sabato 30 giugno 2018

L' amante del doge...

di Carla Maria Russo.
 La scheda del libro sul sito della casa editrice Piemme

Venezia, 1755. Caterina Dolfin, giovane nobildonna veneziana, è stata educata dal padre ad amare la cultura, le arti, la letteratura e la filosofia. Diversa dalle altre donne del suo tempo, alla morte del genitorie si ritrova in gravi ristrettezze economiche, e la madre, che non la comprende, la costringe a sposare un uomo di piccola nobiltà che non sa apprezzarne lo spirito e la cultura.
In una notte carnevalesca, Caterina si traveste ed esce di nasconsto e conosce Andrea Tron, influentissimo ambasciatore al servizio della Repubblica. Da quel momento la sua vita non sarà più la stessa.

Questa è la storia, leggermente romanzata, di due figure storiche realmente esistite, Caterina Dolfin e Andrea Tron. I due protagonisti si muovono sullo sfondo delle vicende politiche degli ultimi anni di splendore delle Serenissima Repubblica di Venezia. In particolare, Andrea Tron ne è un elemento di spicco, mentre Caterina, pur essendo di nobili origini, non ha grandi mezzi ed è costratta a vivere ai margini dell'alta società. La ragazza però non si piega ad accettare un destino fatto di rinunce più che materiali, morali e spirituali; contrariamente alle donne dell'epoca, ha avuto una buona istruzione, ama la letteratura e la cultura e non si rassegna a vivere in un mondo chiuso dove tutto questo le è precluso. La sua scelta per rompere le sbarre della sua prigione avrà conseguenze dirompenti, ma lei procederà per la sua strada sicura di sè. Questa cosa mi è piaciuta molto.

Di questo romanzo infatti ho apprezzato principalmente proprio la figura della protagonista femminile, Caterina Dolfin. Una donna di un certo carattere, che fa scelte non convenzionali e ne paga le conseguenze senza battere ciglio. Meno intrigante il protagonista maschile, che, in fin dei conti, ha dalla sua tutto: bello, ricco, nobile e stimato da tutti a venezia. Per la serie: ti piace vincere facile? 
Battute a parte, è sicuramente un personaggio che non ha la forza e il carisma di Caterina, secondo me, perchè non ha i suoi tormenti e non deve prendere le difficili decisioni che deve prendere lei. In ogni caso si tratta di un buon contrappunto per una personalità forte come quella di Caterina.

Quello che non mi ha soddisfatta appieno nel romanzo è stata proprio la trama.
Se questo fosse stato un saggio storico, probabilmente l'avrei trovato più interessante.  Mi spiego meglio.
Tutte le vicende narrate nel romanzo ci vengono appunto raccontate a posteriori, dopo che sono accadute e non le viviamo mai in prima persona. Dopo aver assisitito al primo incontro tra  due protagonisti, tutto quello che succede dopo lo sentiamo raccontare da questo o quel personaggio, oppure lo apprendiamo seguendo i ricordi di Caterina o di qualcun'altro. La sensazione che ne ho avuto io, e che mi ha guastato il piacere della lettura, è stata quella di essermi costantemente persa qualcosa, come se fossi arrivata a metà di un film e qualcuno me lo stesse raccontando.
Anche i continui salti temporali, riempiti appunto dal racconto degli avvenimenti passati, non aiutano la trama ad avere ritmo e organicità. Insomma, io a tratti mi sono annoiata.
Se un autore mi deve raccontare una storia io voglio viverla, non voglio sentirla di seconda mano dalla bocca di un personaggio, a maggior ragione quando gli eventi salienti di un romanzo non sono tantissimi e non particolarmente sconvolgenti.
Non sono una fanatica dello show, don't tell [1], ma secondo me qui siè decisamente esagerato in senso opposto.
Secondo me è un peccato, anche perchè, come detto, i due protagonisti, specialmente Caterina, sono più che apprezzabili; e soprattutto l' ambientazione della Venezia settecentesca è curatissima. Si vede che c' è un grande lavoro di ricerca storica alle spalle di questo romanzo. L'autrice sembra davvero sapere tutto dell'epoca e sa usarlo con naturalezza durante la narrazione. A volte però questi dettagli prendono il sopravvento sulla trama, e la situazione politico-sociale della Serenissima viene raccontata dilungandosi eccessivamente; ma la cosa non mi avrebbe disturbato più di tanto se, come detto, avessi potuto leggere una trama esposta diversamente.

Voto: 5 e 1/2 (e non di meno per l'enorme ed accurato lavoro di ricerca che c'è alle spalle del romanzo)

[1]Definizione di Show, don't tell

giovedì 28 giugno 2018

Scritto a Napoli #1: Aglio, olio e assassino...

... di Pino Imperatore.

Buongiorno. Oggi inauguriamo una nuova rubrica intitolata Scritto a Napoli.Come potete facilmente intuire, ogni mese recensirò un libro di uno/a scrittore/scrittrice napoletano/a, spaziando da quelli che non hanno bisogno di alcuna presentazione (qualcuno ha detto de Giovanni?) a quelli che magari ancora non conoscete.
E a proposito di de Giovanni, questa rubrica nasce da una frase pronunciata proprio dallo scrittore, sentita la sera in cui ho avuto la fortuna di partecipare ad una cena letteraria in cui lui era ospite (l'ho mai raccontata questa sotria? Non mi sembra...) La frase era: A Napoli, per non diventare scrittore, devi solo essere analfabeta.
Da quel momento mi sono chiesta se fosse vera questa cosa; cosa offra il panorama degli scrittori napoletani, quali generi, che tipo di romanzi, e se Napoli sia sempre presente nei loro libri, o resti soltanto un sfondo.

Iniziamo dunque questa sorta di esplorazione partenopea con un giallo scritto da Pino Imperatore: Aglio, Olio e assassino. Ringrazio la casa editrice DeAPlaneta per avermi inviato la copia da recensire. 

L'ispettore Gianni Scapece, napoletano da poco rientrato a Napoli, si trova a dover indagare sull'omicidio di una ragazzo, il cui cadavere l'assassino a condito, per così dire, con aglio, olio e soprattutto peperoncino. La polizia inizialmente brancola ne buio, ma quando nelle indagini irrompe la famiglia Vitiello, con in testa nonno Ciccio e suo figlio Peppe, proprietari di una rinomata trattoria, l'assassino ha le ore contate.

Aglio, olio ed assassino è un piacevolissimo romanzo che alterna sfumature gialle a venature di commedia.

Sulla scena di una Napoli bellissima e sorniona, protagonista al pari dei personaggi in carne e ossa, si muove l'ispettore Scapece, un poliziotto che non segue l'attuale trend che vede gli investigatori pieni di problemi e con fardelli pesanti provenienti dal loro passato; Scapece è sì scapolo, ma abbastanza felicemente. Ama la vita, il suo lavoro, la sua città e la buona cucina. È simpatico, ha un discreto successo con le donne e un grande senso della giustizia. Questi pregi possono sembrare un po' troppo numerosi, ma l'ispettore affronta successi e fallimenti con grande ironia, quindi è impossibile non trovarlo almeno un pochino simpatico.

Gli altri personaggi non sono da meno. I Vitiello, padre e figlio, sono i personaggi di una commedia, sempre pronti a recitare la loro parte, sempre con la battuta a fior di labbra.
L'unica personalità esclusa dalla solorità generale dei protagoonisti è, ovviamente, quella dell'assassino. Ben presto si capisce che si tratta di un inquietante fanatico che non si fermerà al primo omicidio.
Qui si nota la bravura dell'autore, il quale riesce, mentre ci delizia con scene di vita popolare napoletana, a intrecciare il brutale omicidio di un giovane con le leggende più fosche della città partenopea, in particolare, quella del diavolo di Mergellina [1] e quella, più recente, della maledizione della Gaiola. [2]
Nonostante gli excursus  - che io di solito non amo particolarmente - sulla storia e sui miti della città, la trama risulta organica e ben strutturata; anzi, queste digressioni non solo sono piuttosto intriganti, ma fanno da collante tra l'indagine ufficiale e quella dei Vitiello, depositari della cultura popolare.
Questo intreccio è la cosa che più mi ha affascinato del romanzo, che meriterebbe di essere letto anche solo per questo.

La trama gialla è abbastanza lineare e non particolarmente intricata; del resto tutto il romanzo è improntato ad una divertita leggerezza che ho sinceramente apprezzato. 
Unico neo, a parer mio, il finale, un po' troppo rocambolesco e sopra le righe per i miei gusti. Fortunatamente la cosa non ha affatto inficiato il lavoro di costruzione narrativa svolto fino a quel momento dall'autore, e dunque il mio giudizio sul romanzo resta ampiamente positivo.
 
Una lettura non consigliata se cercate un giallo mozzafiato; ma sicuramente un libro da leggere se cercate una lettura piacevole, divertente e simpatica.

Voto: 7

Che ne pensate? Lo leggerete? Intanto io vi do appuntamento  al mese prossimo con un altro libro Scritto A Napoli.

[1] Per la storia del diavolo di Mergellina, clicca qui
[2] Per saperne di più sulla cosiddetta maledizione della Gaiola, clicca qui

mercoledì 27 giugno 2018

Picnic ad Hanging Rock...

... di Joan Lindsay.

Australia, 1900. In un esclusivo collegio nello stato di Victoria, nel sud del paese, si organizza un picnic ai piedi della famosa formazione rocciosa di Hanging Rock, luogo misterioso, considerato sacro dagli indigeni. Durante il picnic tre ragazze e un'insegnate scompaiono, e mentre si svolgono ricerche disperate, nel collegio si consumano piccoli e grandi drammi. Col passare dei giorni il mistero sembra destinato a rimanere insoluto.

Picnic ad Hanging Rock ruota intorno allla soffocante vita di un collegio di epoca vittoriana, l'Appleyard College, una di quelle scuole per signorine, dove le famiglie benestanti mandavano le figlie ad apprendere come essere graziose e decorative, nell'attesa di trovare un buon partito da fare sposare loro. La vita nel collegio è rigida, difficile da sopportare per la giovane Miranda, uno spirito libero amante della natura, ma anche per la piccola Sara, sua giovanissima protetta, orfana che frequenta il collegio grazie alla generosità di un benefattore, ma mal tollerata dalla direttrice. Miranda sarà una delle ragazze a sparire, insieme alle sue amiche Irma e Marion, dopo che il gruppetto si era allontanato per esplorare da vicino Hanging Rock. 
La sparizione destabilizzerà la vita del collegio, delle insegnanti e anche degli abitanti del vicino villaggio, causando una serie di eventi tragici. 

Mentre da un lato seguiamo le affannose indagine della polizia (che nonostante un colpo di scena durante le ricerche sembrano non approdare a nulla), dall'altro l'autrice apre una finestra su quello che hanno fatto le ragazze immediatamente prima della sparizione, alternando capitoli dell'uno e dell'altro filone narrativo, offrendoci squarci della soluzione finale già nel terzo capitolo (ma non temete, difficile cogliere già al terzo capitolo, nonostante i segnali, la soluzione del mistero).

Picnic ad Hanging Rock non è esattamente un thriller; la sparizione delle ragazze è più un pretesto per raccontarci della vita del collegio, dei suoi segreti, della pressione psicologica che la società esercitava in particolare sulle donne. In effetti, potremmo definirlo un thriller psicologico, dove però la soluzione del mistero è l'ultimo dei pensieri dell'autrice.

Infatti questo è un libro molto particolare, che deve la sua fama solo in parte alla validità del contenuto. Intorno al romanzo è stata costruita con successo un'atmosfera di mistero, di spiritualità, di dubbio, che ha contribuito alla sua popolarità.
Iniziamo col dire che è la stessa autrice a creare un efficace alone di mistero con questa frase introduttiva:

Se Picnic ad Hanging Rock sia realtà o fantasia, i lettori dovran deciderlo per conto proprio. Poiché quel fatidico picnic ebbe luogo nell’anno 1900 e tutti i personaggi che compaiono nel libro sono morti da molto tempo, la cosa pare non abbia importanza.

Con queste righe, Lindsay è già riuscita ad accendere la curiosità del lettore. Se a ciò aggiungiamo la presenza nel romanzo di estratti di articoli di giornali dell'epoca (veri o falsi anche questi?) il quadro è completo.
Ma non è tutto. Dovete infatti sapere che originariamente il romanzo era composto da diciotto capitoli; su richiesta dell'editore il capitolo finale fu tagliato e alcune parti vennero inserite nel capitolo tre, in modo che la soluzione del mistero restasse sospesa e non evidente.
Per volontà dell'autrice il capitolo diciotto fu diffuso solo dopo la sua morte. Purtroppo non è stato tradotto in italiano, ma è facilmente ( e legalmente) reperibile in rete in inglese. 

Detto questo, se vi state domandando se il romanzo mi sia piaciuto o meno, vi dirò che la risposta è sì, il romanzo mi è piaciuto molto. Ho apprezzato moltissimo l'introspezione psicologica dei personaggi, chiusi in un mondo di regole oppressive, talune assurde e completamente fuori luogo (come il divieto, per le ragazze del collegio, di uscire senza guanti anche in una torrida giornata dell'estate australiana). Mi è piaciuta moltissimo la descrizione della vita di questo collegio così particolare, sospeso tra la routine molto british dell'epoca vittoriana e il richiamo della libertà che la selvaggia natura australiana, a stento domata ma solo entro i confini del collegio, lancia a tutti i protagonisti. Forse il senso del romanzo sta proprio in questo contrasto, e se leggerete sia il romanzo che il misterioso capitolo 18, potrete apprezzare in pieno questa dicotomia, che alla fin fine sta alla base della misteriosa sparizione.
Ho altresì amato l'alone inquietante che ruota intorno alla romanzo; i dubbi disseminati con maestria (fatto di cronaca o invenzione letteraria?), il mistero soffocante di cui sembra che il lettore non possa liberarsi.

Mi rendo però perfettamente conto che questo è un tipo di romanzo che o si ama o si odia. Facile odiarlo perchè non c'è niente di definito, niente di detto chiaramente; tutto è vago, accennato; i segni, gli indizi, le tracce ci sono ma vanno colti e interpretati. Se siete persone pragmatiche, che in un thriller/mistery cercano una soluzione chiara e definitiva, questo romanzo non fa per voi. Se siete aperti a diverse possibilità, allora vi consiglio di dare una chance a Picnic ad Hanging Rock.
Per me è stata più che una lettura. È stata una vera esperienza.

Voto: 7 e 1/2

PS: se per caso vi state chiedendo se la sparizione alla base del romanzo sia un fatto di cronaca reale, purtroppo non ho una risposta certa alla vostra domanda. Molte ricerche sono state fatte dai fan a tale proposito. Ma non è stato possibile chiarire se la Lindsay si sia ispirata ad un fatto realmente accaduto (magari con circostanze e data diverse) o se la trama sia esclusivamente frutto della sua fantasia.

PPS: Di recente è andata in onda su Sky Atlantic una serie tv in sei puntate basata sul romanzo. Se volete la mia opinione (e se siete arrivati fin qui magari vi interessa), lasciate perdere. La serie riesce a trasformare quanto c'è di vago e di non detto nel romanzo in estrema confusione; elimina gli elementi spirituali in favore di quelli più genuinamente misteriosi senza riuscire però a conferire organicità alla storia.

giovedì 14 giugno 2018

La scomparsa di Stephanie Mailer...

... di Jöel Dicker.



Buongiorno a tutti. Oggi parliamo di un libro interessante per la rubrica Questa volta leggo, ideata da Dolci (Le mie ossessioni librose)Chiara (La lettrice sulle nuvole) e Laura (la Libridinosa). Il tema di questo mese è: leggere un libro con più di 300 pagine. 
I libri voluminosi non mi hanno mai spaventato, anzi. Amo i libri corposi per una ragione molto semplice: come tutti i lettori appassionati, mi affeziono ai personaggi e alle storie, e quando un libro ha in più il pregio di non finire troppo in fretta sono felice.
Quindi, tornando al tema di questo mese, perchè limitarsi a sole trecento pagine? Se uno deve fare una cosa, meglio farla bene no?
Il romanzo di cui vi parlerò fra breve, tra l'altro, mi è stato regalato dai miei cari per la Festa della Mamma. Insomma, marito e figli mi hanno accompagnato in libreria, invitandomi a comprare quello che preferivo. Questo romanzo è stato scelto fra una pletora di altri possibili candidati con un criterio altamente scientifico: prendi quello più grosso e spicciati.

La scheda del libro sul sito della casa editrice La nave di Teseo

Orphea, New York, giugno 2014. Jesse Rosemberg, stimatissimo capitano di polizia, sta festeggiando il suo imminente ritiro dalla polizia quando viene avvicinato da una giornalista, Stephanie Mailer, che gli dice che il suo caso più importante, quello su cui ha costruito la sua brillante carriera, un quadruplice omicidio avvenuto nel 1994, è in realtà irrisolto. Jesse ha sbagliato persona, secondo la giornalista, e gli è sfuggito qualcosa che aveva sotto gli occhi e non ha visto. Jesse resta turbato da questa rivelazione, anche se è sicuro di aver svolto le indagini in maniera ineccepibile. Ma quando la Mailer scompare senza lasciare tracce, le certezze di Jesse cominciano a sgretolarsi. Insieme al collega di un tempo, Derek Scott, e ad una nuova arrivata ad Orphea, la vicecomandante della polizia Anna Kanner, Jesse ripercorrerrà gli eventi di quella terribile notte del 1994, e le indagini che ne sono seguite.

Pensavamo che Stephanie volesse andare nell'archivio della polizia di Orphea per consultare il fascicolo dell'indagine sul quadruplice omicidio del 1994. Perciò ci recammo subito nei locali dell'archivio e trovammo senza problemilo scatolone al cui interno doveva trovarsi il fascicolo in questione. Ma, con nostra grande sorpresa, lo scatolone aera vuoto. L'incartamento era scomprso. Dentro c'era solo un foglio di carta ingiallita dal tempo, sul quale qualcuno aveva scritto a macchina:

Qui comincia la NOTTE BUIA.

Come l'inizio di una caccia al tesoro.

La prima cosa che colpisce di questo giallo con sfumature di thriller è sicuramente la mole. Settecentoquattro pagine dense di avvenimenti e di mistero. Ma non dovete lasciarvi scoraggiare dal numero di pagine, perchè La scomparsa di Stephanie Mailer è un libro come se ne trovano pochi in giro; uno di quei romanzi che non puoi mettere giù, di quelli che continui a leggere fino a che non vedi la parola FINE davanti agli occhi.

Teatro degli eventi è la cittadina di Orphea, negli Hamptons, stato di New York. Gli omicidi sembrano legati a doppio filo alla prima edizione del Festival Teatrale della cittadina, che stava ottenendo un buon successo e catalizzando l'attenzione dei cittadini e dei media locali. Vent'anni dopo, sulla scena di Orphea c'è di nuovo il Festival e di nuovo gli eventi sembrano essere ad esso collegati.
L'ambientazione ideata da Jöel Dicker mi è piaciuta molto. Orphea ha il fascino della piccola città quieta in superficie ma ribollente di passioni e segreti nel profondo; il Festival Teatrale aggiunge qualcosa di diverso dal solito, e le dà un tocco di classe.

La storia si svolge su diversi piani temporali, e ha diversi narratori. Inizialmente i piani temporali sono due, quello del presente (2014) e quello che racconta le indagini come si svolsero nel 1994. Man mano che la trama si dipana, a questi piani temporali se ne aggiungono altri, eppure la lettura non ne risente. Non mi sono mai sentita confusa, principalmente perchè Dicker ha avuto il buon senso di assegnare ogni piano temporale ad un determinato personaggio. Jesse, tormentato dal dubbio, ci racconta le indagini nel presente, mentre il suo collega, più sicuro dell'esito dell'inchiesta del '94, ripercorre con noi proprio gli avvenimenti passati. A loro si aggiungono diverse altre voci; sul finale avremo modo di ascoltare, attraverso un espediente narrativo, anche la voce di una delle vittime.
Le voci narranti sono tutte diverse e tutte hanno qualcosa di interessante da dire. Le loro personalità e soprattutto i loro background sono curatissimi.
Dicker è un narratore molto abile. Riesce a tenere viva la curiosità del lettore imbastendo un mistero intricato ma non incomprensibile. Quello che mi ha tenuta davvero avvinta alle pagine, infatti, non è stata la curiosità, o almeno non solo; è stata l'abilità con cui l'autore ha saputo concatenare i fatti nuovi e vecchi, le scoperte che si susseguono e i nuovi indizi. Ogni elemento nuovo è introdotto con studiato tempismo. Tutto quello che c'è da vedere lo scopriamo insieme ai protagonisti, perchè l'autore ce lo mostra, invece di raccontarcelo soltanto. Questa abilità, che già avevo riscontrato nel precedente romanzo dell'autore La verità sul caso Harry Qebert, fa sì che non ci siano mai cali di tensioni o fasi di stanca, il che non è poco in un romanzo così voluminoso.

Da quanto ho appena affermato, si capisce che ho apprezzato moltissimo la trama. Ho apprezzato anche la coesione tra le varie parti della storia, e non mi sono mai trovata ad esclamare ma come è possibile che durante le indagini del '94 non abbiate visto questo?!? 
La storia ha infatti delle fondamenta saldissime ed è solido e coerente. Il piccolo dettaglio che era sotto gli occhi di tutti, citato da Stephanie Mailer prima di scomparire, effettivamente c'è, ma è microscopico ed evidentissimo al tempo stesso. Con la rivelazione di quel dettaglio, l'autore è riuscito a sorprendermi.

Se proprio devo fare un appunto a questo romanzo, devo sottolineare come alcuni personaggi secondari, per quanto avessero dei background interessanti alle spalle, mi sono sembrati un po' superflui rispetto alla trama principale. Con qualche piccolo aggiustamento si sarebbe potuto tagliarli senza rimpianti.

Consiglio questo libro a tutti gli amanti del giallo. Capita davvero di rado di riuscire a leggere storie così coerenti, ben studiate e ottimamente narrate. 

Voto: 7 e 1/2

Vi lascio il calendario della rubrica. Non siete curiosi di sapere come se la cavano le altre blogger con i libri voluminosi?  

martedì 12 giugno 2018

L'anello di Salomone. La Trilogia di Bartimeus #0.5...

... di Jonathan Stroud.


Molti secoli prima delle vicende narrate nei volumi della trilogia originale, quando ancora i grandi re e gli eroi mitici camminavano sulla Terra, il jinn conosciuto con il nome di Bartimeus si trova a Gerusalemme, al servizio di uno dei maghi di corte del grande e saggio re Salomone. Il potente monarca deve la sua forza ad un manufatto magico, un anello dalle capacità straordinarie, che lo rende invincibile ma che, allo stesso tempo, fa gola a tanti.
Quando Salomone minaccia la prosperità del regno di Saba, la Regina manda una giovane soldatessa al suo servizio ad uccidere il re, e prendere l'anello. Ma sulla strada dell'assassina, si metterà, suo malgrado, Bartimeus.

Molto lentamente, ma con passo deciso e sicuro, Joanthan Stroud sta scalando la mia personale classifica degli autori che preferisco. Questo perchè si tratta di uno scrittore che non si ripete mai, riesce sempre ad essere brillante e originale e a narrare storie che intrattengono e allo stesso tempo fanno riflettere.
L'anello di Salomone non fa eccezione.

Ci troviamo a Gerusalemme, circa mille anni prima della nascita di Cristo. La magia è parte integrante del sistema di governo; Salomone, egli stesso un mago, si circonda di un consiglio di diciassette maghi provenienti da tutto il mondo conosciuto, e fonda il suo potere sull'incredibile forza di un anello magico, unico manufatto nel suo genere, che lo rende invincibile.
Bartimeus, jinn di discreto potere ma di ego smisurato, si trova al servizio di uno dei diciassette, Khaba, probabilmente il più crudele, ambizioso e ambiguo. 

L'ambientazione è suggestiva e sufficientemente ben descritta. Trovo che la rivisitazione in chiave magica di un'epoca storica già di per sè ammantata di leggenda sia originale e sorprendente. Immaginate: Jonathan Stroud ha preso un periodo storico lontanissimo, i cui contorni si perdono nel mito, e l'ha reso ancora più mitico e magico, con una serie di elementi ben collaudati.
Tra questi, dobbiamo sottolineare innanzitutto il funzionamento della magia, che resta, a parer mio, una delle migliori trovate mai lette in un libro fantasy. Nel mondo creato da Stroud, i maghi non hanno direttamente poteri magici: tutto ciò che sanno fare è evocare degli spiriti, o demoni, da un'altra dimensione detta Altro Luogo, e costringerli, mediante formule complesse, a eseguire tutti i loro ordini. In pratica, gli spiriti sono schiavi alla mercè del mago che li ha evocati, esseri potentissimi alla costante ricerca del modo per spezzare le loro catene. Le implicazioni di un simile sistema condiziano inevitabilmente i rapporti tra i personaggi, creando una continua tensione narrativa che conferisce profondità alla trama.

Altro elemento ben collaudato è sicuramente il jinn protagonista della storia.
Bartimeus è semplicemente esilarante. Sveglio, brillante, ironico, racconta parte del romanzo in prima persona, con uno slang moderno che contrasta deliziosamente con l'ambientazione antichissima e mitica. Impossibile non adorarlo.
Questo il suo irriverente pensiero su Salomone:

Salomone voleva assomigliare ai grandi boss: i re dell'Assiria e della Babilionia laggiù ad est, gente dura che manco usciva dal letto se non c'era una testa di nemico sconfitto da calpestare sul tragitto per il bagno.

A fargli da contrappunto, questa volta troviamo Asmira, partita dal regno di Saba per portare a compimento l'ordine della sua regina di uccidere il grande re Salomone.
Laddove Bartimeus non prende nulla sul serio, non crede in niente e non è fedele a nessuno, Asmira è invece fedele, devota, seria. Pronta a morire per la causa.

Dopo qualche capitolo introduttivo dei tempi e dei luoghi, il loro incontro/scontro da l'avvio alla trama. Quando i rispettivi obiettivi sembrano chiariti, la storia pare avviarsi su binari alquanto prevedibili. E invece no. Jonathan Stroud sa regalare al romanzo svolte inaspettate, cambi di prospettiva e piccoli colpi di scena. Niente è scontato. Perciò la trama risulta frizzante e mai banale o noiosa. Non manca l'azione, soprattutto perchè la lotta al potere diventa ben presto un gioco a tre senza esclusione di colpi.
Sotto la superficie di una storia movimentata, dai dialoghi brillanti e dai personaggi accattivanti,  però, si cela ancora qualcosa. Ho apprezzato il messaggio che si intravede in controluce, tra le righe. Jonatahn Stroud ci parla, attraverso le parole mai del tutto serie di Bartimeus, della libertà e dei condizionamenti mentali che inconsapevolmente muovono le nostre scelte. Mettendo a confronto due situazioni molte diverse - la schiavitù di Bartimeus e lo stringente imperativo morale all'obbedienza di Asmira - l'autore ci porta a riflettere su cosa sia davvero la libertà.

L'unica differenza tra me e te è che io ho conoscienza della mia condizione. Io so di essere schiavo, e la cosa non mi garba affatto. Saperlo, però, mi dà almeno un piccolo spicchio di libertà. Tu non hai nemmeno quello.

Quando possiamo dirci liberi? Le nostre scelte sono veramente libere? Oppure siamo condizionati tanto da non riuscire più a distinguere la nostra volontà da quei fattori esterni che la dirigono?
Sono domande interessanti, così come è interessante trovarle in un romanzo fantasy, e per di più per ragazzi. 

Un libro che mi sento di consigliare a tutti
Voto: 7 e 1/2

Ps: Se volete dare un'occhiata alle altre recensioni che ho scritto sui libri di quest'autore, cliccate qui

lunedì 11 giugno 2018

Dov'è finita Audrey?

... di Sophie Kinsella.

Audrey ha 14 anni e indossa sempre occhiali scuri. Non esce più di casa da quando le è successo qualcosa di brutto a scuola. Audrey vive in balia dei suoi attacchi di panico e delle sue ansie, e a prima vista la sua famiglia non sembra proprio adatta ad aiutarla. Infatti Audrey deve destreggiarsi tra una madre iperprotettiva, un padre che non la contraddice mai ed un fratello maggiore, Frank, videogames-dipendente.  Solo col piccolo Felix, fratellino minore, la ragazza sembra essere davvero a suo agio. Ma quando Audrey fa, suo malgrado, la conoscenza di Linus, amico videogiocatore di Frank, un piccola crepa si apre nella sua corazza.

Sophie Kinsella è nota per i suoi libri divertenti, leggeri e sbarazzini (I love shopping e Sai tenere un segreto su tutti). In questo romanzo, però, troviamo una Kinsella diversa, che non ha perso il suo stile brillante e il suo tocco leggero nel raccontare, ma che riesce ad affrontare un tema decisamente difficile senza appesantirlo e senza banalizzarlo.
Infatti in questo romanzo Sophie Kinsella ci parla di bullismo, scegliendo di raccontarcelo da un punto di vista inusuale. L'autrice ambienta il suo romanzo diversi mesi dopo gli avvenimenti che hanno distrutto Audrey, la protagonista 14enne, e sceglie di non dare enfasi a quello che le è capitato, ma di darne piuttosto a quello che è accaduto dentro la ragazza dopo. Questa scelta mi ha dapprima sorpresa e poi conquistata con la sua semplicità e intelligenza. In fin dei conti, non è importante descrivere quali atti in concreto hanno scatenato la depressione e gli attacchi d'ansia di Audrey. È molto più importante sapere come quegli atti hanno cambiato la vita della ragazza, profondamente. In modi che non si possono immaginare. 

E a proposito di Audrey, ho amato il personaggio e la sua caratterizzazione. Senza pietismo, senza commiserazione, Audrey vive la sua vita, o quel che ne resta. Si rende perfettamente conto di aver un problema, non è affatto ottimista sulla risoluzione dello stesso ma almeno ci prova. In maniera buffa, maldestra, dolcissima. Durante la lettura non si può fare a meno di sorridere, ma neanche di provare empatia e un pizzico di tristezza.
Dopo poche pagine, pensavo che la povera Audrey non avesse chance di guarigione con la famiglia nevrotica e sopra le righe che si ritrovava, ma magicamente la Kinsella riesce a mettere tutto a posto, anche le nevrosi di una famiglia che a prima vista sembra impossibile e surreale, ma che poi si svela essere semplicemente una famiglia normale, coi suoi difetti, con le sue scelte sbagliate e i disastri conseguenti; la bravura dell'autrice sta poroprio nell'aver esagerato i tratti più problematici dei personaggi, per poi condurci per mano attraverso una trama brillante, fino alla piena comprensione delle dinamiche di questa famiglia, che non è poi così strana come ci è sembrato all'inizio. Anzi.

C'è un che di consolatorio in questa scoperta; dopo averci regalato qualche sorriso e qualche lacrime, alla fine la Kinsella ci regala anche la speranza. In fondo, nonostante tutti i nostri difetti, i guai e le difficoltà, possiamo farcela.

Voto: 8

Il gioco della seduzione...

... di Susan Elizabeth Phillips.
Phoebe Somerville eredita dal padre, forse per un ultimo dispetto, la squadra di football dei Chicago Stars. Phoebe donna bella, appariscente, sopra le righe, entra subito in conflitto con Dan Calebow, il coach della squadra. Sarà vero che gli opposti si attraggono?

Il romance non è proprio il mio genere, ma ogni tanto bisogna pur uscire dalla propria comfort zone e leggere qualcosa di diverso. Dopo aver finito Il gioco della seduzione sono ancora più convinta che il romance non sia il mio genere, ma eviterò di recensire negativamente il romanzo solo perchè questo non è il genere di storie che piacciono in me.

In realtà qualcosa che ho apprezzato in questo romanzo esiste. Infatti la protagonista, Phoebe Somerville, l'ho trovata davvero simpatica, estrosa e divertente. Phoebe è, all'apparenza, una di quelle donne interessate solo agli uomini, che ama vestire sexy e ha come unico scopo quello di civettare; eppure sotto la superficie c'è altro. Phoebe è molto fragile a causa di un trauma irrisolto e di figure genitoriali assenti. La ragazza rielabora a modo suo queste situazioni, costruendosi una corazza da feroce mangiauomini che possa proteggerla dal mondo esterno. Insomma, la filosofia di Phoebe è che la miglior difesa è l'attacco.
Quello che invece non ho apprezzato è che questa caratterizzazione del personaggio si sciolga come neve al sole non appena incrocia Dan Calebow, che è, come si capisce benissimo sin dalle prime righe del romanzo, tutto quello che Phoebe odia, disprezza e teme. Eppure, basta poco, pochissimo (io direi niente) perchè Phoebe si senta attratta da lui. Ma attratta da cosa, esattamente? Io sto ancora qui a chiedermelo.
A pagina 114 della mia versione digitale, la caratterizzazione di Phoebe va allegramente a farsi un giretto, per non ritornare mai più. E sapete perchè? Semplicemente perchè mentre Dan la fissava negli occhi, Phoebe si sentì come se anni di ragnatele ammuffite stessero scivolando via dal suo corpo per diventare umide e rugiadose.  

Psicologi e analisti, scansatevi! Ci sono gli occhi di Dan Calebow a sanare traumi pregressi e ferite ancora aperte!

Dan è macho, rozzo, maschilista e insensibile. Lo vediamo impegnato a cercarsi una compagna non sulla base dei propri sentimenti, ma sulla premessa che lui desidera una mogliettina che stia a casa a preparargli la cena e sfornare bambini. Sul serio. 

In quel momento della sua vita, stava cercando esattamente una donna sporca di farina, che faceva i biscotti e sfornava bambini. [...]
Era sul punto di voltare pagina. Niente più donne in carriera, niente più fichette alla moda, nessuna bomba sexy. Stava cercando una donna semplice, una alla quale sarebbe piaciuto farsi scompigliare i capelli da un bambino, una donna la cui idea di alta moda fossero un paio di jeans e una delle sue vecchie magliette, un tipo ordinario che passasse inosservata e non facesse perdere la testa agli uomini.

In pratica sta cercando una tata che sia brava in cucina, ma lui preferisce chiamarla moglie. 
Nel frattempo, però, c'è il sesso fatto con quell'altro tipo di donne, le poco di buono, perchè chiaramente, secondo lui, se una donna è disinibita e ama il sesso è una brutta persona. Benvenuti  negli anni cinquant... ah no, un attimo, il romanzo è ambientato negli anni '90. Ok, sono passati quasi trent'anni, ma la visione che Dan ha a della donna, del matrimonio e della società mi fa accapponare la pelle. 

Phoebe non si rendeva conto che quella era la Contea di DuPage? Le donne lì non si vestivano in quel modo, buon dio. Andavano in chiesa e votavano per i repubblicani, proprio come gli dicevano di fare i loro mariti.

Figuratevi che  avevo cominciato a sottolineare tutte le frasi sessiste che lui pronuncia, ma poi ho dovuto smettere perchè comunque avrei fatto prima a sottolineare quelle non sessiste. Se ne avessi trovato qualcuna.
Esempi? Ne posso fare diversi.
Ho trovato irritantissimo il continuo uso del termine "femminuccia" usato come insulto. 
La continua, svilente puntualizzazione che quando parla con Phoebe, Dan le guarda il senso, o le gambe, o il sedere.
Oppure le ripetute precisazioni su cosa una donna per bene debba o non debba indossare, su cosa debba o non debba fare, dire, pensare.

Fatte queste considerazioni, ben si capisce perchè non abbia provato alcun trasporto romantico per il protagonista maschile, e di conseguenza, nessuna empatia per la possibile coppia Phoebe/Dan.

Il romanzo è un lungo tira e molla tra i due, le cui dinamiche, ripeto, restano per me incomprensibili.
Il finale è piuttosto melenso e scontato.

Voto: 4 e 1/2