lunedì 29 febbraio 2016

Giorno dei morti...

... di Maurizio De Giovanni.
 
Quando l'alba tirò fuori dalla notte e dalla pioggia i contorni delle cose, se qualcuno fosse passato avrebbe visto il cane e il bambino ai piedi dello scalone monumentale che portava a Capodimonte. Ma sarebbe stata necessaria grande attenzione: a stento si distinguevano, nella luce incerta del primo mattino.
Se ne stavano là, fermi, indifferenti alle grosse gocce fredde che cadevano dal cielo. Erano seduti sullo scalino di pietra, nella rientranza ornamentale dopo i primi gradini. Le scale erano un torrente d'acqua in piena che trasportava rami e foglie dal bosco della reggia. [...]
Qualcuno avrebbe potuto chiedersi che cosa facessero là il cane e il bambino, fermi nella fredda alba di un autunno pieno di pioggia.
Il bambino era grigio, i capelli attaccati alla testa dall'acqua, le mani in grembo e i piedi sospesi a pochi centimetri dal suolo, la testa lievemente reclinata, gli occhi persi come dietro a un sogno o a un pensiero. Il cane sembrava dormire, la testa appoggiata sulle zampe, il mantello a macchie marroni zuppo, un orecchio sollevato, la coda ferma lungo il fianco.[...]
Ora la pioggia rinforza, uno scroscio forte come una ribellione al sorgere del sole; il cane e il bambino non reagiscono, la furia dell'acqua li lascia indifferenti. Dal naso dell'uno e dall'orecchio sollevato dell'altro scorrono rivoli freddi.
Il cane sta aspettando.
Il bambino non ha più sogni.
 
Napoli, autunno 1931. Mentre la città si prepara alla visita ufficiale di Benito Mussolini, ai piedi dello scalone monumentale di Capodimonte viene trovato il cadavere di un bambino, vegliato da un cagnolino. Il commissario Ricciardi, l'uomo che vede i fantasmi dei morti di morte violenta e ne ode le ultime parole, viene chiamato ad indagare. 
Il bambino è un orfano che viveva in un dormitorio finanziato dalla chiesa. L'autopsia, eseguita dal fido dott. Modo, amico del commissario, rivela che il piccolo ha ingerito veleno per topi, probabilmente accidentalmente, visto che non ci sono segni di violenza sul corpo. Eppure il piccolo è morto avvelenato; ma allora, perché Ricciardi non ne vede l'ombra?
 
Eccomi qui a parlare di nuovo di un romanzo con il Commissario Ricciardi come protagonista.
Questo è, finora, il mio preferito e le ragioni sono diverse.
Innanzitutto, la storia, che inizia con la scoperta della morte di un bimbo, è molto toccante e triste, di quelle che non lasciano indifferenti. 
Allo stesso tempo, però, è una storia misteriosa, e diversa dalle altre. Il bimbo è morto avvelenato, forse accidentalmente, eppure il commissario non vede il suo fantasma e non sente le sue ultime parole. Perché? Dov'è l'ombra del piccolo? Qualcuno ha forse sposato il cadaverino?
L'indagine di Ricciardi non può essere un'indagine ufficiale, perché in realtà non può dire a nessuno cosa lo spinge ad investigare.
Ma non è solo questo che lo spinge a cercare la verità: è morto un bambino di cui non importa niente a nessuno. Non importa alle autorità, troppo impegnate ad organizzare l'accoglienza per l'arrivo di Mussolini; non importa al prete che lo ospita nel suo dormitorio, per il quale contano solo i soldi e le donazioni; non importa agli altri ragazzi del dormitorio, che anzi, lo tormentavano con scherzi crudeli perché era il più piccolo e in più balbettava.
Ma a Ricciardi importa. Districandosi tra le sue vicende personali, gli ostacoli posti dalla Curia (che non gradisce si indaghi sulle proprie opere di carità) e dall'ottuso vicequestore Garzo che vuole presentare a Mussolini una città senza crimini violenti, Ricciardi cerca l'ombra del piccolo.
Mentre Ricciardi insegue letteralmente un fantasma, fa il suo ritorno in scena Livia, la vedova del tenore Iezzi vittima nella prima indagine del commissario Ricciardi, descritta nel romanzo Il senso del dolore.
Livia insegue un sogno, ovvero farsi amare dal commissario Ricciardi, e per questo si trasferisce a Napoli, e non tarda a subire il fascino di questa straordinaria città. 
 
Si era innamorata di quella città prima ancora che di Ricciardi; ne adorava l'allegria, la capacità di cambiare faccia e colore a seconda delle stagioni, i nugoli di scugnizzi che si appendevano ai tram sferraglianti; ne gustava la musica perenne, il fatto che a qualsiasi ora e in qualsiasi circostanza ci fosse sempre qualcuno che cantava, a squarciagola o in maniera sommessa; ne apprezzava il cibo e il clima dolce che però sapeva essere capriccioso, come in quei giorni di pioggia. In quella città proprio non riusciva a essere triste.
 
Che dire, di fronte a una dichiarazione d'amore così? Condivido ogni parola, ma nonostante ciò, Livia proprio non la reggo. A me sembra il classico esempio di donna che può avere tutto (come ci viene ricordato ad ogni piè sospinto dallo scrittore) ma desidera esclusivamente ciò che non può avere. Il mio affetto e il mio supporto vanno tutti a Enrica, la quieta ragazza che il commissario guarda vivere dalla finestra, e con cui sta tentando un timido approccio epistolare.
 
Ma torniamo all'indagine. Mentre in quelle precedenti Ricciardi si trovava a rifuggire l'orrenda eco della morte violenta, qui è costretto a cercarla.
La troverà solo alla fine del romanzo. Un finale particolarmente bello, adrenalinico, tragico e desolante. Ma soprattutto inaspettato.
Il colpevole è non solo la persona che meno ti aspetti, ma anche quella la cui colpevolezza è letteralmente un pugno nello stomaco.
 
Ricciardi è un uomo che si sente solo, isolato e condannato dalla sua maledizione. Ma non riesce a voltare lo sguardo quando gli umili, i deboli, i derelitti subiscono un torto o hanno bisogno di aiuto.
Forse Ricciardi è una figura d'uomo idealizzata, ripulita dai lati negativi, ma per me resta impossibile non amarla, perché soprattutto oggi abbiamo bisogno di qualcosa che ci ricordi che sì, l'umanità è capace di grandi slanci, non solo di nefandezze. Lo so, lo so, Ricciardi è solo un personaggio letterario, ma come tutti i personaggi ben scritti, mi parla, ed è questo quello che mi dice.
 
Voto: 8
 

sabato 27 febbraio 2016

La ragazza di fronte...

...di Margherita Oggero.

In verità, [I ragazzi della via Pal] non andava tanto bene per un bambino di quell’età, in seconda elementare, ma Michele fu estasiato di avere un vero libro da leggere la domenica pomeriggio sul balcone. Si era procurato al mercato una cassetta di plastica dura per la frutta, l’aveva rivestita con un pezzo di stoffa trafugato dal sacco degli stracci di sua madre e su quel sedile si sentiva alla pari con la bambina dai capelli quasi rossi. Quasi alla pari, perché seppur confusamente avvertiva la disparità di classe sociale: lui e i suoi nella casa sgarrupata, lei nel palazzo ricco di fronte. Però, col libro sulle ginocchia, era bello osservarla di tanto in tanto, e incrociare qualche volta gli sguardi, anche se non sempre era lei ad abbassare per prima la testa.

Questo romanzo racconta le vite parallele di Michele e Marta, che da bambini abitano l'uno di fronte all'altro e non si parlano mai, ma si guardano dal balcone. Per Michele è amore a prima vista. Marta, invece, sembra quasi non accorgersi di lui.
I ragazzi crescono, le loro vite vanno avanti e i due si perdono di vista, fino a quando il caso, o il destino, li farà incontrare di nuovo.

La ragazza di fronte è un libro molto ben scritto, tutto giocato sulle similitudini e sulle diversità delle vite dei due protagonisti.
Entrambi hanno vissuto carenze affettive da bambini (Michele proviene da una famiglia praticamente anaffettiva, mentre Marta non ha mai superato l'abbandono della famiglia da parte della madre).
Michele  ha trovato il suo punto fermo nel nonno Peppino, con cui ha vissuto fin dall'infanzia, Marta invece  sta ancora cercando il suo approdo sicuro, e quando crede di averlo trovato in un uomo affascinante e colto, ma lui l'abbandona e le spezza il cuore, lasciandole dentro una corazza di ghiaccio dura da sciogliere.
La storia di Michele, figlio di immigrati napoletani costretti a trasferirsi a causa della disoccupazione, è quella che ho amato di più. Credo che siano molto pochi i Meridionali che possano leggere pagine su un simile argomento senza immedesimarsi e senza empatizzare col protagonista. Ho apprezzato che la vicenda familiare, lo sradicamento dalle proprie radici e la necessità di ricominciare daccapo sia narrata senza pietismi e senza cinismo, nella sua naturale e quotidiana "tragicità".

Poi, due anni dopo, la ruota aveva girato male, la ditta di mobili era fallita, un altro lavoro non si trovava mentre Peppino su al Nord s’era aggiustato decentemente. Sempre un napoli era, ma con una clientela di barriera in parte ereditata da zio Biagio e in parte nuova, tutta gente che, cominciando a passare i propri guai con la crisi dell’auto, la cassa integrazione e il sindacato che aveva dovuto abbassare la cresta, di pigliarsela con i meridionali non ne aveva più voglia. Anche perché un altro Sud aveva cominciato ad arrivare.

In poche righe viene dipinta la situazione dei meridionali immigrati a Torino. Ognuno di noi ha nel cuore delle corde sensibili; a volte i libri si amano perché vanno a toccare una di queste corde. Ecco, la storia di Michele ha toccato un argomento a me caro.

Ho fatto molto più fatica a leggere di Marta e della sua vita. E' vero, essere abbandonati dalla madre  in tenera età non è proprio una passeggiata di salute, ma Marta ha deciso di attaccarsi al suo dolore pervicacemente. L'ho trovata snob, viziata, incline a giudicare il prossimo e lamentosa. Le premesse da cui la sua vita partiva erano ottime (un padre facoltoso che comunque le voleva bene, una figura surrogato di una madre, due fratelli affettuosi, ottime scuole, viaggi, eccetera), ma lei ha scelto di soffrire. Figure positive e affettuose nella sua famiglia non sono mancate, ma dal suo atteggiamento si evince che non è mai stato abbastanza.
Vero, un uomo le ha spezzato il cuore e le speranze, ma ancora una volta lei ha deciso di non reagire.
Michele invece è scappato da una madre scorbutica e perennemente scontenta, da un padre poco partecipe e da una sorella, Sofia, dispettosa fino alla crudeltà, eppure non ha perso la voglia di amare e la capacità di solidarizzare col prossimo. Riesce perfino a comprendere e perdonare l'odiosa sorella.

Due camicie, non una gli aveva confezionato Sofia. Lui, incerto tra due tessuti – era la sua prima volta con un capo di abbigliamento su misura – aveva delegato la scelta alla sorella, che invece aveva largheggiato.
     Di fronte allo specchio, aveva indossato prima l’una poi l’altra – mentre lei lo osservava compiaciuta –, rendendosi conto della differenza tra quelle cinque o sei che possedeva e queste altre, la differenza tra un prodotto ordinario e uno eccellente. L’aveva ringraziata e abbracciata, le aveva allacciato al collo una collana di pietre dure – quarzo rosa e calcedonio – che aveva comprato per lei in Via Roma e nel contatto fisico era intervenuto un brivido di commozione, la consapevolezza di un reciproco riconoscersi e ritrovarsi.
     Ma quante persone diverse siamo stati?, si chiede Michele più tardi. Una ragazzina infelice e vendicativa lei, un bambino prima succube e poi ribelle io. E adesso, che cosa ci lega al noi di allora? c’è un fildiferro sia pure contorto e ripiegato su se stesso che tenga insieme il nostro crescere e mutare, oppure si cresce prevalentemente a sbalzi rotture e negazioni del passato?
     La Sofia di adesso non conserva tracce di quella di allora eppure è la stessa persona.

E' vero, Michele ha problemi a costruirsi una relazione stabile con le donne, mail mio sospetto di lettrice è che stesse semplicemente aspettando il suo unico vero amore, la ragazzina dai capelli quasi rossi che vedeva sul balcone da bambino.
Marta invece guarda con diffidenza e distacco tutto e tutti, ed è portata ad esprimere giudizi sprezzanti sulla base di pochi, insignificanti dettagli dettagli.

Leggendo pagina dopo pagina il racconto di queste due vite, sapientemente costruito, il lettore si attende il colpo di scena che riavvicinerà i due protagonisti.
Ed è proprio qui, però, che il romanzo mi ha deluso. Il finale pare proprio tirato via, come se l'autrice avesse guardato l'orologio e avesse detto "ehi, com'è tardi! Chiudiamolo qui 'sto romanzo che domani mattina mi devo alzare presto".

Il destino porta Michele ad affittare un appartamento di fronte a quello di Marta; lui la riconosce e si palesa, lei lo tratta con spocchiosa diffidenza, lui insiste e le decide che potrebbe amarlo.
Dopo una serata in pizzeria in cui lei ha fatto del suo meglio per rendersi odiosa, infatti, Marta vede il coinquilino di Michele sul balcone.
Dov'è Michele?, vorrebbe chiedergli, ma a Torino non si grida di notte da un balcone all'altro.
Ecco questa è Marta, che non grida dal balcone, ma la mattina dopo Michele citofona e lei lo invita a salire mentre è ancora in accappatoio (per lei Michele è un tizio sconosciuto, incontrato un paio di volte). E praticamente gli cade ai piedi.

Il finale l'ho trovato frettoloso e forzato.
Resta un bel libro, comunque.
Voto 6 e 1/2.
 

giovedì 25 febbraio 2016

Il posto di ognuno...

...di Maurizio De Giovanni.
 
Al commissario Luigi Alfredo Ricciardi non dispiaceva lavorare di domenica, e questa era un'altra delle sue stranezze. I colleghi si defilavano con mille pretesti, quando venivano stabiliti i turni, madri ammalate da accudire, anzianità maturate, millantate necessità familiari: ogni scusa era buona, pur di risparmiarsi il lavoro nel giorno in cui tutta la città faceva festa.
Ricciardi invece se ne stava zitto, come al solito, e come al solito gli toccava prendersi il peggio. Non che questo gli fruttasse la benevolenza degli altri, che non perdevano occasione di mormorare alle sue spalle. Solitario, le mani in tasca, sempre senza cappello anche d'inverno; non partecipava alle feste, ai brindisi, non era mai presente alle occasioni d'incontro. Lasciava cadere gli inviti, non stringeva amicizie e non si apriva alle confidenze. Gli occhi verdi spiccavano nel volto bruno, una ciocca di capelli sempre sulla fronte che ravviava con un gesto secco. Parlava pochissimo, con fredde ironie che non tutti coglievano. Ciononostante la sua presenza calamitava l'attenzione.
Lavorava senza sosta, soprattutto quando seguiva un caso di omicidio, fra la malevolenza di quei colleghi che non erano in grado di avvicinarsi ai ritmi che imponeva alle indagini: i militari che gli erano assegnati lo maledicevano di nascosto per le ore passate sotto la pioggia o il sole, in appostamenti lunghissimi e talvolta inutili. Commentavano velenosi che ogni volta pareva che gli avessero ammazzato un familiare, si trattasse di un nobile o un poveraccio.

Il commissario Ricciardi, in forza alla Regia Questura di Napoli, è un uomo particolare. Oltre ad essere un ottimo investigatore, ha la maledizione di poter vedere le ombre di coloro che sono morti di morte violenta e di udirne le ultime parole o gli ultimi pensieri.
In una torrida domenica napoletana dell'agosto 1931, Ricciardi è chiamato ad investigare, col fido brigadiere Maione, sull'omicidio della contessa Adriana Musso di Camparino.
Seconda moglie del vecchio e invalido conte, Adriana è stata una donna molto chiacchierata. Infermiera della prima moglie, secondo molti con quel matrimonio ha occupato un posto che non è il suo. Non paga di ciò, ha condotto una vita gaudente, ed ha assunto atteggiamenti discutibili che le hanno attirato l'odio di molti. Non era certo una persona buona, la contessa. Non lo era col marito invalido, né col figliastro, né con la servitù e neanche con lo storico amante. Moventi per ucciderla ce n'erano molti, ma tutto sembra ruotare intorno alla frase che il fantasma della donna ripete a Ricciardi: l'anello, l'anello, hai tolto l'anello, l'anello mi manca.
Di quale anello parla, la contessa? Di quello nuziale, che secondo il figliastro non avrebbe dovuto portare? O di quello regalatole dall'amante con cui aveva avuto una violenta lite la notte prima di morire?  La frase che l'ombra della Contessa ripete non è così chiara come sembra, e questo contribuirà a mettere fuori strada il commissario
 
Nelle storie del commissario Ricciardi il titolo è sempre un'estrema sintesi di quello che troveremo nel romanzo. Se ne Il senso del dolore impariamo a conoscere il dolore che accompagna Ricciardi, ma anche tutti gli altri esseri umani; se ne La condanna del sangue scopriamo che in fondo Ricciardi non è l'unico a portarsi sulle spalle la condanna del destino, del fato o del sangue, a seconda di come vogliamo chiamarla, ne Il posto di ognuno ci chiediamo se questo posto a cui ciascuno di noi dovrebbe appartenere esista o non esista.
 
La contessa Adriana aveva trovato il suo posto col matrimonio? Probabilmente no, visto la vita che conduceva e il male che si divertiva a fare a tutti.
L'amante, il giornalista Mario Capece, credeva che il suo fosse accanto ad Adriana, e non a casa con la famiglia, mentre sua moglie e suo figlio avrebbero fatto qualsiasi cosa per riportarlo, appunto, a quello che ritengono essere il luogo cui egli appartiene.
E il figliastro della contessa, che la riteneva una donna indegna di succedere a suo madre, fascista convinto, crede di aver trovato il suo posto? Sì, ma non è quello che tutti credono.

L'indagine di Ricciardi si muove appunto tra i vari "posti" occupati dai comprimari di questo dramma.
Per la prima volta il commissario arriva a scontrarsi direttamente con il regime fascista, di cui non è assolutamente un estimatore.
I personaggi secondari sono ben tratteggiati e interessanti. Non credo di aver mai trovato, finora, nei libri di De Giovanni, un personaggio che fosse un classico stereotipo.
Forse, però, con il sopraggiungere della notorietà delle serie, e con l'allargarsi della platea di lettori, si nota la tendenza dello scrittore a fornire dettagli più accurati (e a volte totalmente superflui) sulla vita della città e sulle sue peculiarità. Come per esempio quando il brigadiere Maione chiarisce a Ricciardi cosa sia un basso. Dai, vuoi davvero che Ricciardi non lo sappia? La precisazione è ad uso e consumo del lettore, ma in un dialogo tra due persone che sanno perfettamente cosa sia un basso, suona artificiosa e forzata.
La vita privata del commissario trova  in questo romanzo più spazio rispetto ai precedenti, specialmente attraverso qualche flashback e alcune divagazioni;  il ritmo della storia ne risente e la narrazione risulta pertanto un po' appesantita.
La trama gialla, però, è sempre solida e ben costruita. I sospettati sono diversi e tutti sembrano perfettamente inquadrarsi nel puzzle che il commissario va a comporre, fino a che con una intuizione Ricciardi non scopre il vero significato della frase detta dalla contessa in punto di morte. 
 
E allora la conclusione qual è? Esiste il posto di ognuno in questa nostra vita? Il commissario è convinto di sì, ma individuarlo non è semplice e non è scontato. A volte, il posto di un assassino non è in galera, perché il posto della giustizia non sempre è tra le pieghe della legge.
E alla fine, Ricciardi scoprirà dov'è il suo posto? Sempre dietro a quella finestra da cui guarda Enrica, il suo amore platonico? Forse no. Forse per stavolta no. 
 
Come sempre, la voglia di leggere ancora di Ricciardi è fortissima.
Voto 7