giovedì 28 gennaio 2016

I garbati maneggi delle signorine Devoto...

... di Renzo Bistolfi.

Ecco un libro di cui non avevo mai sentito parlare, e conosciuto grazie alla partecipazione challenge delle Lettrici Geograficamente Sparpagliate.

Sestri Ponente, estate 1958. Le anziane sorelle Devoto, Santa, Mariannin e Siria conducono una vita tranquilla e abitudinaria nel quartiere dove sono cresciute. Persone semplice, affidabili e perbene, sono un po' il fulcro della vita del quartiere, che scorre tranquilla e sempre uguale. Ma le cose cambiano in fretta, arrivano dei forestieri e le signorine Devoto si trovano, loro malgrado, ad indagare sulla sparizione di una loro amica di vecchia data, sparizione a cui nessun vuole credere.
Con la caparbietà di chi sa di essere nel giusto, le tre sorelle dipaneranno la matassa del mistero, senza rinunciare naturalmente alle buone maniere e al decoro dei loro modi, anche (e soprattutto) quando la situazione si fa più ingarbugliata.
 
La messa delle otto era appena finita e le solite fedeli risalivano la via che con un paio di curve blande portava subito in collina, verso gli orti e le vigne di Borzoli, il vento sollevava piccoli mulinelli di polvere. [...] Le prime erano le sorelle Devoto che avanzavano nel consueto ordine: Santa davanti, impettita, a fendere l’aria come una polena e dietro Mariannin, che trottava a piccoli passi rapidi, tenendo per mano Siria, la cieca.
Nel quartiere erano considerate un’autorità perché appartenevano a una famiglia antica e perbene: impresari edili, gente che aveva sempre pagato il giusto, trattato bene gli operai e rispettato la parola data, che non aveva mai lasciato un conto indietro a memoria d’uomo, né aveva mai comprato a credito, neppure in tempo di guerra. [...]
Tutti le salutavano con rispetto e, quando nel quartiere c’era da ottenere un’informazione delicata o delle referenze, le sorelle Devoto erano le prime a essere interpellate.
Le tre donne, nubili e cattoliche osservanti, avevano i modi riservati e un poco rigidi di chi è consapevole del proprio ruolo e deve innanzitutto rispettarne il prestigio.
 
La storia inizia proprio dopo la messa delle otto. Mentre le tre signorine stanno tornando a casa, succede qualcosa di terribile e inaspettato. Qualcuno si butta dalla finestra del quarto piano. Chi, è perché?
Per saperlo dovremo aspettare parecchio. L'autore fa un passo indietro per presentarci tutti gli abitanti del quartiere e tutti quelli che, a vario titolo, entreranno nella storia. Questa presentazione dura all'incirca una metà del libro, e per quanto sia scritta con garbo e con stile, risulta pesante.
Troppi personaggi, troppi aneddoti e flashback che si stenta a collocare nella giusta prospettiva.
Soltanto nella seconda metà del libro la trama riprende a scorrere e diventa gradevole, interessante e non manca di riservarci un piccolo colpo di scena finale, in quello che sembrava un esisto già scritto.
 
Dopo aver letto questa storia di provincia, ambientata prima del boom economico, quando ancora le cose erano lente e la vita meno frenetica, viene spontaneo azzardare il paragone con i libri di Andrea Vitali.
A Bistolfi però manca l'ironia di Vitali, manca quel pizzico di pepe, quel non prendersi sul serio e non prendere sul serio nessuno dei suoi personaggi. 
 
Del resto le loro idee sulla società erano semplici e nette, e si riassumevano nella convinzione che il genere umano si dividesse in due categorie: quella buona, che era rispettabile, cristiana e all’antica e quella poco raccomandabile, che comprendeva tutto il resto.
 
Non c'è traccia di ironia in questa descrizione, e non ne troveremo nemmeno in seguito. La storia sembra un po' ingessata, statica, come del resto le sue protagoniste. Bistolfi sembra cedere al conformismo delle tre signorine, sembra sposarne le tesi e le vedute. E questo non conferisce certo leggibilità al suo lavoro.
 
 
Resta comunque un libro gradevole, che ha il sapore di altri tempi.
Voto: 6

 

lunedì 25 gennaio 2016

Il senso del dolore...

...di Maurizio De Giovanni.
 

Napoli, 1931. Il commissario Ricciardi, in forza alla Regia Questura della città, deve occuparsi dell'assassinio del famoso tenore Vezzi, avvenuto al Teatro San Carlo la sera della prima. Ma il commissario non è un poliziotto come gli altri. Ha la capacità di vedere gli ultimi istanti di coloro che muoiono di morte violenta, e di udirne le ultime parole o gli ultimi pensieri.

Vezzi è stato ucciso nel suo camerino, mentre era già truccato e pronto ad andare in scena per la rappresentazione de "I Pagliacci". Il suo fantasma, così come lo vede Ricciardi, piange e ripete: “Io sangue voglio, all’ira m’abbandono, in odio tutto l’amor mio finì... ”
Artista di fame mondiale, ma uomo meschino, Vezzi aveva molti nemici, e il commissario si vede costretto ad indagare la vita e l'animo dell'uomo per giungere alla verità, la quale, una volta portata alla luce, lascerà a Ricciardi (e a noi con lui) un senso di impotenza e una grande amarezza.

L'incipit:
Il bambino morto stava all’impiedi, fermo sull’incrocio tra Santa Teresa e il Museo. Guardava i due ragazzi che, seduti a terra, facevano il giro d’Italia con le biglie. Li guardava e ripeteva:
“Scendo? Posso scendere?”.
L’uomo senza cappello sapeva della presenza del bambino morto ancora prima di vederlo: sapeva che il lato sinistro, il primo che i suoi occhi avrebbero incontrato, era intatto; mentre a destra, il cranio era stato cancellato dall’impatto, la spalla era rientrata nella cassa toracica sfondandola, il bacino era ruotato attorno alla colonna vertebrale spezzata. E sapeva anche che al terzo piano del palazzo d’angolo che gettava in quel primo mattino di mercoledì una fascia d’ombra fredda sulla strada, un balconcino era serrato; sulla bassa ringhiera restava appeso un drappo nero. Poteva solo immaginare il dolore di una giovane madre che, contrariamente a lui, il figlio non lo avrebbe più rivisto. Meglio per lei, pensò. Tutto questo strazio.
Il bambino morto, per metà nascosto dall’ombra, alzò lo sguardo al passaggio dell’uomo senza cappello.
"Scendo? Posso scendere", gli chiese.
Un salto di tre piani, un dolore accecante lungo quanto un lampo. Chinò lo sguardo e accelerò il passo. Superò i due ragazzi che, con espressione seria, continuavano il giro d’Italia. Bambini poveri, pensò.
Luigi Alfredo Ricciardi, l’uomo senza cappello, era commissario di pubblica sicurezza presso la squadra mobile della Regia Questura di Napoli. Aveva trentun anni, quanti erano gli anni di quel secolo. Nove dell’era fascista.
 
Il senso del dolore è il romanzo di esordio di Maurizio De Giovanni. Si tratta di un giallo alquanto insolito, non solo per il tocco di soprannaturale dato dalla strana capacità di Ricciardi, ma perché l'evento delittuoso altro non è che una scusa per esplorare l'animo umano, le sue miserie, la sua nobiltà. Ma soprattutto le sue miserie.
Ok, detto così, sembra che io stia parlando di un insostenibile polpettone esistenzialista. Ma no, tranquilli, non è così.
Il romanzo è e resta un giallo, ben costruito ed interessante. Ma Ricciardi, più che studiare indizi, pedinare sospetti e fare deduzioni mettendo in moto "le celluline grigie", studia l'animo umano, capace di svelare qualunque segreto a chi lo conosca bene.
 
Ma Ricciardi aveva capito, ben prima di studiarlo sui libri, che il delitto è la faccia oscura del sentimento: la stessa energia che muove l’umanità la devia, fa infezione e suppura esplodendo poi nell’efferatezza e nella violenza. Il Fatto gli aveva insegnato che la fame e l’amore sono all’origine di ogni infamia, in tutte le forme che possono assumere: orgoglio, potere, invidia, gelosia. Sempre e comunque, la fame e l’amore. Li trovavi in ogni delitto, una volta semplificato all’estremo, eliminati gli orpelli dell’apparenza: la fame o l’amore, o entrambi, e il dolore che generano. Tutto quel dolore, di cui lui solo era testimone costante. E allora tu, caro Mascellone (Mussolini, n.d.Lisse), pensò Ricciardi con tristezza, puoi emettere tutti i decreti che vuoi; ma non riuscirai purtroppo a cambiare le anime, col tuo vestito nero e il cappello col fiocchetto. Potrai anche riuscire a far paura invece che a far ridere, ma non cambierai il lato oscuro della gente che continuerà ad avere fame e a provare amore.
 
Ricciardi è un uomo profondamente triste, soverchiato dal dolore che vede, sotto forma di persone morte, ad ogni angolo di strada. Convinto che i sentimenti, anche quelli belli, alla fine non portino altro che dolore e sofferenza, non ha amici, non ha una fidanzata, non ha una vita. Eppure nessuno come lui riesce a provare empatia per i più deboli, gli sfortunati, i derelitti. Nessuno più di lui possiede un alto senso di giustizia e una coerenza che non è disposto a tradire.
Difficile non simpatizzare con lui e con il suo amore platonico per una ragazza che abita nel palazzo di fronte al suo, e che lui vede ogni sera attraverso i vetri di una finestra. E' così che Ricciardi vive, nascosto dietro un vetro, guardando tutto, senza farsi vedere; il resto dell'umanità ignora fino a che punto egli possa vedere, guardare e capire.
Ricciardi è un eroe romantico, triste, solo, ma non disperato, né esacerbato nell'animo. E' per questo che lo amo e lo apprezzo come personaggio letterario. 
I romanzi che lo vedono protagonista, più che gialli deduttivi, sono gialli intuitivi. Bisogna infatti seguire le intuizioni di Ricciardi per cercare di restare al passo col Commissario e per arrivare con lui a dipanare la matassa.
In particolare il finale di questa storia riserva una sorpresa, che per ovvi motivi non svelerò, ma che ancora una volta distingue il romanzo dagli altri del medesimo genere letterario.
 
La scrittura di De Giovanni è semplice e lineare, a tratti modellata sulle costruzioni della lingua napoletana.
Bisogna notare però che l'autore ha la tendenza leggermente fastidiosa a insistere nella ripetizione di alcuni particolari caratterizzanti. Ad esempio: gli scugnizzi giocano per strada con un pallone fatto di stracci - è un concetto semplice, basta che l'autore lo dica una volta e sono sicura che il lettore medio riesce ad afferrarlo.
Gli occhi di Ricciardi sono verdi e trasparenti come il vetro - anche questo, beh, giuro che dopo le prima tre o quattro volte me lo ricordo! Davvero! Non ha senso ripeterlo in continuazione.
Altra cosa che non mi è piaciuta, è la tendenza a spezzare la narrazione con informazioni sul passato ora di Ricciardi, ora di personaggi secondari. Questa è una cosa che non sopporto, spezza il ritmo della narrazione e appesantisce il romanzo. 
 
Infine, una notazione a parte merita l'ambientazione: Napoli. Splendida ma non perfetta, non immagine da cartolina, ma vera e lontana dagli stereotipi sia positivi che negativi.
 
Nel vento freddo di quel mercoledì mattina, Ricciardi scendeva da piazza Dante. Le mani nelle tasche del soprabito grigio scuro, la testa un po’ incassata nelle spalle, lo sguardo fisso a terra. Camminando a passo svelto, senza guardarla, sentiva la città. Sapeva che avrebbe varcato, nel percorso da piazza Dante a piazza del Plebiscito, un invisibile confine tra due realtà distinte: a valle, la città ricca, dei nobili e dei borghesi, della cultura e del diritto. A monte, i quartieri popolari, al cui  interno vigeva un altro sistema di leggi e norme, altrettanto o forse ancora più rigido. La città sazia e quella affamata, la città della festa e quella della disperazione. Quante volte Ricciardi era stato testimone del contraddittorio tra le due facce della stessa medaglia.

Ho amato questo romanzo anche per questo.

In sintesi: consigliato a chi non cerca un giallo d'azione. Voto: 7

domenica 24 gennaio 2016

La Piuma...

...di Giorgio Faletti

Caro Giorgio Faletti,

io e te non ci eravamo lasciati bene. L'ultimo tuo libro che avevo letto non mi era piaciuto (vedi questa recensione). Ma la stima che avevo di te e del tuo lavoro era (è) rimasta immutata.
Ieri sera ho letto La Piuma. E ho ricordato perché adoro i tuoi libri.
Tu, quando scrivi, prendi dal caos lettere e parole, e crei l'armonia.
L'armonia che tu hai creato non è ferma alla sola forma del racconto, ma arriva in profondità.
E secondo me questo è anche il senso del racconto La Piuma; ogni essere umano ha la possibilità di creare la sua armonia, ma spesso non vediamo questa possibilità che ci balla davanti lievemente.
 
E allora in questa favola delicata che è La Piuma, abbiamo diversi personaggi, tutti alle prese con le loro passioni, amore, avidità, sete di potere. A ognuno viene data la possibilità di scoprire qualcosa di diverso, di intravedere un diverso modo di essere; sarebbe bastato alzare gli occhi al cielo per un momento.

Non è un caso che proprio L'uomo dal foglio bianco sarà l'unico a vedere e afferrare la piuma e...
Non voglio dire altro. Non voglio rovinare la lettura a chi lo leggerà dopo di me. Posso soltanto consigliarlo, anche se a me ha messo una malinconia incredibile.

Mi manchi, caro Giorgio Faletti.

venerdì 22 gennaio 2016

IL conto delle minne

...di Giuseppina Torregrossa.
 
Di solito evito come la peste libri che contengono alimenti (specie se si tratta di dolci) nel titolo.
Non saprei dire perché, è una mia fissazione. Ho l'impressione che tali titoli siano studiati a tavolino per essere accattivanti, e nascondano in realtà delle solenni fregature. Tali titoli mi evocano immediatamente ciance sull'odore del cioccolato che si scioglie, su dolci che lievitano in forno come metafora della vita e dell'amore e bla, bla, bla. 
E' un pregiudizio, lo so.
 
Bene, Il conto delle minne invece mi ha colpito per la sua delicatezza che di frivolo o superficiale non ha nulla.
 
La piccola Agata è una bambina palermitana nata e cresciuta una casa senza amore.  Il suo punto di riferimento è la nonna, che si a chiama Agata, che le tramanda la famosa ricetta di famiglia delle minne di Sant'Agata, il dolce che si prepara per devozione alla Santa.
Insieme alla ricetta, la nonna dona alla nipotina un punto fermo nella vita.
 
"La vigilia della festa di Sant’Agata, mia nonna Agata, buona anche lei come la santa, veniva a prendermi a casa. Mi trovava al balcone, impaziente di uscire, tirata a lustro con indosso il vestito buono, i capelli divisi al centro della testa da una scriminatura dritta e legati stretti da due fiocchi rosa da femminuccia. Scendevo le scale volando, felice di lasciare per qualche ora i miei genitori che, quasi sempre scontenti, rendevano l’aria di casa irrespirabile.
Ero grata a mia nonna per le sue attenzioni amorevoli, i piccoli gesti affettuosi, le carezze leggere, gli incoraggiamenti non richiesti, i complimenti a non finire che abbisognano ai bambini per crescere sicuri e sviluppare fiducia nella vita. Papà e mamma non si perdevano in cose inutili, come loro chiamavano la tenerezza e l’amore, e mia nonna quando poteva suppliva alle loro manchevolezze."
 
Un po' La casa degli spiriti (la prima parte), un po' Chocolat, Il conto delle minne racconta la vita di Agata e della sua famiglia. Le storie delle famiglie palermitane che ruotano intorno ad Agata si intrecciano e si sciolgono e sono raccontate con leggerezza ma senza superficialità.
Il romanzo parte come un grande affresco, una saga familiare, e poi con naturalezza si focalizza sulla sola Agata. Le storie sono interessanti, tristi o divertenti, mai noiose né slegate l'una dall'altra.
Se proprio devo trovare un difetto a questo romanzo, che mi è piaciuto moltissimo, è questo: avrei gradito che l'autrice andasse più in profondità quando dipanava i fili delle vicende familiari, senza accontentarsi di toccare solamente alcune storie, che sono appena accennate e che lasciano il lettore con il palato insoddisfatto (tanto per restare in tema).
 
Le minne del titolo, lungi dall'essere una semplice "decorazione", rappresentano le tradizioni, le radici, quel bagaglio che ci portiamo dietro tutta la vita anche se crediamo di averlo gettato dal finestrino del nostro treno in corsa.
Non a caso ad un certo punto della storia Agata perde la preziosa ricetta scritta dalla nonna ormai scomparsa; ma dopo un certo numero di esperienze, anche dolorose, la ricetta salta fuori di nuovo.
Io l'ho interpretata come una metafora: per scoprire il senso della tua vita, per sapere dove stai andando, devi sapere da dove vieni. E accettarlo.
 
Insintesi: consigliato a chi ama le saghe familiari. Voto 7 e 1/2.