commissario Battaglia, che ha studiato come profiler, si trova ad indagare su una serie di omicidi molto cruenti, che appaiono quasi inconcepibili in un posto come Travenì, paese tranquillo a ridosso delle Dolomiti e circondato da boschi.
Proprio a causa di questo stridente contrasto, l'ambientazione diventa protagonista del romanzo al pari dei personaggi in carne ed ossa. L'abilità con cui Ilaria Tuti riesce a fondere narrazione e descrizione dei luoghi crea un'atmosfera inquietante, di pericolo incombente, che cala il lettore immediatamente all'interno della storia. Decisamente questo è uno degli aspetti migliori del romanzo.

La trama, comunque, non è da meno. Ho adorato il fatto che la storia narrata affondi le sue radici in qualcosa che è accaduto nel passato, ma che i legami tra passato e prewsente non siano immediatamente intuibili.
La narrazione degli eventi del passato è incredibilmente inquietante, e anche se il lettore non comprende subito dove andremo a parare, riesce a gettare un'ombra nera sul presente, e ad alimentare quel senso di ansia costante che deve essere l'ingrediente principale di ogni thriller che si rispetti.
Da questo punto di vista, Ilaria Tuti centra in pieno l'obiettivo.
Questa è, inoltre, la parte che ho preferito nel romanzo, perchè personalmente adoro i segreti sepolti nel passato che devono essere svelati attraverso indagini criminali; il segreto in questione, poi, è particolarmente interessante e ben narrato.

Altra menzione spetta ovviamente alla protagonista, il già citato commissario Battaglia. Il personaggio è particolarmente ben riuscito perchè, sebbene si inserisca nel filone dei poliziotti tutti di un pezzo con una nascosta debolezza, riesce a risultare originale. La sua fragilità non è infatti ostacolo, ma piuttosto un percorso attraverso cui il commissario, sebbene spaventato dalla propria situazione, riesce a tirar fuori l'empatia necessaria per far luce sul caso. 

Fiori sopra l'inferno è il thriller che andrebbe consigliato a tutti gli amanti del genere, e non solo. Se pensiamo che si tratta di un libro di esordio non possiamo non congratularci con Ilaria Tuti per la maturità con cui la trama è stata sviluppata, dosando sapientemente i cambi di scena, di punti di vista, di ambientazione. Lo stile è pulito, diretto ed efficace.

Voto: 8

Sangue marcio...

... di Antonio Manzini.

 «Ero un bambino felice. Facevo le cose che fanno tutti i bambini felici. Questo fino al 12 ottobre 1976».
Pietro e Massimo Sini vivono un’infanzia dorata. Villa con campo da tennis, piscina, videogame Atari. Poi, una mattina del 1976 cambia tutto. La polizia arriva in casa con un ordine di arresto e si porta via il padre. “Il mostro delle Cinque Terre” lo chiameranno qualche giorno dopo i giornali. Sono passati quasi trent’anni e i due fratelli hanno preso strade differenti: Pietro ha trascorso l’adolescenza in un istituto di preti a Torino e ora fa il cronista di nera in un giornale, Massimo ha vissuto con un zio a Padova ed è diventato commissario di polizia. Ma i delitti di un serial killer che da due anni cuce con ago e filo le vagine delle sue vittime, li riavvicinano. Sembrano tutt’e due cambiati. Massimo, che da piccolo era un tipo violento che usava minacciare i suoi coetanei con la frase «vatti a nascondere in Tibet», ora è un uomo stanco e triste che beve troppi martini. Pietro invece è diventato scaltro e freddo come un serpente. Non ha storie d’amore, non ha amici. Vive per il suo lavoro. Il suo unico obiettivo è mettere suo fratello sulle tracce del serial killer e farlo diventare un eroe. Ci riuscirà? (sinossi dal sito Fazi Editore)

Questa è la storia di due fratelli, a cui il destino prima concede molto, poi toglie tutto in un modo cinico e crudele. Figli di una famiglia all'apparenza solida, normale, e notevolmente agiata, una mattina scoprono che il padre è un efferato serial killer. Perdono così, da un momento all'altro, ogni cosa. Non sono tanto gli agi e le comodità la perdita più dura, quanto il doversi rassegnare a vivere da reietti, spinti ai margini da una colpa che inevitabilmente ricade su di loro, innocenti e inconsapevoli.
Manzini riesce a narrare stupendamente il cambiamento
Quando Antonio Manzini non si dedica al suo personaggio più famoso, Rocco Schiavone, riesce comuqnue a scrivere romanzi che hanno una forza dirompente e una originalità sorprendente. Come già mi era successo con La giostra dei criceti, ho trovato la lettura estremamente coinvolgente e sorprendente.
La trama parte in sordina ma ben presto acquista forza. Sebbene si parli di un serial killer, non si tratta esattamente di un thriller (di un noir sicuramente, ma di certo non di un thriller), eppure Sangue marcio è un page turner che deve la sua fortuna ad una profondità e uno spessore psicologico che molti thriller non hanno. Questo romanzo infatti ha diverse anime, come i suoi protagonisti, e con stile a volte leggermente ironico e distaccato, a volte cupo e malinconico, ci guida attraverso le luci (poche) e le ombre (molte) che albergano negli esseri umani.
Quello che spinge a leggere senza tregua è stato, nel mio caso, il senso di profonda inquietudine che le vicende ambientate nel presente e gli sprazzi di passato riuscivano a darmi. Ad ogni capitolo, la vicenda acquista sempre più senso, fino a che il grande mosaico che l'autore stavo componendo non ci viene rivelato.
Ho letto di alcuni lettori che si lamentavano della facilità con cui erano giunti alla verità; onestamente io non avevo intuito niente fino al momento in cui l'autore non ha deciso di giocare a carte scoperte.
Ed è stato un  pugno nello stomaco.

Voto: 7 e 1/2